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Bellanova: “Io, bracciante ora al governo non dimentico: a quei caporali bisogna ribellarsi”

Quando senti che la tua « vita non dipende da te, ma dalle scelte di un altro cosa puoi fare? Combatti. E quando hai 15 anni lo fai anche in modo irrazionale. Ci sono delle esperienze che ti segnano per sempre: quando vedi persone della tua età che perdono la vita, puoi fare quello che vuoi nel resto della tua esistenza, ma sai che sei segnato». Teresa Bellanova oggi è viceministro al ministero dello Sviluppo economico del governo Gentiloni e prima lo è stata col governo Renzi. Ma la sua esperienza parte da lontano, quando da adolescente nativa di Ceglie Messapica, in provincia di Brindisi, comincia a lavorare come bracciante. Si iscrive alla Cgil e a 15 anni viene eletta capolega nella Camera del lavoro della sua città, per proseguire una lunga carriera all’interno del sindacato di pari passo con le lotte nei campi e al caporalato. Ecco perché gli ultimi importanti blitz contro i caporali nel Brindisino su di lei hanno maggiore effetto e riportano alla mente ricordi indelebili.

 

Nelle intercettazioni si leggono parole come “Femmine, mule e capre tutte con la stessa testa”, “Zoccola, fai veloce”. Cosa si prova?
«È un linguaggio che ha un effetto tremendo, si ripiomba al linguaggio vecchio di un secolo. Ho provato un grande dolore. Mi ha fatto tornare a 37 anni fa, quando tre ragazze che avevano più o meno la mia età sono morte di caporalato. Mi è venuto in mente lo striscione che realizzammo allora noi militanti del sindacato e dirigenti della lega braccianti. Diceva: “Morte di caporalato, disprezzo di Stato”. In quelle parole ho sentito proprio quel disprezzo per la vita umana».

 

La sua esperienza da bracciante comincia quando era giovanissima. Cosa significava quel lavoro allora?
«I miei ricordi sono quelli di di una delle tante ragazze di quel tempo, di chi deve concorrere a portare avanti la famiglia perché c’era l’ansia dell’autonomia, il desiderio di misurarsi, la voglia di farcela. E nella collina brindisina 45 anni fa non è che ci fossero molte alternative, a parte imparare a cucire, se non avevi la fortuna di poter andare a scuola. Nel momento in cui ti trovavi sotto lo sfruttamento totale, ci si poteva solo organizzare insieme alle altre colleghe per lottare».

 

È lì che conosce le prime lotte bracciantili. Da quale esigenza nacquero?
«Per la voglia di ribellarsi a una violenza che già c’era e che oggi è immutata. Quando una donna mette piede in un mezzo di trasporto di un caporale la sua vita è nelle mani di un altro. E lì o soccombi o combatti: io, all’epoca, ho avuto la fortuna di combattere. Provammo a dare alle donne la possibilità di lavorare nei campi in modo più dignitoso, specie con la gestione del trasporto. Facemmo l’esperienza dell’autogestione. E facemmo saltare i nervi ai caporali perché capivano che potevano essere superflui. All’epoca la violenza fu tremenda, non certo una serata di gala. Non andare a lavorare con loro e contattare direttamente le aziende per farci assumere non fu semplice. Fummo bloccate dalla loro violenza, ma anche dall’indifferenza di chi si è girato dall’altra parte e che ha preferito conservare il proprio potere: i caporali pretendono di govervnare le coscienze».

 

Chi si è girato dall’altro lato?
«Tanti che hanno pensato che caporali fornissero un servizio e fossero un soggetto di pubblica utilità».

 

Quanto c’è della sua esperienza personale nella nuova legge sul caporalato?
«Si tratta di una risposta umana a una sofferenza umana: perché nessuna persona può accettare che la sua vita sia messa nelle mani di un’altra persona, che per portare a casa un pezzo di reddito debba essere calpestata la propria dignità. Chiedo a chiunque di mettersi nei panni di una donna umiliata da quelle persone, se così le vogliamo chiamare, che non può reagire perché significherebbe non avere più lavoro».

 

Bene che vada, vista la violenza non è solo verbale
«Esatto. I caporali sono squallidi, ma forniscono il servizio del mezzo di trasporto che dal loro punto di vista è uno strumento formidabile per tenere sotto ricatto le persone. Togliendo questo sottraiamo loro un’arma: dobbiamo dotarci di mezzi di trasporto».

 

Cosa bloccava e ancora oggi blocca le denunce?
«Le leggi vanno completate con la formazione delle coscienze. Chiedo sempre momenti di confronto nelle scuole: una ragazza di oggi se non vive in una realtà agricola non può capire di cosa si parli. Ma a volte anche se vive in zone di campagna perché spesso le persone anziché sentirsi vittime finiscono per sentirsi colpevoli e non parlano della loro condizione nemmeno con amici e famiglia. Va vinto questo senso del pudore, come abbiamo fatto allora».

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