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Assemblea nazionale Amministratori locali PD – Relazione introduttiva di Matteo Ricci

Dai territori l’energia locale per la proposta di governo del Paese

Dal 4 dicembre si è aperta una fase politica nuova. Nella premessa va rimarcato che il referendum è stata una grande occasione mancata per il Paese. Non significa non essere rispettosi del voto popolare. Il popolo ha sempre ragione ma è evidente che, adesso, il dibattito politico stia tornando indietro. Quasi un clima da Prima Repubblica, senza i partiti della Prima Repubblica. Abbiamo ancora il Senato, il bicameralismo perfetto, le Province, il Cnel, il conflitto tra Stato e Regioni. Non possiamo, di certo, non considerare con attenzione l’esito di un voto popolare così partecipato. Ma mentre recuperiamo – e facciamo autocritica – non dobbiamo neanche dimenticarci che abbiamo un grande compito: rappresentare quel 41 per cento che si è espresso per le riforme. Ovvero 13 milioni di italiani che credono nel cambiamento. Persone che non vogliono un Paese che si arrende ma che, piuttosto, rilancia. Che vedono nel Pd e in Matteo Renzi gli unici interpreti per far ripartire una stagione di riforme e cambiamenti radicali. Anche istituzionali. Lo sottolineiamo anche perché, in quei giorni, sono passati per ‘difensori’ della Costituzione coloro che non si sono mai visti alle celebrazioni del 25 aprile, del Primo Maggio, della Festa della Repubblica. E che, in realtà, avevano solo l’obiettivo di colpire il governo e la nostra leadership. Ma adesso, a chi ha scelto il fronte del No – magari anche nel merito e in buonafede – domandiamo se quella vittoria è stata riscossa da Zagrebelsky o Grillo, dall’Anpi o Salvini. A loro chiediamo ancora se il Paese sia più o meno forte, più o meno giusto.
E’ necessario comprendere cosa non ha funzionato, analizzare il nodo del voto dei giovani e del sud. Così come il legame del risultato referendario con le questioni di stretta attualità nell’Occidente, da Trump ai populismi in Europa. E’ imprescindibile interrogarsi su questo nuovo schema sociologico e politico, segnato da chi è dentro o fuori, da chi si sente incluso o escluso. Non si tratta solo di poveri contro ricchi. Perché così come tanti poveri in difficoltà, anche tanti ricchi sono affascinati dalle sirene degli urlatori e da chi persegue la spallata contro chi governa. E viceversa tanti poveri, all’interno di comunità con reti di sostegno e servizi, se non si sentono soli, comprendono che la vera risposta di governo è quella pragmatica, progressista, riformista.

Il nuovo schema

E’ una questione che coinvolge anche noi amministratori. Dall’analisi del voto del referendum, si evince che quel 41 per cento che ha scelto il Sì, pur con un’affluenza diversa e più alta, corrisponde al voto del Pd nei territori, alle elezioni europee. E anche geograficamente c’è chi si sente più dentro alla comunità o più fuori. Andiamo meglio al centro-nord e peggio al sud. Abbiamo più forza nei grandi centri e meno nelle piccole realtà. Il nuovo scenario sociopolitico interroga gli amministratori che tutti i giorni fanno comunità. Tenendo presente che la sfida dei prossimi mesi sarà sempre più tra urlatori-populisti, da un lato, e riformisti-innovatori, dall’altro. Attenzione: non si creda alle dichiarazioni di facciata sulle alleanze. Perché ogni volta che è stato possibile, si è assistito all’alleanza dei populisti: nel secondo turno delle amministrative lo scorso giugno, come nel ‘cartello’ del No al referendum. Sarà così anche alle prossime elezioni politiche. Magari non si vedrà prima, ma il giorno dopo in parlamento. Nel nuovo scenario, i sindaci e gli amministratori regionali devono essere protagonisti nella capacità di costruire comunità. Tenere dentro, e non fuori, i tanti che si sentono abbandonati. Che alimentano, di conseguenza, la rabbia abbinata alla volontà di scegliere una risposta più populista e meno riformista.

Le storie della buona amministrazione

Un errore da correggere è non avere mai raccontato, negli ultimi anni, la buona politica portata avanti a livello locale. Non si è fatto e bisogna invertire la rotta. Governiamo nel 65-70 per cento dei Comuni italiani in formazioni di centrosinistra e in schieramenti civici. Governiamo in gran parte delle Regioni. Ma da mesi il dibattito politico è schiacciato solo su due aspetti: cosa fa il governo nazionale e cosa fa il Movimento Cinque Stelle sui territori. E’ uno schema da cui bisogna uscire. Dobbiamo paragonare l’incapacità del governo romano a quello che sta facendo Falcomatà a Reggio Calabria. Che ha ereditato un Comune in dissesto, ma non ha di certo i problemi che ci sono oggi a Roma. Va messo in relazione ciò che viene fatto a Livorno e quello che Gori fa a Bergamo, Gnassi a Rimini, Scanagatti a Monza. Evidenziando l’approccio differente e la capacità diversa di governo. Rivendicando con forza che la nostra migliore classe dirigente è nei territori. Non è sotto i riflettori, non ha la capacità di parlare mediaticamente a livello nazionale. Ma tutti i giorni ci mette la faccia, conosce la fatica del governo, sa che gli viene caricato addosso tutto. E in questi anni difficili ha messo in campo capacità di resistenza e innovazione.
C’è una classe dirigente che sa governare, lo ha dimostrato storicamente e lo sta dimostrando ora. Nessuno le dice che giunta fare, nessuno le detta i nomi degli assessori o le fa firmare contratti per tenerla sotto ricatto con penali economiche. C’è una classe dirigente che non prende ordini da un blog, ha la sua autonomia, tutti i giorni decide con la sua testa, nell’ambito dei suoi valori. Dobbiamo essere molto più orgogliosi di questo. Specie perché non abbiamo mai messo il nostro partito prima del nostro Paese. Prima della nostra città, o della nostra regione. Perché quando vinciamo le elezioni, un minuto dopo rappresentiamo tutti. Non parliamo a nome di un movimento o di un partito. E’ un atteggiamento mentale, che appartiene a una cultura di governo. Al contrario di altri, per cui viene prima il Movimento della città che si amministra. Un modo ben differente di intendere la politica.

Il cambio di passo

Partiamo da un dato di fatto. I tagli continui agli enti locali, abbinati al blocco del patto di stabilità, hanno reso quasi impossibile, per un settennio, il compito degli amministratori. Negli ultimi due anni, però, si è registrata un’inversione di tendenza innegabile. Sui trasferimenti dallo Stato, ma anche sul rilancio degli investimenti per tanti Comuni virtuosi. E’ avvenuto attraverso l’accordo che supera il patto di stabilità, nel passaggio al saldo di competenza, in grado di liberare due miliardi di investimenti nel 2016 e altri due miliardi nel 2017. Che si traducono in lavori su strade, scuole, impianti sportivi, arredi urbani, illuminazione pubblica, bloccati da almeno 10 anni. Si aggiunge lo spazio nuovo per l’edilizia scolastica, il bando per le periferie urbane da 2 miliardi e 100mila euro, le risorse sulla sanità e sul sociale. Azioni importanti, che però non sono state raccontate. Facciamo un esempio. Sui social network, per gli altri, diventa un pezzo di propaganda anche l’accensione del riscaldamento fatta due ore prima nelle scuole di Roma, nelle giornate invernali. Cosa che noi facciamo abitualmente. Ma se a Pesaro si spiega ai consiglieri comunali, di quartiere e dei circoli che si passa, nel giro di un anno, da due milioni e mezzo a 30 milioni di investimenti, da 18 strade asfaltate a 120, nel dibattito il primo intervento è per la via o il lampione che mancano.
Il partito non deve essere il megafono dell’amministrazione nelle realtà dove si governa. Ma neanche l’ambiente delle sole lamentele, mentre gli altri fanno la propaganda sul nulla. Non possiamo trasformare le nostre riunioni di amministratori in una terapia di gruppo dove ci raccontiamo tutte le ‘sfighe’. Piuttosto raccontiamo, nonostante le difficoltà, il buon governo che siamo in grado di interpretare e il tanto che stiamo facendo. Perché ci sono esperienze concrete che stanno cambiando il Paese. Garantendo la tenuta sociale, laddove ci sono grandi problemi. Buone prassi che sono oggi una straordinaria risorsa da valorizzare.

Dal welfare alle trasformazioni urbanistiche

Non abbiamo raccontato, in primis, il sociale. Possiamo farci dare lezioni sul tema? Tutti noi impegniamo almeno un terzo del nostro bilancio sul welfare. Sui più deboli, sugli asili, sui servizi. Anzi, abbiamo aumentato: fondi anticrisi, tirocini formativi. La nostra capacità di andare incontro a bisogni crescenti è un pezzo d’Italia. Che, se non ci fosse, renderebbe la situazione del Paese molto più difficile rispetto a quella che è. Dobbiamo raccontarlo, incrociandolo con gli sforzi che il governo ha fatto. Citiamo il fondo per la non autosufficienza, la legge sul ‘dopo di noi’, le risorse per il sociale e la povertà estrema. Diciamolo così: noi, il reddito di inclusione, lo facciamo tutti i giorni, con le nostre politiche sociali. Una grande parte della protezione e della rete del welfare passa attraversa i Comuni.
E ancora: in un momento in cui il Paese ha scommesso sulla cultura come grande sfida identitaria, non abbiamo raccontato i grandi investimenti culturali nei territori, la capacità di tenere alto il livello di civiltà, unita a quella di fare della cultura un elemento di sviluppo economico italiano. Tutto questo, naturalmente, in aggiunta alle politiche nazionali, a partire dall’art bonus. Su beni culturali e turismo, apriamo una parentesi. Non possiamo accorgerci dei piccoli Comuni solo quando c’è il terremoto. E non possiamo lasciare il Centro Italia solo, nell’emergenza come nella capacità di rilancio. Abbiamo invece bisogno che il Centro Italia veda il Paese protagonista, non solo nella ricostruzione ma anche in una grande campagna promozionale di rilancio economico. Perché altrimenti, ai danni concreti del terremoto, si aggiungeranno quelli economici del turismo, che di certo non possiamo permetterci.
Non abbiamo valorizzato le nostre politiche urbanistiche. Chi può darci lezioni sul consumo di suolo? Stiamo trasformando le città, lavoriamo sul costruire nel costruito, partecipiamo ai bandi di riqualificazione urbana. Insistendo sulla riqualificazione energetica grazie agli incentivi, rinnovati da quest’anno anche su hotel e condomini, verso una politica forte per una nuova edilizia. Mettiamo in campo proposte sulla sismica e sull’efficientamento energetico. Innovando in giro per l’Italia con la formazione del Fondo sociale europeo nelle case dei cittadini. Per offrire un servizio gratuito, facendo crescere la consapevolezza della salute energetica dell’edificio e dando una mano alla ripartenza di micro-cantieri nell’edilizia. Un approccio che può diventare un tassello di politica nazionale, raccontando la nostra idea sullo sviluppo urbanistico.
Non solo: non abbiamo valorizzato le politiche ambientali, le società sane che gestiscono i servizi pubblici locali. Perché nel pubblico, e pubblico-privato, una società che fa debiti non è gestita bene e non va a vantaggio dei cittadini. Meno ideologia e più pragmatismo, anche da questo punto di vista. Siamo i primi a fare la raccolta differenziata puntuale, che abbiniamo però con altre politiche su discariche o inceneritori per il resto dei rifiuti. Altrimenti – lo vediamo altrove – la spazzatura riempie le strade. Anche qui applichiamo il nostro riformismo concreto. Quello di chi si pone obiettivi con capacità di governo.
Ci sono poi le nostre politiche sulla mobilità, le tante ciclabili, le smart city che stiamo costruendo, il tema dello ‘spreco zero’. La p.a. digitale, gli sforzi sull’innovazione.
Le politiche sanitarie che le nostre regioni stanno portando avanti, seppure nelle specificità. Con una sottolineatura sul tema: basta bufale, sì alla scienza. Siamo dalla parte delle Regioni e dei Comuni che vogliono mettere, nei servizi per l’infanzia, l’obbligatorietà della vaccinazione. Ci fidiamo più dei medici che delle bufale sul web. Anche questa può essere azione di governo. Così come la nostra capacità di attrarre fondi europei: iniziative che mettono in moto, più di altre, una crescita espansiva.

Migranti, pragmatismo e responsabilità

Di certo una delle emergenze più grandi che stiamo affrontando, tra mille difficoltà, è la gestione dei profughi e dell’accoglienza. Tanti sindaci, da subito, hanno evidenziato ai prefetti indicazioni semplici e chiare. La prima: piccoli gruppi in comunità estese. Perché gruppi troppo ampi in comunità troppo piccole rendono il fenomeno ingovernabile, al di là di tutta la solidarietà possibile. Il criterio dell’accoglienza diffusa è imprescindibile, anche per segnare il limite tra chi vuole affrontare i problemi e chi fa solo propaganda. Non a caso poi è venuto fuori il rapporto di 2,5 profughi ogni mille abitanti. Se la percentuale è accettabile ognuno deve fare la propria parte. Se invece si supera quell’equilibrio è un altro paio di maniche. Siamo stati sempre noi, inoltre, i primi a dire che questi ragazzi non potevano stare tutto il giorno senza fare nulla. Era sbagliato per loro, perché non gli consentiva di raccontare la loro storia e di integrarsi. Era sbagliato per noi, perché sapevamo che quell’impatto creava tensioni sociali, in un momento in cui la guerra tra gli ultimi è la cosa più facile da avere. Siamo stati i primi a inventarci il lavoro socialmente utile, il volontariato in lavori di pubblica utilità. E siamo contenti che il ministro Minniti, su questi due punti, abbia sposato le nostre proposte. Ora vogliamo far diventare il tema del lavoro socialmente utile un pezzo di strategia nazionale. Perché dove si è fatto è stato un meccanismo che ha attutito le tensioni e ci ha consentito di gestire al meglio il fenomeno. Il ministro giustamente sta scegliendo un approccio pragmatico, che tiene ai margini gli estremismi. Perché si deve fare l’accoglienza, ma bisogna anche mettere gli amministratori nelle condizioni di farla. Ed essersi posto il problema del rimpatrio per i soggetti più problematici, costruendo un meccanismo ad hoc con le regioni, è uno sforzo che va nella direzione giusta. Tenendo presente che è difficile il tema dei rimpatri, che l’esperienza dei Cie è stata fallimentare e che sono necessari accordi bilaterali tra Stati.
Sulla sicurezza, peraltro, è in discussione un provvedimento che include i temi del decoro e dell’abusivismo. Questioni su cui tutti danno la colpa ai sindaci. Ma a loro vanno dati gli strumenti per intervenire, con la stessa logica che tiene insieme solidarietà e pragmatismo di governo.

Nuovi assetti

Racconteremo storie di buona amministrazione, mettendo in campo le nostre proposte. Una, da approfondire subito, riguarda gli assetti istituzionali. Anche in questo caso molto è cambiato con l’esito del referendum. Le Province sono rimaste in Costituzione. Noi le volevamo abolire, e in quest’ottica si è aperta una fase di transizione difficilissima.
La mancata riforma impone due cose semplici. In primo luogo: non si torna indietro sul sistema d’elezione. Le Province devono rimanere un ente di secondo livello e un luogo di collaborazione tra sindaci. Ma siano messi nelle condizioni di fare subito gli amministratori. Servono urgentemente risorse per le strade, per le scuole e per i servizi essenziali per i cittadini. Se, dopo il referendum, vogliamo fare in modo che la legge Delrio sia gestibile, è questo il nodo principale da sciogliere. Di più: approfittiamo per far diventare le Province un luogo di semplificazione amministrativa. Facendo coincidere con le assemblee provinciali dei sindaci gli Aato, i consorzi, le miriadi di enti che ci sono. E che possono trovare in questo modo, in quell’assemblea, un elemento di razionalizzazione.
In parallelo dobbiamo far decollare le Città Metropolitane, delle quali abbiamo estremo bisogno per lo sviluppo del Paese. E mettere mano ai piccoli Comuni. Prima del referendum è stata approvata la legge Realacci, adesso bisogna finanziarla. Con risorse che consentano ai piccoli centri di non spopolarsi, di garantire i servizi. Perché non possiamo accorgerci che sono dei presidi solo quando ci sono le emergenze. Altro elemento: se sono state svuotate le Province, non possiamo non rafforzare i Comuni. Oggi il tema dell’associazionismo dei Comuni è legato esclusivamente ai piccoli centri. E’ un errore, perché il rafforzamento è un problema di tutti. Come Anci abbiamo proposto un meccanismo aggregativo incentrato sui bacini omogenei. Che sono presenti in ogni Provincia, per motivi morfologici, sociologici, economici. Facciamoli diventare Unioni dei Comuni, mettendo insieme almeno tre funzioni, che possono anche diventare di più, dove si è in grado di farlo, con un meccanismo incentivante. Lasciando libertà nel tema delle fusioni, facoltative, con l’iter esistente nei passaggi in consiglio comunale e referendum. Ma continuiamo a incentivare l’aggregazione perché ottomila Comuni italiani, così come li abbiamo conosciuti, nello scenario in cui siamo, non reggono più. Se vogliamo mantenere i servizi anche in futuro – per i più deboli, per la cultura, per le manutenzioni – abbiamo bisogno di una pubblica amministrazione più efficiente. Che metta insieme. Deve diventare un punto di rilancio della nostra politica, così come l’esigenza di recuperare un po’ di autonomia fiscale. Senza ritocchi delle tariffe e delle aliquote: dobbiamo essere coerenti con l’azione del governo Renzi. Perché se abbiamo avuto un po’ di crescita, dopo anni di recessione, adesso dobbiamo sostenerla con gli investimenti, Se si è registrato il segno ‘più’ sull’occupazione, dobbiamo ulteriormente supportarlo. Se c’è stata la riduzione della pressione fiscale – graduale ma costante – non possiamo essere quelli che vogliono aumentare le tasse locali. Non lo saremo mai ma contestualmente, però, vogliamo recuperare autonomia e semplificazione fiscale. Su questo tema, due anni, fa si è aperta la discussione intorno alla ‘local tax’, uno strumento unico per tenere insieme le tassazioni locali. Come partito dobbiamo aprire una riflessione, verso una nostra proposta. Che va fatta anche sulla riforma delle regioni: se devono fare le leggi e la pianificazione, ma non la gestione (fatta eccezione per la sanità), ha senso che, ad esempio, regioni da un milione e mezzo di abitanti come le Marche stiano da sole? O è più giusto che costruiscano un rapporto sempre più forte con l’Umbria e la Toscana? E’ pensabile che questo Paese abbia provato a mettere mano alle riforme di tutto, tranne che delle regioni? Evitiamo che diventino soggetti sempre più gestionali, a discapito dei territori.

La qualità della crescita

In parallelo dobbiamo mettere in campo un po’ di innovazione. Chiariamo l’equivoco sulla ‘decrescita felice’. La decrescita è infelice: ha prodotto povertà e mancanza di lavoro. Lanciamo una sfida vera sulla qualità della crescita. Sappiamo che l’Italia non crescerà più a tassi del 10 per cento. Il nostro obiettivo è crescere a tassi più sostenuti di quelli odierni, del 2-3 per cento su scala pluriennale. Ma a ben guardare, gli amministratori locali si impegnano costantemente sulla capacità di fare crescere la qualità della vita. C’è uno strumento statistico che l’Istat ha creato alcuni anni fa, entrato di recente nella legge di bilancio. Si tratta del Bes, il Benessere equo e sostenibile. Un indicatore che misura il Prodotto interno lordo – perché senza Pil non c’è lavoro, né redistribuzione di ricchezza – ma anche la qualità ambientale, le protezioni sociali, il livello culturale, la tenuta sanitaria, il livello di istruzione. Ovvero le politiche che gli amministratori fanno ogni giorno, segnando la differenza tra buon governo e cattivo governo. Raccogliamo la sfida, accettando di misurare così la crescita delle nostre città.

L’orizzonte

Sono in molti a sostenere che lo scorso 4 dicembre sia terminata la legislatura. Lo crediamo anche noi, ritenendo che sia giusto tornare a votare entro i primi sei mesi del 2017 per le politiche. In ogni caso, si voterà per le amministrative in quasi mille Comuni, tra maggio e giugno. Saranno chiamati a esprimersi più di 10 milioni di italiani, in centri importanti, tra cui 25 capoluoghi di provincia. A ottobre, inoltre, si terranno le elezioni regionali in Sicilia.
Mentre lo scenario nazionale prenderà forma, dobbiamo preparaci al meglio per questi appuntamenti. Con la testa larga. Significa che un sindaco che ha governato bene, se si vuole ricandidare al secondo mandato, si ripresenta. A prescindere dalle correnti. Altrimenti si aprono ragionamenti su altre ipotesi, vedi primarie o candidature unitarie. A livello locale abbiamo sempre fatto alleanze. Ci interessa l’esperienza di Pisapia, così come quella di altre civiche a sinistra, già esistenti a Cagliari e in altre città. Sono un laboratorio da coltivare. Così come va rinnovato il patto con il civismo moderato.
Di sicuro le amministrative non sono congressi interni. E le primarie non si fanno per regolare conti, ma per scegliere il candidato migliore.
Abbiamo un’ottima classe dirigente da valorizzare. Tutti i giorni proponiamo il cambiamento. Vogliamo mettere in circolo questa energia locale. Buona amministrazione a disposizione del Pd, per il futuro governo del Paese. Ripartendo dai territori.

Rimini -Testo scaricabile – Relazione Ricci

Assemblea nazionale Amministratori locali. Programma ed interventi

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