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Renzi: “Il Sì non è un voto dato a me”

«Non si vota sullo spread o su di me, ma per rendere più semplice il Paese». Forum al Messaggero del presidente del Consiglio Matteo Renzi che, a pochi giorni dal referendum, invita i cittadini a votare sul merito della riforma. «Comunque vada aggiunge i consensi alla riforma non sono un patrimonio personale». Il sindaco di Roma «collabori con Zingaretti così come la Appendino ha fatto con Chiamparino e presenti progetti».
 
Borse in altalena, mercati in ansia. Siamo attrezzati per affrontare, in caso di vittoria del No, un’eventuale tempesta finanziaria in stile 2011
 
«Credo sia il tempo della responsabilità. Si vota su un quesito referendario ed è giusto che gli italiani siano chiamati a decidere sul quesito indicato sulla scheda. E’ evidente che la situazione politica abbia un riflesso sui mercati e sulla stabilità economica del Paese. E’ sempre stato così e sarà così sempre. Ma penso che il senso di responsabilità imponga a tutti di evitare toni sbagliati. Trovo che ci siano motivi per votare Sì indipendentemente da ciò che si dice all’estero. Dopodiché dico anche che l’Italia non è nella condizione del 2011. E’ evidente che il Paese è più forte e stabile con il Si, ma non è questo l’argomento del voto. Non si vota sullo spread, dobbiamo andare a votare per ridurre le poltrone dei parlamentari, metter fine al bicameralismo perfetto che abbiamo solo noi, per abbassare gli stipendi dei consiglieri regionali».
 
Quand’anche vincesse il Sì c’è chi pensa che la ricapitalizzazione delle banche sia difficile perché i costi sono elevati e i mercati non si fidano. Altrove si è proceduto alla nazionalizzazione. E’ pronto a fare altrettanto?
 
«Sarebbe da irresponsabili discutere ora di questo. Quel che è certo è che il sistema bancario italiano sconta il clamoroso errore del 2012-2013 quando non si è voluto fare l’intervento di sistema che ad esempio la Merkel ha fatto con 247 miliardi di euro. Se l’avessimo fatto anche noi non avremmo avuto problemi. Dopo il 5 dicembre entriamo comunque in una realtà nuova sia che vinca il Sì che il No. Se vince il Sì, l’Italia è più forte in Europa perché come premier avrò un arco di tempo più ampio rispetto ai colleghi e la possibilità e il dovere di organizzare l’appuntamento di Roma di marzo 2017. Inoltre avrò alcune proposte da portare al tavolo sulla crescita, sull’immigrazione, sul sistema del credito. Naturalmente se vince il No sarà tutto diverso».
 
Se vince il Sì cosa pensa di fare? Rafforzerà ad esempio il suo esecutivo?
 
«La maggioranza degli italiani sta decidendo in queste ore e non lo fa sulla base del dopo, ma del quesito. Per me la priorità, da qui a venerdì notte, è quella di andare il più possibile a spiegare con chiarezza quali sono i punti del Sì e perché è utile per l’Italia e per i nostri figli. Tutto il resto appartiene ad un altro mondo e dopo il 4 dicembre, comunque vada, si rifletterà. Mia moglie mi dice sempre: “Guarda che voi state dalla mattina alla sera a discutere dell’articolo, del lancio di agenzia, ma noi che accompagniamo i figli a scuola, non abbiamo tempo per seguirvi in tutte le vostre considerazioni”. La gente decide nell’ultima settimana come votare».
 
Più volte lei ha parlato di governo tecnico e di eventuali dimissioni. L’unico antidoto al governo tecnico è un reincarico a lei. E una strada percorribile e a quali condizioni?
 
«Sono convinto che vincerà il Sì e quindi non rispondo a ipotesi che come minimo non mi piacciono. Ho parlato sin troppo di me in questa campagna elettorale. Un po’ per carattere, perché non sono come quei politici che pur di restare aggrappato alla poltrona inventano tutto e il contrario di tutto. Un po’ è stato anche un errore perché ho consentito alle opposizioni di non entrare nel merito. Io vorrei parlare del bicameralismo paritario, dell’articolo 70, dell’elezione dei senatori, che è democratica e diretta. Quando e se verrà il tempo ne discuteremo. Ora nelle mie ipotesi c’è solo la vittoria del Sì».
 
Comunque vada lei avrà un pacchetto di voti perché chi vota Sì, vota la sua riforma. Questo capitale politico, personale, come intende spenderlo?
 
«Non è un voto su di me o per me. Sarebbe un clamoroso errore se lo considerassi tale. Tante donne e uomini di Forza Italia, della destra, del M5S hanno voglia di votare Sì e io non voglio essere un ostacolo. L’elettore tipo dei Cinquestelle che non ne può più e vuole il cambiamento, che non sopporta le immagini dei parlamentari M5S che sfilano al tribunale di Palermo avvalendosi della facoltà di non rispondere, vogliono cambiare e ora lo possono fare. Dopo il 4 dicembre quei voti non esistono più e non li considero un patrimonio personale. D’altra parte anche ai referendum di Marco Pannella sul divorzio o sull’aborto si votò prescindendo dalle posizioni politiche di ognuno».
 
Qual è la percentuale di affluenza che permetterà di dire che la riforma è condivisa?
 
«In questo referendum non c’è quorum. Per come il costituente ha scritto la Costituzione, la riforma è di tutti nel momento in cui passa con il 50 per cento più uno, è più che sufficiente. Poi, secondo me, voterà un sacco di gente».
 
Non sarebbe stato meglio cambiare l’Italicum prima del referendum?
 
«Abbiamo detto che lo cambiamo insieme agli altri e gli altri ci hanno chiesto di cambiarlo dopo il referendum. Era tecnicamente impossibile farlo prima. Penso che l’Italicum sia un’ottima legge, non una buona, ma un’ottima legge e l’hanno votata anche quelli di Forza Italia sia alla Camera che al Senato. Poi in terza lettura hanno cambiato idea. Detto questo, si vuol cambiare? Si cambi insieme, ma era impossibile farlo prima».
 
Presidente, c’è la disponibilità dei grillini a rivedere insieme la legge elettorale dopo il referendum. Non teme di fare la fine di Bersani del 2013?
 
«I Cinquestelle sono stati il primo soggetto a cui ci siamo rivolti per fare la riforma costituzionale. Era il 15 dicembre 2013. Ho fatto una proposta a Beppe Grillo che mi ha risposto insultandomi. Il 2 gennaio, per essere sicuro che la leggessero, ho fatto intervista al Fatto quotidiano e ho detto: “Facciamo un patto insieme sulla riduzione dei costi, sul Serinnovo del contratto, c’è un progetto del governo per ridare dignità e motivazioni agli impiegati pubblici?
 
«Il pubblico impiego in Italia è stato bloccato per 7 anni, è stato costretto a una botta di turnover e ora la spesa per il pubblico impiego è più bassa di quella degli altri Paesi. La vera scommessa è sbloccare un po’ di risorse, e noi siamo pronti a farlo, mettendo sul piatto 85 euro in media. Ma il punto vero è che bisogna anche cambiare le regole del gioco e la necessità della riforma costituzionale è dimostrata dal fatto che non si possono licenziare i furbetti del cartellino senza l’autorizzazione del Molise e non si possono ridurre le municipalizzate senza l’autorizzazione del Veneto. Roba che non sta né in cielo, né in terra. La mia opinione è che sul pubblico impiego vada fatto un ragionamento strategico: bisogna dare agli statali formazione, qualità, fargli capire che non sono dei potenziali fannulloni, ma dei potenziali leader di questo Paese. Dopo di che, rivolgo un appello ai sindacati affinché oggi si chiuda il rinnovo del contratto, il governo si siede al tavolo con le migliori intenzioni».
 
Visto che la trattativa cade a 4 giorni dal referendum e la platea dei lavoratori pubblici è di 3 oltre milioni, sarete costretti a siglare l’intesa…
 
«Dipende dai sindacati, magari si trovano meglio con un governo tecnico. E comunque non offriamo 85 euro in più per avere i voti del dipendenti pubblici: la gente non vota Sì o No sulla base del rinnovo del contratto, ma perché le piace o non le piace la riforma costituzionale».

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