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Taddei: questa crisi è una opportunità

L’uscita della Gran Bretagna dalla Unione Europea segna un giorno di crisi per il progetto europeo. È un giorno triste per noi e per i nostri figli ma non è un funerale. Non è quindi lo sconforto che dovrebbe prevalere in noi, quanto piuttosto l’insoddisfazione. L’insoddisfazione per l’incapacità della politica britannica di convincere il proprio popolo di quanto poco senso abbia una Gran Bretagna che si estranea dal più grande e ambizioso progetto democratico di pace e prosperità del mondo: l’Unione Europea.

 

Che le crisi siano opportunità è oramai il luogo comune per politicanti di provincia e cultori dell’etimolo gia. La realtà è che le crisi sono un’occasione per rompere l’inerzia del processo politico e superare la pigrizia di classi dirigenti stanche e incapaci. Siccome si tratta di un’occasione e non di una certezza, è facile comprendere lo scetticismo di molti tra noi. Quello scetticismo è lo stesso che ha portato all’esito del Referendum ed è il nemico da sconfiggere con la forza dei risultati.

 

Non dobbiamo però commettere l’errore di criticare i risultati del referendum su Brexit, specie quando si sono recate a votare molte più persone della norma (72%). È invece nostro dovere comprendere quel risultato offrendo risposte alle domande poste da quel voto. Contrariamente da quanto è emerso in un dibattito britannico spesso buffonesco, sono domande molto concrete: qual è il ruolo dell’Europa nella
vita dei cittadini europei e, soprattutto, quali problemi essa può risolvere. L’Unione Europea ha rappresentato per i cittadini britannici solo uno snodo di problemi, un centro di costo che non sapeva dare nessuna soluzione concreta nei tempi necessari: dalla crisi economica all’accelerazione della immigrazione, dalla lotta al terrorismo alla politica estera.

 

La Gran Bretagna aveva già scelto di guardare con scetticismo al progetto di integrazione europea quando aveva richiesto di non partecipare all’Euro. Ieri ha rinunciato definitivamente all’ambizione di partecipare. Il nostro paese, insieme alle altre più importanti democrazie europee, ha scelto l’opposto: adottando l’Euro abbiamo legato il nostro destino a quello tedesco, francese e spagnolo, oltre a quello di molti altri popoli. Ora quei paesi devono essere coerenti facendo funzionare quel legame. Ma allora dobbiamo essere franchi: quel legame non funzionerà se l’Europa non saprà sostenere una crescita economica uniforme, che schiacci le disuguaglianze attraverso la creazione di posti di lavoro. Le persone pesano i valori, ma contano innanzi tutto i lavori. E giusto che sia così: se vogliamo tutelare i valori di democrazia e apertura così profondamente europei, allora dobbiamo offrire una base di sicurezza economica che ad oggi l’Europa non garantisce. Questo significa prontezza nella gestione delle crisi proprio quel che è mancato con la crisi economica prima e con l’immigrazione oggi e capacità di visione strategica: quali intelligenze e competenze vogliamo sostenere nei nostri cittadini e in quali settori pensiamo possano lavorare.

 

Un importante manager italiano mi ricordava come, all’interno dell’Eurozona, alcuni politici e cittadini vedano tutto in termini “pattizi”: l’Europa sarebbe un insieme di regole condivise che limitano ed organizzano la nostra convivenza. Quelle regole sarebbero quindi un valore in sé. L’Italia, entrando nell’Euro, ha scelto diversamente perché crede che lo sviluppo raggiunto insieme al resto dell’Europa valga molto di più di quello raggiunto come singolo paese: il nostro paese non sta ai patti come valore in sé, ma solo nella misura in cui questi favoriscono la cooperazione trai popoli. È la cooperazione peri fini comuni la base della fratellanza europea, ed è la cooperazione tra le nazioni che il Partito Democratico invoca di fronte a chi limita la propria azione nei confini “pattizi” confondendo i mezzi con i fini.
Lasciando gli incontri di Bretton Woods, quando venivano.messe le basi per Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale per contribuire alla stabilità e allo sviluppo economico mondiale, Keynes dichiarò: «quando penso alla mia casa, non penso all’Inghilterra mà all’Europa». Oggi è arrivata l’occasione per ricordare agli inglesi il valore di quello a cui hanno rinunciato.

 

Fonte: l’Unità

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