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Nannicini: dobbiamo tornare a intercettare i giovani

Per trovare il nuovo ufficio di Tommaso Nannicini, ex capo della squadra di economisti di Palazzo Chigi, poi sottosegretario alla presidenza del Consiglio e ora incaricato da Matteo Renzi di scrivere il programma del Pd, bisogna salire all’ultimo piano del Nazareno, il terzo. Attraversi la terrazza. Percorri la sala dove si fanno le direzioni. Giri dietro al fondale. E finalmente, a sinistra, si trova una porticina. Dà su una piccola stanza. Una scrivania, un computer, qualche manifesto elettorale alla parete. Lo incontriamo di mattina presto. Quasi si scusa: «È una sistemazione temporanea». Nannicini insegna alla Bocconi. Si era messo in aspettativa per seguire Renzi al governo, congelando un fondo europeo di oltre un milione e mezzo di euro per una ricerca sui comportamenti dei politici e degli elettori. Nei mille giorni della Leopolda al governo è stato l’uomo delle riforme, quello che doveva trovare le soluzioni tecniche alle idee del premier: lavoro, pensioni, giovani, imprenditori. L’autore del Jobs Act e non solo. Ora ha un’altra missione impossibile: dare gambe e testa al Pd.

Deve fare un certo effetto passare da Palazzo Chigi a qui. Pentito?

«No, perché è una scelta voluta. Dopo il passaggio elettorale del 4 dicembre, bisogna riflettere su come ripartire. Per recuperare vent’anni di stallo sulle riforme, abbiamo accelerato su quel terreno, ma è mancato un lavoro più politico, di radicamento sociale e di dibattito culturale sulla visione che stava dietro alle nostre riforme».

Così Renzi l’ha chiamata qui per costruire la visione che è mancata. Con che scadenza? Giugno o 2018?

«Mi preparo senza scadenza, perché quando si voterà, e non deciderò io “quando”, il Pd sia pronto con una visione per il Paese».

Compito non da poco, dopo lo schiaffo del referendum. Su quali idee punterà?

«È presto per dirlo e poi deve essere il programma di un partito e di una leadership, non di Nannicini. Più che la caccia all’ideona mi concentro sul metodo: una discussione su quanto abbiamo fatto, guardando al futuro».

Quello che avete fatto si è scontrato, però, con il giudizio degli elettori. Da dove si riparte?

«È come un puzzle. Bisogna ricostruire il disegno, spiegare la coerenza dei pezzi che abbiamo messo, togliere quelli fuori posto e, soprattutto, far vedere quelli che mancano».

Chi farà questo lavoro? I circoli del Pd sono deserti…

«I circoli sono importanti, ma è difficile tornare al partito di una volta. Bisogna far tornare i partiti luoghi di elaborazione di idee e di selezione di classe dirigente. Si dice che i giovani non hanno voglia di partecipare alla politica. La verità è che non riconoscono ai partiti lo sbocco alla loro voglia di partecipazione. Preferiscono fare volontariato o usare la Rete. Il Pd deve essere un interlocutore e un magnete di questa partecipazione».

Da come parla, sembra si prepari al voto. Ma se il governo Gentiloni è così simile al precedente, perché non arrivare al 2018?

«Il presidente del Consiglio precedente non c’è più, non è un dettaglio. C’è stato un passaggio che ha segnato la fine della missione che si era assegnata la legislatura. Questo Parlamento si era dato come obiettivo le riforme istituzionali. Poi, dopo la bocciatura del referendum, il Pd si è assunto la responsabilità di dare continuità al governo. Per quanto tempo, lo decideranno le forze politiche. Compito del Pd è capire cosa è successo il 4 dicembre e andare avanti».

Ecco, partiamo da cosa è successo. Come ricercatore sta facendo uno studio proprio sulle scelte degli elettori e le loro motivazioni. Come spiega quelle degli italiani nel referendum costituzionale del 4 dicembre?

«È chiaro che un Paese prostrato da una crisi economica e da migliaia di posti di lavoro persi, paga costi sociali forti, nonostante con Renzi si siano cominciati a vedere segnali di ripresa. Ma l’insoddisfazione per quello che ancora non va, si è fatta sentire».

Eppure Renzi si è impegnato su mille fronti. Sarebbe stato meglio fare meno, ma meglio?

«Concentrarci solo su alcuni settori avrebbe finito per annacquare gli effetti di quello che si faceva, perché il Paese aveva troppi ritardi, troppi nodi da sciogliere. A un convegno un avvocato del lavoro mi ha detto: “Quasi quasi sarebbe da abolire il Jobs Act, perché non è giusto che solo la mia categoria paghi il costo di questa riforma”, visto che sono calate le cause di lavoro. Quando agisci solo un settore, provochi sempre un malcontento. Per questo bisogna agire in più direzioni».

Però il malcontento l’avete creato lo stesso. Qual è stato l’errore?

«Non tanto aver aperto troppi cantieri, ma il fatto che la velocità è stata asimmetrica. E così, perdendo un po’ la visione di insieme, qualcuno ha cominciato a dire: “Perché io sì e lui no?”. E così si è persa la spinta».

Anche il Jobs Act non ha prodotto una svolta epocale. La disoccupazione resta molto alta, specie tra i giovani. La stupisce o, da studioso, l’aveva messo in conto?

«A dire la verità mi stupiscono i numeri all’opposto, cioè che con questa ripresa economica il mercato del lavoro abbia prodotto così tanti posti di lavoro stabili. Se qualcuno, all’inizio, avesse detto che ci sarebbero stati 400mila nuovi posti di lavoro a tempo indeterminato, sarebbe stato preso per pazzo. Il Jobs Act non è mai stato pensato per creare posti di lavoro. È come uno che si è allenato per la maratona e viene giudicato sul tempo che percorre nei primi cento metri».

Allora per cosa è stato pensato?

«Innanzitutto per abbattere il muro tra protetti e non protetti, creando un contratto a tutele crescente. Poi per aumentare le protezioni, gli ammortizzatori sociali, combattere le false partite Iva. L’idea era di rendere reattivo il mercato a nuove assunzioni, quando la crescita fosse partita. Vista la crescita fragile, i risultati sono perfino superiori alle attese».

Solo che la crescita non è partita. In altri Paesi europei, però, sì. Perché da noi no?

«Intanto noi, per colpa del debito, abbiamo vincoli di finanza pubblica che altri non hanno. È vero che abbiamo superato la logica della sola austerily, ma siamo andati avanti sul percorso di consolidamento dei conti per non pesare sulle prossime generazioni. Poi ci siamo concentrati sulle riforme strutturali, le uniche che possono creare più crescita potenziale. Ma se anche fossero state fatte tutte alla perfezione, i loro effetti sulla crescita si vedranno in cinque o sei anni».

Qual è la riforma venuta peggio e quella meglio?

«Non è questione di cosa ha funzionato o cosa no, ma di velocità. Dove siamo già arrivati all’attuazione, penso al Jobs Act, si cominciano a vedere i risultati. In altri casi, siamo ancora molto indietro e perciò i risultati non si vedono».

Cosa frena di più una riforma? La burocrazia o le persone a cui è destinata, se resistono a cambiare?

«In primo luogo c’è la difficoltà di mettere d’accordo tutti i partiti di una maggioranza, per cui le riforme sono sempre un compromesso. Ma al di là di questo, i limiti maggiori sono due. Uno è la maledizione dell’implementazione amministrativa. La macchina dello Stato è ancora molto lenta. Ci sono alcune tecnostrutture che, approfittando della politica debole, tendono ad assumere compiti che non sono loro. Questo crea ritardi e sbandate. Solo se hai una macchina efficiente, riesci a fare le riforme. Se no, è come guidare la Playstation e non un’auto vera. L’altro limite è la maledizione del riordino. Ci si trova spesso con miriadi di norme affastellate, perché ognuno ha voluto mettere la propria bandierina. Il risultato è un disordine totale. Allora inizi a togliere qualche bandierina. Solo che se provi a farlo, c’è sempre chi protesta».

A proposito, le ha fatto piacere la decisione della Consulta di non ammettere il quesito sull’articolo 18 o vi ha messo nei guai perché allunga la legislatura?

«Sarà che ho il vizio di occuparmi di contenuti, ma non ho mai legato la decisione della Corte al voto. Prendo atto che dei tre quesiti proposti dalla Cgil, non passa quello sul Jobs Act».

I voucher, invece, saranno materia di referendum. Del resto gli abusi ci sono stati, non crede?

«Servono dei correttivi, è vero. Del resto lo ha detto anche il ministro Poletti, quando ha proposto la tracciabilità per verificare gli abusi. Ma bisogna stare attenti. I voucher sono uno strumento pensato per il lavoro occasionale. Evitiamo che questo tipo di lavoro torni nel nero».

Passiamo a Mps. Ora lo Stato è il primo azionista, non dovrebbe tirar fuori i nomi dei debitori?

«C’è il dovere di fare chiarezza sull’erogazione del credito prima della crisi, se era basata sulla solvibilità delle imprese o sulle relazioni. Tutto quello che aiuta in questa direzione, introducendo trasparenza senza caccia alle streghe, è benvenuto».

Hanno più colpe gli amministratori della banca o la politica?

«La politica deve cercare soluzioni, non colpevoli. Ma è chiaro che c’è stato un concorso di colpa. Fallita la soluzione di mercato, lo Stato temporaneamente darà una mano per evitare che una singola crisi abbia effetti sistemici dirompenti».

Quanto gli scandali bancari hanno danneggiato Renzi?

«È difficile dirlo. Si tratta di vicende le cui responsabilità vengono da lontano, ma che sono arrivate al redde rationem durante il governo Renzi. E questo ha contribuito al clima di insoddisfazione. Nei sondaggi le due cose che vengono più rinfacciate al governo Renzi sono le gestioni delle crisi bancarie e dei flussi migratori. Lo trovo paradossale».

Temi sui cui in tutto il mondo avanza la destra. Mentre la sinistra è in crisi. Perché?

«La sinistra riformista ha credibilità se fa capire che la prospettiva è un’alleanza tra merito e bisogno. Tra chi sta nella globalizzazione da vincente e chi è rimasto indietro. In passato a volte ce l’ha fatta».

A cosa si riferisce?

«Nelle mie zone, per esempio, una volta tutti lavoravano nei cappellifici. Poi la gente ha smesso di portare i cappelli. Non abbiamo chiesto allo Stato di fare una legge che obbligasse tutti a portare i cappelli. Imprese, sindacati e istituzioni si sono messi al lavoro per trovare nuovi sbocchi di lavoro».

Suo padre è stato a parlamentare. Cosa le dice?

«Ognuno ha le sue idee, a tavola ogni tanto si discute, perché abbiamo passione politica. Da genitore è preoccupato che riesca a coniugare lavoro accademico e politica. Ma capisce il richiamo della foresta che mi ha portato qui…».

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