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Veltroni: “Perché i roghi in Australia ci riguardano da vicino”

Brucia, l’Australia brucia. Ma è lontana e, quindi, chi se ne importa? Il mondo globalizzato, piccolo, raggiungibile immagina che sia possibile acquistare beni di consumo da potenti siti cinesi in un batter d’occhio ma che sia inutile occuparsi del destino delle più di mille case distrutte, delle decine di morti, dei 480 milioni, non è una cifra inventata, di mammiferi che sono stati uccisi o dispersi per effetto del fuoco che divora l’Australia. Sono stati divorati dai roghi cinquantamila chilometri quadrati di terra, come se fossero bruciati Piemonte e Lombardia. In Nuova Zelanda le nubi che vengono dall’Australia hanno colorato di marrone le nevi e i ghiacciai. A Canberra sono state distribuite centomila maschere per evitare intossicazioni. Si è arrivati ad abbattere circa diecimila cammelli perché, bevendo, sottraevano acqua agli umani durante la siccità. Le temperature sono costantemente sopra i quaranta gradi e a metà dicembre quel Paese ha vissuto il giorno più caldo di tutta la sua storia.

 

La crisi è globale: i koala assetati tra i roghi non sono un problema diverso dalle alluvioni nelle Filippine

Il governo australiano è tra i più attivi nel negazionismo della questione ambientale, tanto che è arrivato a togliere le tasse sul carbone che limitavano le emissioni di CO2 in atmosfera. I koala, ne sono spariti 8.00o dei 23.00o presenti nella zone incendiate, fanno tenerezza. E magari qualche immagine della loro sete o quella del canguro davanti al cielo rosso, farà sentire più vicino ciò che ormai viviamo alla stregua delle ultime notizie sulle Kardashian. Ma il cielo di fuoco del Nuovo Galles del Sud non è diverso, nei suoi effetti catastrofici, dalla marea grigia delle alluvioni nelle Filippine. Tra il 2007 e il 2014 centocinquanta milioni di esseri umani sono migrati per ragioni ambientali. E secondo la Banca mondiale i cambiamenti climatici produrranno 143 milioni di migranti nei prossimi trent’anni presentandosi come uno dei più potenti fattori di crisi anche per la coesistenza pacifica.

 

Catastrofismo? Lo si dica alle persone che in queste ore stanno fuggendo dall’acqua o dal fuoco

 

Nel suo bellissimo «Il destino di Roma» Kyle Harper si incarica di dimostrare come la sorte dell’impero romano sia stata segnata dai mutamenti climatici. «Nei tre secoli che vanno da1150 al 450 D.C. l’instabilità del clima mise alle strette le riserve energetiche dell’impero, interferendo drammaticamente con il corso degli eventi…» e aggiunge «I romani non si limitavano a modificare l’ambiente circostante ma imponevano la loro volontà su di esso. Tagliavano e bruciavano foreste; deviavano fiumi; drenavano bacini e costruivano strade attraverso le paludi più impraticabili: l’invasione umana di nuovi ambienti è un gioco pericoloso…». Tanto pericoloso che cambiamenti climatici e pandemie collegate furono fattori decisivi del crollo dell’impero.

 

Si può dire, è giusto farlo, che senza quelle azioni i romani non avrebbero fatto nascere la loro civiltà. Non potevano fare altrimenti, allora, per la modernità. Ma noi invece oggi sappiamo produrre senza carbone, sappiamo usare energie alternative, abbiamo a disposizione la scienza, per non alterare la natura. Ma decidiamo di non farlo. Lo spirito del tempo, che ci rinchiude in fortini sempre più friabili, dismettendo la coscienza dell’unità del mondo, ci trascina verso quel «gioco pericoloso».

Possiamo continuare a deridere chi lancia l’allarme sul riscaldamento globale. Ma, finora, la realtà ha dato ragione a chi lo ha fatto

 

I nuovi potenti dicono che l’Amazzonia riguarda solo i brasiliani, il carbone serve alle industrie australiane, che l’America necessita, per sé, di gas e petrolio. Il pianeta, mai come oggi, avrebbe invece bisogno di un governo mondiale. Possiamo continuare a deridere chi lancia l’allarme sul riscaldamento globale. Ma, finora, la realtà ha dato ragione a chi lo ha fatto. Il rosso dell’Australia e il grigio delle Filippine stanno lì a ricordarcelo. Anzi a gridarcelo.

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