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PD #APORTEAPERTEDiritti e Innovazione

Scarica PD #APORTEAPERTE – Diritti e Innovazione.
 
Costruiamo un PD #aporteaperte, in grado di ascoltare tutti e capace di dare voce a chi non ce l’ha.
 
Un Partito che rappresenti l’anima del Paese: ceti popolari, periferie, giovani, anziani, prestatori d’opera dipendenti e autonomi. Diritti e innovazione, il nostro impegno al tempo del capitalismo globale e digitale. Un partito ecologista, del lavoro e della scuola aperta a tutti, aperta sempre.
 

PARTITO

La portata straordinaria dell’economia digitale sul funzionamento del capitalismo globale impone una riflessione politico culturale profonda. Vogliamo costruire un partito #aporteaperte: capace di coniugare diritti e innovazione perché l’innovazione, senza diritti, ci porta fuori strada in un mondo con maggiori disparità. Un partito vissuto nei circoli, che tornano sezioni, e in rete, che esalta la sussidiarietà, valorizza le differenze territoriali. Il PD di domani deve avere sezioni e smartphone; piazze, marciapiedi e tablet, perché significa che si sarà liberato dagli apparati, che ancora oggi lo condizionano.
 
Un partito che destina il 50% delle risorse ai territori e reperisce le risorse in modo trasparente in ogni campagna per la raccolta del consenso. Un partito che garantisce i propri lavoratori chiedendo a tutte le aree culturali di svolgere attività politica all’interno del partito e non all’esterno, con altre fondazioni o associazioni. Si dovrebbero utilizzare strutture e personale del partito anche per le attività politiche delle diverse aree. Non deve essere più consentita agli iscritti PD la raccolta di fondi o risorse per attività politiche parallele all’attività del PD stesso. Chi crede nel PD concentra il proprio impegno politico, e le risorse finanziarie raccolte, esclusivamente nel partito. Il PD sarà una scuola di formazione politica permanente che ci proietterà nel cuore del terzo millennio, per riacquistare gli strumenti e la forza necessari a una visione politica di avanguardia. Il PD sarà anche una piattaforma open source, trasparente, che in questo congresso i sostenitori della mozione #aporteaperte chiamano HackItaly. La sperimentazione della piattaforma è già in corso e sarà donata al Partito indipendentemente dal vincitore delle primarie. Ovviamente, se ne condividerà le finalità.
 
Il PD a porte aperte deve essere il perno di una grande sinistra: moderna, europea e riformista e devono esserci dentro tutti gli elettori che oggi, anche per nostre responsabilità, sono andati via.
 
Dobbiamo abbattere l’incomprensibile recinto costruito in questi anni. Un partito plurale e trasparente. Che sappia utilizzare gli strumenti digitali per una reale democrazia partecipativa, sfidando il M5S e la piattaforma Rousseau sul loro stesso terreno. Restiamo convinti che sui bisogni, i diritti e le povertà e sull’analisi della società, oggi con una legge elettorale proporzionale, sia inevitabile un confronto con il M5S. Certo, il M5S sta dando pessima prova di governo ed è ogni giorno di più ostaggio della Lega, ma l’attenzione verso temi sociali comuni impone un confronto con il loro elettorato e i gruppi dirigenti che prendono le distanze dalla Lega. Perché molti di coloro che oggi votano M5S erano elettori di centrosinistra che non si sono più sentiti rappresentati dal PD degli ultimi anni. Siamo in un sistema elettorale proporzionale, tutti quanti alle prossime elezioni ci batteremo perché il PD possa essere il primo partito ma con questa legge elettorale il dialogo con un’altra forza politica è necessario. Oggi le alternative sono due: Lega, con gli altri partiti di destra, e il M5S. Con la Lega di Salvini ci sono distanze siderali, non colmabili, nel modo di interpretare la società. Col M5S, sui alcuni temi sociali, ambientali, di contrasto alle povertà, si può e si deve costruire una discussione. Ma sul piano istituzionale, il PD dovrà tornare a proporre una propria idea di legge elettorale maggioritaria.
 
In questa fase di capitalismo globale e digitale sempre più aggressivo il riferimento per il PD non può essere il movimento En Marche di Macron, ma il partito laburista di Corbyn e tutte le esperienze europee che mettono in discussione gli assetti superati tra società e mercato per difendere i diritti fondamentali. Dai laburisti inglesi all’esperienza spagnola di Sanchez con Podemos, dai Verdi tedeschi ai socialisti europei in grado di proporre una netta discontinuità con le scelte di questi ultimi cinque anni, soprattutto in Germania e Francia. Il PSE va rifondato e il PD deve impegnarsi a farlo profondamente dall’interno. Dobbiamo essere il partito di sinistra che connette le esigenze dei ceti popolari alle élite. Oggi siamo percepiti come il partito delle Ztl.
 

DIRITTI

Il più grande errore che la politica potrebbe commettere sarebbe andare incontro alla rivoluzione del capitalismo globale a compartimenti stagni: gli industriali per conto loro, i sindacati pensando solo alla loro centralità indipendentemente dalle trasformazioni in atto nella catena del valore di numerosi settori, così come musicisti e attori da un lato e i giornalisti dall’altro, gli sportivi per conto proprio e poi i giovani blogger, che ritengono di non aver bisogno di regole, come se i diritti d’autore riguardassero solo alcuni talenti e non altri, e poi ancora medici, insegnanti a vari livelli, commercianti.
 
L’analisi, è evidente, non può essere solo culturale ma deve toccare le responsabilità della politica.
 
Nel senso di buona politica. Quella che non può e non deve dividersi sull’interesse collettivo, ma può e deve farlo sulle terapie e sugli strumenti. Il Partito Democratico deve essere all’altezza di questa sfida e coniugare diritti e innovazione perché l’innovazione, senza diritti, rischia di portare la società fuori strada. La rete risolve i problemi, ma pone a sua volta altri problemi: dall’equità fiscale, alla riservatezza, alla tracciabilità, alle regole di funzionamento del commercio, ad un caporalato digitale legato ai nuovi lavori. Il PD #aporteaperte riparte dai valori del centrosinistra e fa di scuola, lavoro e ambiente i tre pilastri per costruire un nuovo Sato sociale in un contesto europeo profondamente diverso da quello degli ultimi dieci anni.
 
Lavoro e prestatori d’opera – Salari netti più alti per i lavoratori e costi più bassi per le imprese. Serve un intervento choc sulla riduzione del costo fiscale del lavoro. Ripartiamo dalla decontribuzione, rafforziamo gli ammortizzatori sociali e avviamo serie politiche attive del lavoro. Cancelliamo il Jobs Act e il pessimo decreto Di Maio sul lavoro. Serve un ‘Manifesto dei lavori”.
 
Continuare a regolamentare il mercato del lavoro insistendo su slogan, bonus o sgravi di varia natura vuol dire non aver capito gli errori commessi finora e il pregio delle scelte giuste fatte in questi anni.
 
Abbiamo tutti il dovere di imparare dalle esperienze fatte dando un senso a questi cinque anni di legislatura. Se c’è una misura che ha funzionato è la decontribuzione sul lavoro del 2015, pari a oltre 8.100 euro l’anno a lavoratore senza alcuna distinzione anagrafica. Dobbiamo ripartire da lì, rendendola strutturale e per tutti, senza alcuna differenza per fascia di età.
 
Il reddito di cittadinanza, così come lo stanno ipotizzando farà solo aumentare il lavoro nero. Il tema vero è come creare nuovo lavoro, e come aiutare chi lo ha perso a ritrovarlo. La riduzione strutturale del cuneo fiscale deve essere la priorità per il nostro Paese. Attraverso l’abolizione totale dell’Irap e attraverso la leva della decontribuzione piena. Il decreto Dignità, senza abbassare il costo del lavoro a tempo indeterminato, ha avuto l’effetto di creare nuovi disoccupati. Mentre il problema del Jobs act non è la reintroduzione o meno della reintegra. Bisogna piuttosto rafforzare l’indennità di licenziamento, anche tenendo conto della recente sentenza della Corte costituzionale a riguardo che ha bocciato la fissazione rigida dell’indennità prevista dal Jobs act. E soprattutto bisogna rafforzare gli ammortizzatori sociali e avviare le politiche attive del lavoro per accompagnare il lavoratore che ha perso il posto a trovare una nuova occupazione. Il Jobs act ha il limite di non interpretare la trasformazione del lavoro digitale e di non intercettare il caporalato digitale. Dai precari, ai disoccupati, ai riders, a chi è costretto ad indossare un braccialetto sul luogo di lavoro in nome dell’innovazione, a chi è costretto a scegliere tra lavoro e salute.
 
Il digitale è il framework del capitalismo moderno. Le ricette proposte sono riassumibili in alcune parole chiave: decentramento contrattuale, maggiori risorse e competenze digitali a partire dagli ITS, azioni prioritarie che vanno da impresa e lavoro 4.0 all’immancabile maggior concorrenza nei servizi pubblici, fino alla strategia energetica nazionale, banda larga e internazionalizzazione.
 
La scuola e l’Università al tempo del capitalismo digitale e globale – Tutta la scuola italiana, tutte le università, tutti i centri di ricerca di eccellenza hanno bisogno di certezze quotidiane e automatismi.
 
E non devono più essere intermediati dalla burocrazia. Oggi il dramma dell’occupazione nel rapporto con la scuola è uno e solo uno. Il tasso di occupazione è direttamente proporzionale al tasso di istruzione. I laureati (ancora pochi e non superiori ai 300mila l’anno) hanno un tasso di occupazione del 78,7%, chi invece resta con la licenza media ha un tasso di occupazione del 43% fino al dramma delle donne con licenza media occupate al 29% con una concentrazione nel mezzogiorno. A queste sperequazioni si risponde con interventi sui pilastri fondamentali dell’Istruzione. Solo così in un decennio si qualificano e aumentano i 450mila diplomati l’anno che spingeranno a loro volta in su la qualità dei laureati. Si chiama senso della comunità. Una battaglia culturale che è nei cromosomi dei riformisti. E in questa battaglia va affrontato il nodo del precariato in Università.
 
Scuole aperte tutto il giorno, da nord a sud. Un conto per la vita di ogni studente: 1.000 € l’anno dal primo giorno di scuola fino alla maturità, per libri, mense, trasporti, attività culturali, assistenza per i disabili tutto il giorno; 4°anno di scuola superiore all’estero a carico dello Stato; insegnanti valorizzati per le competenze e per la capacità didattica e pagati quanto i dirigenti pubblici. Ribaltiamo lo Stato sociale. Dobbiamo potenziare l’insegnamento della lingua inglese – anche attraverso insegnamenti in lingua di materie artistiche e attività culturali – e dell’educazione civica – anche attraverso progetti di integrazione culturale attiva con la collaborazione degli enti locali, delle attività sportive. Le scuole sono il cuore di un moderno Stato sociale. I dati sulla dispersione scolastica tra nord e sud che emergono dal rapporto Svimez 2018, 5% al nord e 20% di media al sud, non lasciano dubbi: è la scuola la priorità delle priorità. Ma non possiamo lottare ogni anno durante la legge di Bilancio per qualche centinaio di milioni, servono risorse vere e strutturali per studenti, insegnanti e personale.
 
Capovolgiamo il welfare del nostro Paese, Le scuole devono essere luoghi della socialità a tutto tondo.
 
Non solo studio ma anche vita intorno allo studio. Tutto a carico dello Stato e uguali opportunità per tutti i ragazzi. Da loro si costruisce l’Italia moderna.
 
Un po’ di dati sul precariato nell’Università: 3.300 ricercatori di tipo A, 2.500 ricercatori di tipo B, 13.000 assegnisti di ricerca, 19.000 contratti a progetto, per un totale di 37.800 precari contro i 45.000 strutturati. La soluzione da adottare passa attraverso l’introduzione di carriere diversificate:

  • docenti strutturati, che assommano competenze di ricerca e di didattica, nella cui categoria confluiranno la maggioranza degli attuali casi di precariato;
  • figure nuove di ricercatori a tempo indeterminato, cui è vietata l’attività di didattica, dediti unicamente alla ricerca, per specificità della stessa o per poca attitudine alla didattica (ma tanta alla ricerca);
  • docenti di didattica, cui è vietata l’attività di ricerca, che grazie alle loro competenze specifiche – professionali e non – e delle tecniche di formazione, fanno della didattica uno strumento di eccellenza.

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La nascita di queste nuove figure non può prescindere da un sistema attivo di valutazione della didattica, che tenga conto delle diverse attitudini, in modo da consentire l’utilizzo delle risorse nelle aree dove emergono le migliori performance.
 
L’efficientamento del settore dell’istruzione non può prescindere da una managerializzazione dell’organizzazione dove però i parametri di giudizio vedano le competenze e la capacità di insegnamento ai primi posti nella valutazione.
 
Sull’ambiente la nostra posizione deve essere radicale: lotta al consumo del suolo, sostegno fiscale a chi riduce le emissioni di CO2 nell’aria e sanzioni a chi le aumenta; economia circolare come modello di sviluppo sostenibile Nella riforma del Bilancio dello Stato, approvata nel 2016 con oltre l’80% dei voti parlamentari, abbiamo inserito come allegato al Def, il BES (indicatori di Benessere equo e sostenibile), 12 indicatori, condivisi, misurabili e valutabili da un anno all’altro che permettono di misurare il reale impatto delle politiche pubbliche sulla vita quotidiana. Una rivoluzione culturale, iniziata il 18 marzo 1968, data del famoso discorso di Bob Kennedy sul Pil che «misura tutto, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta» e che oggi è parte integrante del nostro Bilancio. Ad esempio pensando all’ambiente, abbiamo stabilito che il livello di CO2 nell’aria per persona non deve superare le 7.5 tonnellate l’anno. Se aumenta o diminuisce da un anno all’altro, si comprende quanto le politiche ambientali abbiano avuto successo o meno. Se gli asili nido diminuiscono o aumentano da un anno all’altro, si comprende quanto le politiche welfare abbiano avuto senso. Se i servizi di trasporto pubblico locale migliorano, le tariffe si abbassano e i servizi incrementano, capisci quanto ha avuto senso investire nel trasporto pubblico locale. Questa valutazione qualitativa rende il bilancio dello Stato più umano, più leggibile, più comprensibile. Poi il bilancio si reggerà sempre, nella comparazione internazionale del PIL ma si potrà discutere nel merito delle politiche pubbliche e controllare l’attività pubblica.
 
Nel settore ambientale la massimizzazione del recupero di materia dai cd “rifiuti” è tra gli obbiettivi fondamentali. Le linee guida devono portare allo sviluppo di politiche di riduzione della produzione di rifiuti con forte contrasto all'”usa e getta” anche biodegradabile. La valorizzazione della qualità delle raccolte differenziate lungo tutta la filiera (dalle case e attività, alle raccolte, ai trattamenti in impianto), attraverso l’adozione di strumenti di controllo di filiera e di Life Cycle Costing, l’adeguamento dei Criteri Ambientali Minimi (CAM) alle migliori soluzioni tecniche, l’obbligo dell’utilizzo dei CAM nelle gare d’appalto (introducendo sanzioni nel caso di violazione). Serve una riduzione della dipendenza energetica di origine fossile tramite la produzione di biometano da biodigestione anaerobioca della frazione organica, con potenziamento dell’impiantistica di settore specie al Sud Italia. Così come è indispensabile la riduzione della dipendenza da importazioni di elementi naturali in via di esaurimento (come il fosforo) tramite la produzione di compost di qualità destinato all’agricoltura.
 
Completa decarbonizzazione dell’Italia entro il 2030, Ilva compresa. Su questo punto il PD non può fare compromessi.
 
L’Europa è troppo grande per essere unita ma è grande anche per essere divisa. Nei secoli in cui è stata divisa ci sono stati danni inenarrabili che hanno scritto le pagine più tristi della storia. La differenza tra la nostra visione di Europa e quella dei sovranisti è che loro, pur di ottenere un po’ di consenso in più, alimentano l’amputazione dell’Europa con gli altri sovranisti; io, invece, voglio sfidare questo establishment per costruire un’Europa più forte. Con lo stesso fisco, lo stesso welfare, le stesse pensioni, gli stessi salari, la stessa difesa e lo stesso debito. A quel punto tutto sarà più chiaro. Merkel, Juncker, Orban sono i rappresentanti di una politica lontana anni luce dall’idea di un’Europa sociale che abbiamo il dovere di costruire. Dobbiamo aprire una discussione franca sul futuro dell’Europa, sapendo che l’Italia, come diceva Longanesi, è stata il cuore dell’Europa; e il cuore non è né il braccio né la testa e questa è la nostra grandezza e il nostro stesso limite. Il PD in questo contesto deve indicare una strada per l’Europa che vogliamo e che sarà, inevitabilmente, il tema cruciale della prossima campagna elettorale per le europee.
 
Il nodo politico è come cambiamo l’Europa che appare sempre più fragile. Lui vuole amputarla, noi rafforzarla. Chi milita e crede ancora nel centrosinistra deve smarcarsi dall’idea di Europa di Merkel, Juncker e dei popolari europei, che hanno trasformato un sogno collettivo in quello che ci ritroviamo oggi. Noi sfideremo Salvini e i cosiddetti sovranisti su un’Europa più forte che chiuda sia la stagione dei populismi che degli Juncker e dei conservatori. Fare gli interessi della grande comunità degli europei che ci credono significa mettere insieme tutto per tornare al progetto originario degli Stati Uniti d’Europa.
 
Dobbiamo costruire gli Stati Uniti d’Europa, attraverso un nuovo contrattualismo, per spingere gli Stati membri della zona Euro, a creare un bilancio proprio separato dal bilancio dell’Unione europea e addizionale a quest’ultimo con l’obiettivo di stimolare la convergenza e la competitività economica delle parti contraenti. Il bilancio proprio stimolerà investimenti per l’innovazione e lo sviluppo del capitale umano anche attraverso un Fondo europeo per l’occupazione, al fine di intervenire sull’aumento della disoccupazione in particolare nei Paesi mediterranei. Le risorse del bilancio proverranno per un periodo iniziale di tre anni da contributi nazionali degli Stati contraenti. I contributi nazionali destinati ad alimentare il bilancio e il Fondo per l’occupazione non saranno calcolati all’interno del rapporto del 3% tra deficit annuale e prodotto interno lordo dei paesi contraenti previsto dal Patto di Stabilità e di Crescita. Gli Stati versano i loro contributi finanziari al bilancio e al Fondo secondo una ripartizione conforme alla loro partecipazione finanziaria al bilancio dell’Unione europea. Il bilancio e il Fondo saranno gestiti dalla Commissione europea, in cooperazione con gli Stati. La Commissione europea farà rapporto al Parlamento europeo dell’esecuzione del bilancio e del Fondo e ne sarà responsabile nei suoi riguardi, aprendo all’adesione di ogni Stato membro dell’Unione europea, conformemente alle rispettive norme costituzionali, che abbia deciso di dotarsi dell’Euro con l’obiettivo di ottenere una revisione complessiva dei Trattati europei L’Europa va profondamente riformata se la si vuole salvare a partire dalla revisione dei trattati, della BCE e delle politiche economiche, oltre a rafforzare unione politica e sociale.
 
Una giustizia che funziona garantisce i diritti fondamentali – Il governo Lega-M5S ha fatto una battaglia sul blocco del decorso della prescrizione nei processi penali dopo la sentenza di primo grado. Salvini ha procrastinato l’entrata in vigore di questa norma al 2020 dopo una (improbabile, per genesi e mancata condivisione tra le forze politiche e gli operatori) riforma del processo penale.
 

Questa proposta era nel programma di governo con l’eliminazione del divieto di reformatio in peius, che probabilmente sarà il secondo passaggio di una regressione processuale evidente.
 
Il punto è come si colloca il Partito Democratico davanti a questo provvedimento e a queste istanze che non risolvono i problemi effettivi della giustizia e non appaiono in linea con la riforma iniziata da Andrea Orlando.
 
Dobbiamo provare a trovare un punto di sintesi tra i nostri provvedimenti di sospensione della prescrizione (due anni dopo la sentenza di primo grado ed uno dopo quella di appello) e di aumento delle pene con riferimento ad alcuni reati (che analogamente ne ha prolungato i tempi di prescrizione) con questo intervento di blocco totale della prescrizione, che rischia di introdurre un concetto di “fine processo mai” e che va contro il “principio costituzionale del “giusto processo” Dobbiamo decidere entro quale ambito agire. Dobbiamo chiederci che tipo di giustizia vogliamo, che tipo di società vogliamo, che tipo di partito anche su questo tema vogliamo essere. Dobbiamo tracciare un perimetro di punti entro cui muoverci per pensare ad una azione intrinsecamente coerente e che abbia una portata di sistema. Solo dopo aver definito questa cornice potremo inserire al suo interno tutti i provvedimenti di riforma che abbiano coerenza con il quadro tracciato in partenza

  • il processo (civile e penale) deve essere veloce. No a tutti quei provvedimenti che lo rallentano, sì a tutti quegli interventi che lo aiutano ad arrivare prima ad una decisione definitiva;
  • noi dobbiamo essere il partito della legalità, del rispetto della legge uguale per tutti, ma anche il partito della tutela dei diritti e delle garanzie. No a qualsiasi intervento che comprima le garanzie delle parti processuali o che riduca il diritto del cittadino all’accesso alla giustizia
    Ricordiamoci che nel sistema Giustizia lo Stato è il soggetto forte (che ha a disposizione strumenti che il cittadino non ha) ed il cittadino (vittima o imputato) è il soggetto più debole
    Quindi l’azione politica – che deve ovviamente favorire l’azione dello Stato nella corretta valutazione delle condotte ipotizzate come reato e nella sanzione di quelle poi accertate come delittuose, fornendo agli operatori (giudici a personale amministrativo) gli strumenti per ben operare – deve anche porsi sempre il tema della difesa del cittadino e della sua parità processuale;
  • non tutto può essere sanzionato in sede penale. In alcuni casi la trasformazione di alcune condotte in illecito amministrativo rende più efficace l’intervento dello Stato e la sanzione. Il proliferare di figure di reato distoglie tempo e risorse (umane ed economiche) dall’intervento sui reati più gravi. D’altro canto il doppio binario (di fatto attuato dalle Procure, che individuano annualmente i processi a cui dare precedenza) si risolve in una denegata giustizia per tutti quei reati valutati come reati di serie B;
  • dopo 30 anni di “nuovo codice di procedura penale” e di interventi a modifica dello stesso, occorre avviare una riflessione sul rito accusatorio e chiederci se lo abbiamo realizzato appieno e compiutamente;
  • non si può più pensare a riforme della giustizia a costo zero. La sottrazione progressiva negli anni di risorse alla Giustizia, ha portato a trovare la soluzione della lentezza dei processi nella compressione delle garanzie, nell’innalzamento delle pene edittali e nella sospensione o blocco (oggi) della prescrizione. Queste riforme a costo zero da un punto di vita economico, comportano ai cittadini un costo altissimo in termini di equità, diritti ed efficacia.

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Parità di genere nella vita pubblica – Il Partito Democratico dovrebbe promuovere con convinzione azioni di parità di genere in tutti i contesti della vita pubblica, istituzionale e politica dove si registra una sotto-rappresentanza delle donne a causa di fattori culturali, economici e sociali per dar consistenza ad un principio di eguaglianza molto spesso solo astrattamente e formalmente sancito.
 
La promozione del riequilibrio di genere e le azioni positive sono un fatto centrale di democrazia al quale si ricollega strettamente il tema della cittadinanza femminile, anche politica, rispetto al quale si registrano rigurgiti di un conservatorismo anacronistico legato al solo concetto di eguaglianza formale e che vorrebbe la rappresentanza neutrale rispetto ai generi. Strumenti quali le quote di genere, la doppia preferenza di genere e l’alternanza di lista inseriti nelle leggi elettorali risultano fondamentali per avvicinarsi a quella democrazia paritaria ancora troppo lontana. La parità di genere nello Statuto del Partito Democratico è un principio enunciato a più riprese, ma spesso è rimasto lettera morta. La parità negli incarichi partitici, il superamento dell’uso smodato delle pluri- candidature per far prevalere un genere sull’altro e la “reviviscenza” della Conferenza nazionale delle Donne Democratiche prevista dallo Statuto devono essere un baluardo del nuovo Partito Democratico. Un tema, quello della parità, che va attenzionato anche in sede Regionale e locale con l’attivazione delle Conferenze territoriali delle Donne Democratiche e con l’introduzione della doppia preferenza e delle quote di genere nelle Regioni a guida Partito Democratico che ancora non hanno provveduto a riformare in tal senso la propria legislazione elettorale.
 
L’approvazione della legge sulle Unioni Civili è stata una grande ed attesa conquista di civiltà, così come la costituzione di un dipartimento ad hoc in seno al Partito Democratico, che va mantenuto. La legge che riconosce per la prima volta le Famiglie Arcobaleno è un punto di partenza, non di arrivo.
 
Abbiamo la colpa di non aver approvato in questi anni una legge contro la omo-transfobia a livello nazionale, mentre molte Regioni, per quanto di loro competenza, hanno introdotto delle normative specifiche. La lotta all’odio di ogni tipo, anche quello veicolato per il tramite del social e quello, ancor più grave, veicolato da rappresentanti istituzionali, legato all’orientamento sessuale e all’identità di genere delle persone deve rappresentare una reale priorità del Partito Democratico a tutti i livelli.
 
Occorre proporre una riforma complessiva dell’istituto delle adozioni che contempli anche l’adozione per le persone single e la c.d. “stepchild adoption” per riconoscere per legge al genitore sociale la dignità che oggi gli è negata. Bisogna continuare con la previsione di misure specifiche finalizzate al contrasto al bullismo omotransfobico e non abbassare la guardia rispetto alle discriminazioni, ancora fortemente presenti, all’interno del mondo del lavoro legate all’orientamento sessuale e all’identità di genere per avere una prospettiva di società realmente inclusiva.
 
Per lo sport è arrivato il tempo del Testo Unico – Lo Sport ha necessità di un riordino generale, occorre delineare i confini della preparazione olimpica e dell’Alto Livello con il settore della Promozione dello Sport e degli aspetti sociali ad esso legati. Il Coni dovrà occuparsi esclusivamente del primo aspetto, comprese le attività esercitate dalle Federazioni riconosciute come Discipline Sportive Associate. Le altre attività promozionali (Luoghi di Sport, Centri CAS, le iniziative territoriali in generale, sport in carcere ecc.) dovranno essere di competenza delle politiche del Comitati Territoriali, in quanto le Regioni hanno esigenze diverse.
 
Creazione di un Dipartimento che si occupi di Sport e Turismo: Il comparto turistico in Italia rappresenta il 13% del PIL, una percentuale più alta rispetto agli altri paesi che si assestano complessivamente al 10,4%. Viceversa per quanto attiene al settore del turismo sportivo rileviamo dati invertiti: in Italia, infatti, il fatturato raggiunge 4,9 miliardi di euro, che equivalgono al 3,2%, in chiaro segno negativo rispetto al 9,7% del mercato globale che si riscontra a livello mondiale. I numeri sono destinati a crescere con la prospettiva 2021 e certamente non possiamo farci trovare impreparati. La nostra proposta non si limita ai grandi eventi, ma anzi ambisce a sviluppare politiche dello sport legate alla sostenibilità ambientale: corsa, trekking, equitazione, orienteering, sport d’acqua (canoa, SUP ecc). Sport-Ambiente-Turismo-città d’arte: 4 punti vincenti.
 
Impianti Sportivi: Oltre al Fondo Sport e Periferie, con il quale certamente è stato fatto un passo avanti nelle politiche infrastrutturali di questo paese, grazie anche all’Istituto del Credito Sportivo, occorre sensibilizzare le Regioni ad investire nella riqualificazione delle strutture, impegnando il Governo a dedicare a favore delle Regioni una percentuale fissa annuale. In particolare, partendo dal tema delle palestre scolastiche.
 
Il CIP: Recentemente riconosciuto quale Ente Pubblico, analogo al Coni, relativamente alle attività sportive paralimpiche, il CIP assolve non solo alla funzione principale di preparazione all’alto livello paralimpico e quindi alla partecipazione ai Giochi paralimpici, bensì anche e probabilmente soprattutto alla funzione sociale di emersione di quelle donne e uomini, ragazze e ragazzi, bambine e bambini, che a causa di un incidente, di una malattia genetica e quant’altro, si isolano e chiudono in loro stessi. Ad oggi meno di 1/5 delle persone che hanno una diversa abilità si avvicinano allo sport e quindi è chiaro che occorre continuare nella politica di intercettare al massimo le necessità di riferimento.
 
Occorre disciplinare le Professioni legate al mondo dello Sport. Categorie definite, certe, senza possibilità di errore e con compensi detassati. Lo sport deve continuare ad essere considerato il più grande bacino di volontari del nostro paese, snellendo le procedure di autorizzazione da parte delle Amministrazioni datoriali degli operatori.
 
L’atleta dilettante: Il sistema sportivo Italiano si basa principalmente sui Centri Sportivi Militari.
 
Occorre definire un percorso di accompagnamento ed inserimento nel mondo del lavoro per coloro i quali per anni si sono impegnati quotidianamente per raggiungere risultati sportivi, dando lustro all’Italia, attraverso un percorso di formazione di studio ad hoc che consenta all’atleta di poter, al termine della carriera, non solo raccontare la propria storia e la propria esperienza, ma anche di confrontarsi con la realtà di tutti i giorni ed offrire al mercato del lavoro una capacità senza dubbio dinamica e diversa dalle esperienze, per semplificare, più comuni.
 
L’atleta professionista: Detto che nel 2018 appare anacronistica la configurazione dell’atleta professionista diversa da quella dilettantistica, avuto riguardo al tempo ed all’impegno dedicato da entrambi, occorre certamente evidenziare il superamento e l’aggiornamento della Legge n. 91/81.
 
Se il giovane va veloce, il vecchio conosce la strada – Dobbiamo costruire un partito che superi il concetto, sbagliato, della rottamazione. Perché l’esperienza è, prima di tutto un inestimabile valore.
 
Gli anziani (over 65) sono oggi un quarto della popolazione italiana. La narrazione corrente li vuole (quando escono dal percorso lavorativo) annullare in un limbo in cui solo le relazioni familiari (nonni) sono comprese mentre non vi è cittadinanza né riconoscimento e piuttosto una colpevolizzazione (togliete il lavoro ai giovani! Costate al welfare!). Gli anziani sono invece un patrimonio di esperienza, di saggezza, di tempo e possono svolgere diversi ruoli socialmente utili. Sviluppare un movimento di anziani-cittadini attivi “le pantere grigie” vuol dire invertire questa narrazione. Vuol dire che gli anziani contribuiscono ad una migliore coesione sociale, accompagnando i bambini, promuovendo i parchi, custodendo le bellezze architettoniche, gestendo luoghi di aggregazione sociale come i campi di bocce….
 
Si tratta di un numero enorme di persone, milioni e milioni, che finito il lavoro, salvo eccezioni, perde ogni ruolo sociale. Non è mai successo nella storia del mondo che un intero strato di persone adulte, nel pieno possesso delle loro capacità e facoltà, non avessero alcun ruolo sociale. Se ci pensiamo bene si tratta di un’assurdità, che solo lo spirito leggero del nostro tempo rende possibile, astenendosi dal riflettere seriamente sulla condizione delle persone.
 
Oltre all’aumento del numero degli anziani va considerato anche l’incremento delle prospettive di vita; se le donne hanno al momento della loro nascita una speranza di vita di 85 anni, questa nel corso del tempo salirà progressivamente sino a raggiungere i 90 anni nel 2050, mentre per gli uomini nello stesso periodo si passerà da 80,6 a 86,1 anni di speranza di vita. In sintesi: aumenta il numero degli anziani e aumenta anche la loro durata di vita. Migliora anche la vita: man mano si impara a vivere meglio, ad alimentarsi in modo più sano, a dedicare più tempo e cura alla prevenzione.
 
Siamo, per così dire, di fronte a un ingente “patrimonio umano” (almeno 12 milioni di persone) che rischiano di essere vissuti come un peso, come persone inutili che non danno più niente alla società.
 
Si crea un circolo vizioso: la società tende a marginalizzare l’anziano; l’anziano tende ad autoescludersi. Questa situazione deriva da un problema fondamentale: andando in pensione il pensionato perde il proprio ruolo sociale e ciò significa essere declassato, contare meno. Il pensionato nella società è meno considerato di un lavoratore.
 
Dunque la risposta alla condizione dell’anziano nella società di oggi non può che consistere nel recupero di un “ruolo sociale” dell’anziano. E deve trattarsi di un ruolo sociale “riconosciuto”, socialmente, pubblicamente.
 
Superamento della riforma Fornero, attraverso l’introduzione dell’età pensionabile agganciata all’età media europea. Si va in pensione con i contributi versati e sotto la soglia delle povertà interviene lo Stato con il reddito di inclusione.
 
Nessun cittadino italiano o residente in Italia può essere lasciato senza casa o sussidio adeguato a una vita dignitosa. REI per il sostegno alle povertà e salario di inserimento al posto del reddito di cittadinanza per i disoccupati che potranno essere formati e sperimentati dalle imprese nei mesi di durata del salario di inserimento, non superiore a due anni.
 
Il lavoro va svolto nelle imprese e i lavoratori devono essere tutelati e accompagnati nel mondo del lavoro. I sussidi servono per le emergenze e devono essere distinti dal lavoro.
 
Con le parti sociali apriamo una nuova stagione – La politica sbaglia quando pensa di fare da sola e quando pensa che basta un clic per superare le parti sociali. Mai come in questo momento caratterizzato da un mondo fatto da divisi che si tengono uniti attraverso la rete, ma sono tanti uomini e donne soli, abbiamo bisogno di corpi intermedi per mettere insieme istanze diverse. Il PD che ho in mente dialoga ogni giorno con le parti sociali e coniuga l’innovazione con una nuova stagione di diritti.
 
Il diritto al lavoro non scompare con la nuova tecnologia, ma si rafforza. Il diritto al rispetto del tempo e della qualità della vita non si riduce con il progresso e la tecnologia.
 

INNOVAZIONE

Oggi non c’è più distinzione tra economia reale e economia digitale – Tutta l’economia è digitale. È dovere del regolatore intercettare e accompagnare i cambiamenti che vanno iscritti d’ufficio nella più ampia rivoluzione impressa al capitalismo moderno dal digitale: la ‘data economy’. Chi detiene dati e informazioni possiede oggi la materia prima, un capitale con valore inestimabile su cui poggiano le nuove catene del valore. I nostri giovani sono la nostra migliore speranza per affrontare questi cambiamenti.
 
Sfidiamo Rousseau con HackItaly – HackItaly è una piattaforma di democrazia partecipativa open source, sicura e trasparente, con fondamenta tecnologiche moderne. Con un codice sorgente accessibile a tutti gli utenti e algoritmi noti Hackitaly lancia la sfida alla piattaforma Rousseau, un sistema opaco, obsoleto e facilmente violabile. Attraverso HackItaly si potrà partecipare attivamente alla gestione della cosa pubblica attraverso una nuova rete di attivisti che stiamo reclutando in rete: sviluppatori software, ambasciatori delle idee e i tester, che costruiscono e collaudano la piattaforma.
 
Il PD #aporteaperte deve avere sezioni e smartphone, piazze, marciapiedi e tablet, per unire tradizione e modernità. Una politica aperta, trasparente e sempre partecipata che sappia coniugare diritti e innovazione.
 
Oggi, al tempo del digitale, i dati valgono, spesso, più del cemento o dell’oro. IL Partito Democratico deve guidare una battaglia cruciale nel nostro Paese e in Europa per la portabilità dei dati; dati che appartengono a chi li genera e non a chi li gestisce facendo business. I dati dello Stato, poi, considerati sensibili, legati ad ognuno di noi, dall’anagrafe, alla salute, dal fisco, alla giustizia devono essere tenuti in un cloud pubblico gestito dalla Repubblica e non da soggetti privati che li utilizzano per rafforzare i propri interessi. Consentire a ogni essere umano di portarsi i propri dati ovunque garantisce la vera libertà. Non essere in grado di interpretare la rivoluzione digitale significa alzare bandiera bianca di fronte alla concentrazione di valore e di potere del nuovo capitalismo globale che spesso utilizza tecnologie, risorse finanziarie e informazioni che non detengono nemmeno i governi dei grandi Paesi.
 
Il rischio del passaggio dal game power al game over è automatico.
 
Dal commercio alla logistica, dalla finanza al turismo, dall’industria all’agricoltura … la rivoluzione digitale in ogni settore – Al tempo del boom digitale e dell’e-commerce le nostre città sono inondate di piccoli pacchi che non possiamo lasciare a chi ha quasi il monopolio del commercio online anche il controllo della logistica secondo una logica privatistica e con l’aggravante dell’elusione fiscale.
 
Sarebbe letale per la nostra economia e per il fisco.
 
Oggi, col commercio elettronico, gli invii postali svolgono il ruolo che avevano ieri le vecchie lettere, è compito della politica, quindi, ripensare al servizio universale postale, estendendolo allo smistamento, alla distribuzione e al trasporto di invii postali da 2 a 5 kg. Sui pacchi fino a 20 kg va bene l’attuale impostazione, anche se vanno rivisti gli accordi sui territori. Senza nessun intervento del regolatore Amazon oggi o qualunque altra multinazionale domani, rischia di sommare il potere quasi monopolistico sul commercio a quello della logistica. Ci sarebbe una massimizzazione del profitto e del potere commerciale senza precedenti. Amazon ha, di fatto, il controllo dei maggiori centri logistici alle porte di alcune metropoli. Il PD nuovo deve battersi per garantire la concorrenza tra brand online e Amazon, che ha di fatto il quasi monopolio del commercio online, dando loro la possibilità di far arrivare i loro prodotti ai clienti in 24 ore, proprio come fa il colosso americano, anche in un posto lontano e considerato periferico. Riformando il servizio universale postale riapriamo il mercato, modificando le regole.
 
In questo contesto si inserisce anche il tema fintech. Le banche devono essere fintech. C’è la necessità di coniugare nuove politiche industriali per la finanza al tempo del digitale con una moderna regolazione. Non ci può essere nemmeno per la finanza un mondo online fuori dalle regole; gli operatori finanziari al tempo delle fintech rischiano di fare la fine dei dipendenti degli ipermercati al tempo del commercio elettronico. Per questo motivo sarebbe opportuno iniziare a pensare ad un testo unico delle fintech perché riguarda il funzionamento dell’intero sistema, e in primis delle banche. Le fintech non sono dei mostri, ma semplicemente l’evoluzione del sistema e il regolatore ha il dovere di rendere i nuovi business accessibili da tutti e alle stesse condizioni. La competizione deve farsi sul mercato a parità di regole. Altrimenti è inevitabile che ci sarà chi vince sempre e chi perde sempre, nel commercio come nella finanza.
 
La dematerializzazione della ricchezza necessita, di un approccio radicalmente nuovo e l’intelaiatura fiscale che regola i rapporti tra i vecchi Stati nazionali, società e imprese deve necessariamente adattarsi alle nuove regole del mercato. Dalla musica al cinema, dalla finanza ai media. Dal commercio elettronico al turismo, alla cultura. Dalla sanità alla sicurezza, ai giochi. Una rivoluzione radicale in corso di usi, costumi, business e stili di vita.
 
Le multinazionali del web devono pagare le tasse nel Paese in cui fanno business. Non basta sgranare gli occhi quando si legge che Over the top fanno profitti miliardari nel mondo ma le tasse che pagano nel nostro Paese sono inferiori a quelle di un commerciante di provincia. Chi fa politica e non interviene è corresponsabile di questa voragine che danneggia i Paesi e i contribuenti onesti. Serve immediatamente ridefinire una volta per tutte in Europa l’intelaiatura fiscale al tempo del digitale.
 
Basta con la farsa della ‘non stabile organizzazione’ per giustificare la continua elusione fiscale dei giganti del web.
 
L’equità fiscale nell’economia digitale è un principio sacrosanto. La politica, soprattutto di sinistra, ha il dovere di garantire a tutte le aziende di operare in un regime di concorrenza leale, senza alcuna tassazione di favore per le grandi multinazionali del web. E se questo vuol dire far pagare alle OTT le imposte che oggi continuano ad eludere, non ci si può prostrare davanti ai vari Tim Cook, Bezos o Zuckerberg. Sono dei capitalisti, e come tali pensano solo al profitto.
 
La giustificazione di chi diceva ‘aspettiamo l’Europa’ ci ha solo fatto perdere miliardi di gettito fiscale, la Francia dal 1° gennaio partirà in autonomia. Il PD deve avere il coraggio di guidare questo processo anche in Italia. L’Europa, un’Europa non a guida Juncker, leader del Lussemburgo, principale paradiso fiscale, sarà conseguente.
 
Le argomentazioni che l’Europa pone a contrasto dell’assunzione di un programma comune di fiscalità unica armonizzata nei vari paesi aderenti sono troppo deboli: la consapevolezza dei problemi di bilancio che le armonizzazioni sulle aliquote e sulle modalità di calcolo di sistemi fiscali attualmente ancora così diversi non può comportare la rinuncia al progetto! La sfida consta nel prevedere un piano organico che affianchi a un progetto di armonizzazione fiscale un progetto di riforme alte e strategiche condivise, in grado, attraverso periodi transitori, di condurci a un progressivo riassorbimento dei disallineamenti, attivando fondi specifici di sussidiarità per gli stati più deboli, con la convinzione che un’Europa più integrata e coerente sia anche l’Europa più forte che vogliamo! Ma il vantaggio delle multinazionali del web non è solo quello fiscale. In molti “Servizi” gli Stati Europei non fanno gioco di squadra. Non si alleano tra loro. Non c’è un Sistema Pubblico dei Media europei che invece avrebbe grandi numeri-contatto e una capillarità per fare leale concorrenza ai Social Media e alle OTT di contenuti audiovisivo. E costruendo con enorme facilità propri e potenti Social Media interattivi per un’offerta sinergica e integrata. Trasformando anche in vantaggio la propria presenza capillare nei Territori, nei dipartimenti, nei Lander e nelle Regioni. Trasformando le sedi locali dei Media Pubblici, in poli creativi, produttivi, autonomi e cosmopoliti. Stesso discorso vale per le Poste Pubbliche degli Stati Europei, organizzati ancora per tariffe nazionali ed estere, a 20 anni dalla moneta unica. Essere più competitivi creando sistemi europei ottimizzati e sinergie con il radicamento territoriale, sfruttando tutti i benefici del 4.0 Ma restare nel “Modello Sociale Europeo” senza ridurre i diritti dei lavoratori. E lanciare un grande movimento, nazionale ed europeo, per far sì che sulle crisi aziendali e sul degrado organizzativo dei Servizi Pubblici intervenga la “Finanza di Comunità” quale terza via tra Nazionalizzazione e Privatizzazione Selvaggia. Favorendo l’azionariato Popolare, integrato con l’autogestione e cartelli consortili di PMI. Questo oggi con la comunicazione digitale è facile. Nell’industria del calcio i modelli di azionariato popolare di Barcellona e Real Madrid (ma anche il Parma in Italia) non possono certo dirsi “fallimentari”.
 
Il Mezzogiorno è un impegno nazionale prioritario – Evitando i luoghi comuni della lamentosità retorica di un vecchio ed ormai superato meridionalismo, dobbiamo far luce su quello che sta ormai diventando un fenomeno di forte depauperamento delle sue potenzialità di sviluppo: la perdita di capitale sociale. Vale a dire di quella componente dello sviluppo di qualità professionale, fiducia reciproca e senso del bene collettivo che favorisce quegli ingranaggi che permettono alla società di progredire senza intoppi, con minor con minor costo delle transazioni, più alti rendimenti dell’innovazione ecc. Capitale sociale una cui importante componente si addensa negli strati più acculturati della comunità di riferimento: componente della quale il Mezzogiorno si sta letteralmente svuotando, come sembra emergere dai lavori dell’Istat.
 
Nel 1989 il ritardo di sviluppo della Germania Est, la ex DDR, rispetto al nostro Mezzogiorno era superiore a 15 punti. Inutile dirci oggi qual è la condizione tra la ex Germania dell’Est e il Sud d’Italia.
 
Dal 1989 al 1993, l’Italia affrontava il primo quadro comunitario di sostegno da Paese ancora centralista, le classi dirigenti scoprirono che il sistema di finanza pubblica non era più basato sulla spesa storica ma che bisognava in qualche modo creare le condizioni affinché per ogni lira spesa si potesse ottenere un Ecu di finanziamento, l’unità di misura europea di quegli anni. L’Ecu consentì alle classi dirigenti di iniziare a pensare che la specializzazione anche della politica locale non dovesse essere soltanto su “come si potevano ottenere risorse pubbliche dallo Stato”. Uno Stato che si indebitava con titoli BOT o Btp al 10-11% e poi trasferiva, a cascata, le risorse alle periferie.
 
Il quarto di secolo che abbiamo alle spalle (Programmazione comunitaria 1989-1993, 1994-2000, 2000-2006 e 2007-2013), coincide con le politiche regionali dell’Unione Europea, con le politiche di sviluppo, con l’idea di convergenza economica della UE. A macchia di leopardo alcune cose sono state fatte ma vedere una bandiera dell’Europa dietro un cantiere per una fogna aggiustata o sopra un Palazzetto dello Sport, una palestra o un campo da tennis fa rabbrividire. Quelle risorse servivano per fare altro, servivano a stimolare investimenti privati che si andavano a sommare ad investimenti pubblici. Un investimento pubblico, a maggior ragione se coperto da risorse comunitarie, deve generare economia endogena e lo fa se stimola investimenti privati, se genera occupazione, se stimola il Pil anche su scala più ridotta. Ma per come sono state utilizzate fino ad oggi le risorse europee si sono semplicemente sostituite alle risorse ordinarie.
 
L’Italia, dagli ultimi due quadri comunitari di sostegno in poi, ha perso una grande opportunità. Il periodo di programmazione 2014-2020 ha delle enormi lacune: è poco originale, non impatta sull’economia endogena. Se non ci sarà un cambio di passo vorrà dire che nei 25 anni precedenti non abbiamo capito la lezione.
 
La perdita di capitale sociale del Mezzogiorno appare infatti desumibile dalla recente ricerca Istat (13 dicembre 2018) sulle migrazioni interne e dall’ultimo Rapporto Svimez. Emerge che negli ultimi 20 anni la perdita di popolazione interna del Mezzogiorno, dovuta ai movimenti interni, ” (…) Le nove regioni con saldo negativo appartengono tutte al Mezzogiorno: Campania (-16 mila) e Sicilia (-15 mila) insieme rappresentano oltre il 56% della perdita di popolazione, circa 54 mila unità, nella ripartizione meridionale. Negli ultimi cinque anni la regione più attrattiva è l’Emilia-Romagna (+2,9 per mille), seguita da Trentino-Alto Adige (+2,7 per mille), Lombardia e Friuli-Venezia Giulia (per entrambe +1,8 per mille). Al contrario, Calabria (-4,2 per mille), Basilicata (-4,0 per mille), Molise (-3,5 per mille), Sicilia e Campania (rispettivamente -2,9 e -2,7 per mille), sono le regioni che presentano i saldi negativi più elevati per mille residenti”.
 
Innovare senza il Mezzogiorno significa barare – Senza Sud non solo l’Italia è ferma, ma non va da nessuna parte. E deve capirlo soprattutto la parte più ricca del Paese e i partiti più forti al nord, a partire dalla Lega. Dobbiamo realizzare almeno il 34% degli investimenti al Sud e non solo sulla carta; decidiamo le priorità dei 4 miliardi aggiuntivi sul FSC. Investimenti pubblici al Sud non per ‘quote fisse’, ma con ‘quote minime’ che servono a garantire la certezza che le poche risorse ordinarie destinate a investimenti nel Paese vadano anche al Sud. A partire dagli investimenti di Anas e Ferrovie.
 
Continuare a parlare di servizi pubblici pensando di riproporre il modello dell’Alta Velocità che oggi tutti vogliono privatizzare, ma non completata al Sud pur essendo stata pagata con la fiscalità generale e con risorse pubbliche destinate agli investimenti è sbagliato. L’innovazione in Italia passa attraverso investimenti senza precedenti al Sud, dall’alta velocità alle reti. Va prima collegato il mezzogiorno al resto d’Europa e solo dopo sarà possibile privatizzare quei servizi, nella linea tracciata in questi anni dai Governi Pd. E questo vale anche per le reti. Per la fibra ultraveloce e per gli investimenti correlati coperti con risorse pubbliche. Se vogliamo garantire una politica industriale moderna le reti devono rappresentare quello che rappresentò l’autostrada del sole nel dopoguerra, unendo nord e sud. Perché solo ripartendo dagli snodi del mezzogiorno si riconnette una volta per tutte il Paese al Medioriente, al Maghreb alle economie emergenti in Africa, oltre a rafforzare il sistema Paese nel rapporto con l’occidente.
 
Un Partito che coniuga sempre diritti e innovazione non può non esprimersi con chiarezza sull’immigrazione. Le nuove frontiere della sfida globale delle migrazioni sono rappresentate dalla promozione di una strategia di cooperazione allo sviluppo nei Paesi che vivono una grande emigrazione. Nessun muro e filo spinato fermerà un uomo in cerca di futuro per la propria famiglia.
 
Prevenire l’immigrazione irregolare e le morti nel Mediterraneo significa costruire cooperazione con pari dignità con i Paesi med-africani, favorendo uno sviluppo sostenibile che garantisca maggiori opportunità di occupazione. La nuova Legge sulla Cooperazione offre strumenti da valorizzare con trasparenza con i nostri partner nell’area mediterranea e africana. Noi abbiamo il dovere di aiutare chi è in difficoltà. Sempre. Come abbiamo il diritto di rimandare a casa tutti gli irregolari che delinquono. L’Italia deve tornare ad essere, per il mondo intero, il Paese di riferimento del Mediterraneo. E come ricorda lo scrittore marocchino Tahar Ben Jelloun: “Siamo sempre lo straniero di qualcun altro. Imparare a vivere insieme è lottare contro il razzismo”.

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