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Fioroni: la verità sul caso Moro è un debito che abbiamo con i nostri figli

“Oggi vorrei dedicare un pensiero alle vittime e alle famiglie dell’eccidio di via Fani in occasione dell’anniversario della strage. Il sentimento di attaccamento al proprio lavoro degli uomini della scorta e la visione strategica del presidente Moro aiuti tutti noi ad essere all’altezza del compito a cui siamo chiamati”. Così il premier Matteo Renzi in apertura del suo intervento alla Camera in vista del consiglio Ue di domani.

Questa mattina una delegazione del Partito Democratico, guidata dal vicesegretario Lorenzo Guerini, si è recata in via Fani, in occasione dell’anniversario del rapimento di Aldo Moro e dell’uccisione della sua scorta. Con il vicesegretario, Ettore Rosato, capogruppo del PD alla Camera, Claudio Martini, vice capogruppo del PD al Senato e Gero Grassi, vice capogruppo del PD alla Camera.

 

 

 

***

La verità sul caso Moro la dobbiamo ai nostri figli. Se non abbiamo il coraggio di chiudere fino in fondo i conti coni misteri del caso Moro non avremo mai voltato veramente pagina e saremo ancora espressione di quelle paure, di quei silenzi e di quegli imbarazzi che hanno contraddistinto una larga parte della vita della Repubblica». Giuseppe Fioroni è presidente della commissione parlamentare di inchiesta sul rapimento e l’uccisione di Aldo Moro, e a 38 anni da via Fani e dai 55 giorni della prigionia del presidente della Dc, ha messo la firma su una relazione che per la prima volta ha acceso i riflettori su gran parte dei misteri, dei depistaggi e delle verità non dette che, in questi quasi quattro decenni hanno avvolto uno dei misteri più terribili e drammatici della storia d’Italia.

 

Presidente, in molti dissero che non c’era bisogno dell’ennesima e inutile commissione di inchiesta. Si sbagliavano?

«Credo che l’approvazione all’unanimità della relazione di un anno di lavoro e il voto unanime per prorogare la Commissione fino alla fine della legislatura dimostrino che il lavoro fatto è stato unanimemente riconosciuto utile per chiarire una delle pagine della storia italiana recente più importante e più significativa. Moro nell’ultimo discorso ai gruppi parlamentari della Dc, nel febbraio del 78, dimostrò di avere chiaramente in testa la capacità di cogliere i segni dei tempi e con fare profetico di individuare il percorso necessario: aveva capito insieme a Berlinguer che la democrazia italiana andava sbloccata allargando la base del perimetro democratico dove í valori di democrazia e libertà diventavano patrimonio comune.

Quel rapimento e quella morte hanno ritardato di 35 anni il corso della vita politica dello sviluppo e della crescita del nostro paese. Moro lo hanno rapito e ucciso le Br, la commissione sta lavorando per capire quanti potevano sapere e non hanno detto quanti potevano aiutare a impedire e non hanno impedito».

 

In questo anno e poco più di lavoro sono tornati a galla i misteri. Il coinvolgimento dei servizi di sicurezza italiani e non, della criminalità organizzata, i depistaggi e quella zona grigia che ha frenato, quando non impedito, la ricerca della verità.

«Noi abbiamo riannodato fili che erano stati aggrovigliati e abbiamo posto in primo piano vicende che erano state messe sullo sfondo. Penso alla vicende dei due rullini di foto fatte in via Fani, consegnati al sostituto procuratore Infelisi e poi scomparsi. Fu un confidente della malavita organizzata calabrese a consigliare all’onorevole Cazora di visionare quegli scatti perché poteva esserci immortalato qualcuno dei loro. Molti anni dopo il pentito Saverio Morabito, ritenuto affidabile della magistratura, riferisce della presenza della ‘ndrangheta sul posto e di un’arma portata in Calabria. E poi sono emersi legami fra soggetti dell’eversione nera e la `ndrangheta. Trentasette anni dopo abbiamo scoperto del bar Olivetti, situato non lontano dal luogo del rapimento, e del titolare Tullio Olivetti che era un collaboratore dei servizi presente a Bologna la sera prima dell’attentato, collegato ad ambienti dell’eversione nera, ad un traffico di armi e al clan dei Di Stefano.

 

Poi possiamo parlare del caso delle due moto Honda, una che scende da via Trionfale con a bordo due uomini a fine lavoro con un mitra, l’altra notata da molti con un uomo e una donna che non parlano mai e dicono soltanto “achtung” in tedesco. Non dimentichiamo il caso della terrorista della Raf uccisa in Germania e trovata inpossesso di una carta di identità italiana i cui moduli appartenevano però ad uno stock rubato nel Comune di Sala Comacina come anche quelli trovati nel covo via Gradoli. Questi sono elementi che abbiamo ripreso e rimesso nel loro contesto dandogli finalmente l’importanza che meritano in un quadro di insieme».

 

Dal vostro lavoro emerge anche la consapevolezza di Moro sui rischi che correva. Forse addirittura sul fatto che la sua condanna a morte era stata emessa ben prima del rapimento.
«Abbiamo ritrovato un cablogramma del colonnello Stefano Giovannone che il 18 febbraio 1978, dal Libano comunicava di aver saputo da una propria fonte palestinese che era in progetto un attentato sul territorio italiano ad opera di terroristi italiani e stranieri ma di aver ricevuto il consiglio di non muoversi in attesa di altre informazioni. Visti i rapporti, Giovannone avvertì sicuramente Moro. E poi sappiamo che il 15 marzo Moro chiamò il capo della Polizia Parlato che con esponenti della Questura si recò nell’ufficio del presidente Dc in via Savoia spiegando poi la cosa con motivazioni ben poco credibili. Che cosa sapeva Moro? Abbiamo anche appurato che il maresciallo dei carabinieri Oreste Leonardi, della scorta dell’uomo politico, aveva chiesto più caricatori. E sappiamo anche dalla famiglia di Moro che lui non faceva mistero di temere per la sua vita».

 

Perché certe cose sono emerse soltanto ora? Pensa che sia solo una
questione di mutata volontà politica?
«Credo che tutti í gruppi parlamentari, fuori dalla logica dei blocchi, abbiano capito che non c’è percorso di riconciliazione vera se non si accende laluce sul buio delle falsità. Questa è l’ultima occasione. Questo paese non ha sradicato il terrorismo, piuttosto ha sepolto sotto una spessa coltre di cemento le mezze verità dette ma anche le tante cose non dette. Penso ad esempio al memoriale Morucci con le tante informazioni che poi le inchieste hanno smentito apertamente. C’è un sepolto di verità che vanno chiarite, come le tante contiguità mai conosciute. Don Mennini ci racconta che quando Morucci telefonò per annunciare l’ultima lettera gli disse “dica alla signora che quella peirsona si è resa irreperibile e che per questo abbiamo parlato di nuovo con lei”. Significa che c’erano altri postini? Si è reso irreperibile “il canale di ritorno” che doveva parlare con la parte delle Br che voleva trattare per salvare lavita di Moro? Sappiamo poi che le Br erano infiltrate dai servizi, ce lo dicono le inchieste come quella su Hyperion e ce lo dicono alcune testimonianze e anche i nastri degli interrogatori che dimostrano come i brigatisti avessero informatori all’interno dei corpi di polizia. C’è ancora tanta parte di storia su cui è arrivato il momento di provare a fare luce».

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