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#fiancoafiancoCambiare il Pd per cambiare l’Italia

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Noi e il mondo

Diamoci una scossa. Noi democratici dobbiamo essere idealisti senza illusioni, per dirla con John F. Kennedy, o lasceremo il campo agli illusionisti senza ideali che stanno sfasciando il Paese. Il superamento delle ideologie forti del ‘900 non ha tolto alle persone una richiesta di senso, senza la quale la politica e l’impegno per un progetto collettivo perdono forza. Nel mondo, democratici e riformisti sono immersi in questa sfida, che spesso li fa sembrare timidi e sulla difensiva, sempre in bilico tra illusori ritorni al passato e mera gestione dell’esistente. La sfida è anche nostra. Va aggiustata la bussola del nostro impegno politico.
 
C’è stato un momento in cui gli eredi dei grandi riformatori del Novecento sono diventati i tecnocrati del secolo successivo.
 
È successo quando il realismo, che è il giusto antidoto contro la demagogia, si è fatto ideologia. Quando i vincoli di bilancio, piuttosto che un dato di fatto, sono diventati l’unico orizzonte ideale. Quando di fronte a una scelta non si è saputo dire altro che “ce lo chiede l’Europa”. Quando di fronte alle grandi transizioni – ambientale, tecnologica e demografica – si è messa la testa sotto la sabbia, lasciando le persone da sole di fronte alla fatica e all’ansia del cambiamento. In sintesi: quando si è lasciato che le nostre società smarrissero un’idea di futuro. Se si fanno più debiti che figli, se non si crede più che l’istruzione possa portare avanti chi è nato indietro, che ciò che ci attende possa essere migliore di ciò che c’è già, allora, democratici, riformisti e progressisti soccombono. È una costante della storia. Anche noi non abbiamo visto arrivare questo crinale per tempo.
 
La crisi del 2008 segna uno spartiacque. Così come la stagnazione economica e l’inflazione degli anni Settanta segnarono il passaggio dal grande consenso keynesiano, durante il quale anche i governi di centrodestra aumentavano la spesa pubblica e allargavano lo stato sociale, a quello neoliberale, durante il quale anche i governi di centrosinistra privatizzavano e mettevano il welfare in cura dimagrante. Quale nuovo consenso emergerà dopo lo spartiacque che stiamo vivendo non ci è dato sapere. Lo sbocco dipenderà 3 anche da noi. Il compromesso socialdemocratico tra capitalismo e stato sociale appartiene alle grandi invenzioni della storia umana, insieme alla ruota e alla penicillina. Ma va ripensato alla radice.
Dobbiamo innovare, non guardare indietro.
 
Negli scorsi decenni, le disuguaglianze tra paesi si sono ridotte e milioni di persone sono uscite dalla miseria. Ma i contraccolpi sulle disuguaglianze interne ai paesi sviluppati sono stati palpabili e mal governati. La distribuzione del reddito è diventata meno egualitaria, con l’1% che sta in alto sempre più ricco e il 50% che sta in basso sempre più povero. Oggi nel mondo ci sono 8 persone che detengono la stessa ricchezza di 3,6 miliardi di persone più povere. Sono aumentate le disparità nell’istruzione, nelle opportunità sociali, nei benefici a cui si accede in base all’impresa o al territorio in cui si lavora. La classe media è entrata in una spirale di aspettative decrescenti per un mercato del lavoro sempre più polarizzato tra lavori appaganti e lavori sottopagati.
 
Si è formato un “Quinto Stato” di persone esposte alla precarietà, privo di tutele pubbliche e sindacali, senza un’agenda politica, “straniero a casa sua” per mancanza di riconoscimento sociale. E la crescita del Quinto Stato, non a caso, è stata accompagnata da un aumento dei profitti da monopolio, o da scarsa concorrenza, e da una forte riduzione della quota di Pil destinata al fattore lavoro. E se i muri invisibili delle disuguaglianze dividono persone e territori, generi e generazioni, prima o poi avrà la meglio chi i muri vuole costruirli davvero, fermando il cambiamento e dando un effimero senso di protezione.
 
Non si tratta solo di una questione economica. Come sempre accade nei cambi di fase siamo davanti a una crisi di valori. È la relazione con l’altro che, in questa prospettiva, è divenuta un peso, un ostacolo alla realizzazione del proprio egoismo. Anche i social network, dopo l’annuncio del ritorno della relazione, hanno finito per erodere il rapporto tra persone nell’assenza del contatto fisico e visivo. È da qui che nascono le scorciatoie del richiamo al popolo come massa indistinta anziché alle persone responsabili inserite in una comunità.
 
La tecnologia sta cambiando il rapporto tra cittadini e democrazia.
 
E il modo in cui si fa politica. I corpi intermedi – partiti, sindacati, associazioni – sono in crisi ovunque. Nell’età dei social media, il rapporto tra cittadini e politica rischia un cortocircuito in cui è massima la partecipazione momentanea e incendiaria, ma minima la capacità di incidere sulle scelte di chi governa.
 
Le “masse” della politica del ‘900, per dirla con Byung-Chul Han, sono state rimpiazzate da uno “sciame” digitale senza gravitazione.
 
Proteggere la democrazia vuol dire anche rinnovare i corpi intermedi perché aiutino questo sciame digitale a farsi massa, a farsi azione collettiva per costruire futuro. Negli anni passati, noi abbiamo fatto bene a superare le vuote liturgie della concertazione, ma avremmo dovuto essere più attenti a riannodare i fili del dialogo sociale, affrontando il cambiamento insieme e non contro il sindacato e gli altri corpi intermedi.
 
L’odio e il risentimento che attraversano le nostre democrazie altro non sono che il frutto avvelenato di ciò che è stato seminato per decenni. Quando prevale il timore di essere soli di fronte a un mondo instabile e imperscrutabile, le fragilità si fanno paure: paura del diverso, del proprio futuro. In questo scenario bisogna riaffermare con forza che la relazione con gli altri è una risorsa.
 
Da un’epoca di slegatura dobbiamo entrare in una stagione di rilegatura. Non si tratta di passare “dall’io al noi” annegando le soggettività, ma di affermare il valore generativo delle relazioni.
 
Ovunque avvengano: nella famiglia, nell’associazione libera e nella comunità locale. Si deve investire su spazi e beni pubblici come scuole e piazze, sapendo che lo spazio pubblico è la risorsa per la vita di relazione della comunità. E che il primo bene pubblico è la salvaguardia del pianeta. Non comprendere il valore dei beni comuni e la responsabilità della custodia dello spazio pubblico, nel pluralismo delle forme di gestione, significa distruggere valore civile. Sul piano culturale si tratta di rimettere in discussione l’idea che la libertà consista nell’abbattimento di ogni legame sociale, per principio considerato oppressivo. La libertà o è un progetto comune o non è.
 
Di fronte a questa sfida, il nostro faro è l’articolo 3 della Costituzione italiana: la rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana. Un ideale che sviluppa in maniera incredibilmente moderna il diritto alla felicità del costituzionalismo statunitense, perché la nostra felicità dipende dalla nostra “generatività”, dal fatto che la nostra vita sia in qualche modo utile a qualcun altro. La felicità esiste se le persone sono generative. Costruire una società pienamente generativa: ecco l’ideale sul quale vogliamo misurare l’ambizione del nostro impegno politico

Noi e l’Italia

Questi enormi mutamenti hanno creato la tempesta perfetta nel nostro Paese, nonostante l’impegno appassionato e competente dei nostri governi. Adesso, la nostra responsabilità è direttamente proporzionale alla pericolosità del tempo che stiamo vivendo per la tenuta dell’Italia. Dobbiamo raccogliere il forte messaggio arrivato dalla nostra ultima manifestazione di Piazza del Popolo: una richiesta di unità, apertura e cambiamento del Partito democratico, per essere l’alternativa forte alla deriva che il Paese sta rischiando con entrambe le forze nazional-populiste. Facciamo in modo che il nostro congresso sia una tappa di questo percorso, coinvolgendo iscritti ed elettori. Aprendoci a tutte le energie che sentono come noi la responsabilità di un nuovo impegno patriottico per l’Italia. Facciamo in modo che il congresso sia serio, partecipato, appassionante, leale. Che sia all’altezza della responsabilità che ci compete. Che indichi non solo le persone, ma soprattutto le idee guida per una prospettiva politica.
 
Noi ci crediamo. Non c’è sconfitta elettorale o difficoltà politica che tenga: le democratiche e i democratici italiani devono rialzarsi e mettersi in cammino. Devono sentire l’urgenza del momento. Riscoprire le ragioni di un impegno per il futuro, per una pagina nuova da scrivere tutti insieme. Devono sapersi unire, nella pluralità che è ricchezza, e non dividere. Perché ogni nostra frattura è un regalo a questa destra pericolosa per l’Italia.
 
Quanto sta avvenendo nasce nelle elezioni dello scorso 4 marzo, ma viene da più lontano. È tempo di svegliarsi dal sonno. I peggiori incubi che avevamo rimosso sono alle porte. Pensavamo che le conquiste di democrazia, pace, cooperazione tra popoli e Stati fossero acquisite. Che l’Europa fosse la nostra casa comune per sempre. Non è così. Bisognerà combattere di nuovo e con nuova passione. I diritti umani, il patto di cittadinanza fatto di diritti e doveri, le istituzioni di tutti sono valori non negoziabili, che vengono prima di qualsiasi altra discussione politica. Eppure oggi sono in pericolo. Ma non basta l’accusa, giusta e doverosa, a entrambe le forze nazional-populiste di ingannare il popolo fingendo di servirlo. C’è da ricostruire la fiducia che abbiamo perso. Partendo da un’attenzione umile e operosa verso le voci fievoli delle persone, soffocate dal rumore delle grida. Di fronte a quanto sta accadendo in Italia e nel mondo è necessaria una svolta culturale della sinistra. Un cambiamento che non è un giudizio sul passato ma un passo decisivo per andare incontro al futuro, senza rinnegare i principi affermati nella nostra azione di governo ma ridiscutendo con coraggio gli strumenti messi in campo.
 
Non è inseguendo nessuna delle forze nazional-populiste al governo dell’Italia che torneremo a convincere gli elettori che le hanno votate. La Lega, ormai, ha i contorni di una destra illiberale, nazionalista e reazionaria, legittimando la sua presenza in quel fronte che va da Marine Le Pen a Viktor Orban, e punta a distruggere l’Europa. I 5 Stelle hanno una visione della democrazia che annienta il valore della mediazione, della rappresentanza e del compromesso; fanno una politica economica che usa il futuro come una discarica dove nascondere le scorie radioattive della loro demagogia; propugnano un giustizialismo che calpesta i diritti degli innocenti; inseguono la Lega sull’immigrazione anziché proporre un modello di integrazione. Sono politiche di destra o in ogni caso illiberali e il Pd è radicalmente alternativo a tutto questo..
 
5 Stelle e Lega sono due destre diverse ma convergenti, qualsiasi alleanza con loro sarebbe pericolosa e contra natura. Per il Pd non esistono alleanze che lo coinvolgono in questa legislatura, se cade il governo si deve andare al voto.
 
Se questa è la natura degli avversari, la funzione della sinistra, dei democratici e dei riformisti, non può e non deve essere quella di chi tenta di addomesticare il populismo ma quella di costruire un’alternativa popolare credibile. E per farlo dobbiamo ricostruire la fiducia. Fiducia tra cittadini e istituzioni. Fiducia tra Pd ed elettori.
 
Non esistono scorciatoie. Per contrastare i populismi serve l’azione di forze politiche aperte e rinnovate, capaci di elevare la qualità, la trasparenza e la responsabilità delle scelte. E di proporre una prospettiva di sviluppo e coesione fondata su un nuovo patto sociale dove nessuno si senta escluso.
 
Nella scorsa legislatura, abbiamo fatto scelte importanti per il bene del Paese. Scelte che hanno accompagnato l’Italia fuori da una delle crisi più dure che l’abbiano mai colpita. Scelte che hanno introdotto nuovi diritti e allargato quelli esistenti a chi ne era privo.
 
Scelte di cui siamo orgogliosi. Ma perdere le elezioni quando hai fatto cose buone non è un’attenuante. È un’aggravante. Abbiamo fatto troppe riforme per gli italiani, poche con gli italiani.
 
Abbiamo smarrito le nostre parole: non quelle del chiacchiericcio mediatico, ma quelle che danno identità, illuminano le politiche che fai quando governi e fanno capire per che cosa ti batti. Abbiamo smarrito il senso, ancora prima del consenso. Per questo occorre rimettere al centro del nostro impegno politico prima di tutto le persone. Da qui dobbiamo ripartire, tenendo insieme l’orgoglio per quanto abbiamo fatto con l’inquietudine di chi vuole capire che cosa è andato storto, di fronte a sentimenti che non abbiamo intercettato, a problemi che non abbiamo capito né risolto, ai limiti che abbiamo mostrato rispetto agli strumenti messi in campo.
 
Senza per questo limitarci a richiami generici alla discontinuità, dietro ai quali si cela spesso la nostalgia, la volontà di superare il passato prossimo per riverniciare un passato più antico.
 
Per costruire l’alternativa alle forze nazional-populiste il Pd che c’è non basta, ma chi si illude di costruirla dal nulla, distruggendo le tante energie e la voglia di fare politica che esistono nel Pd, sta facendo un danno non solo al nostro partito ma a tutto il Paese. Noi vogliamo cambiare il partito per andare oltre. Anche per questo il nuovo segretario, subito dopo il congresso, avrà mandato per promuovere un governo ombra aperto alla società e ai soggetti disponibili a costruire un’alternativa autorevole e visibile al governo 5 Stelle-Lega. Subito dopo le elezioni europee, con la nuova assemblea nazionale del Pd, sarà decisivo promuovere una costituente di tutti i democratici e i riformisti italiani unendo le loro energie. Partire dal Partito democratico per arrivare ai democratici.
 
Questo lavoro dovrà svilupparsi anche in Europa a partire dalla famiglia socialista.
 
Vogliamo un Partito democratico che non viva di nostalgie e rancori. Un partito per la sinistra del XXI secolo. Un partito aperto e radicato. Un partito di giovani e di donne. Un partito di sindaci e di amministratori dei piccoli comuni. Un partito palestra, scuola e comunità che sappia rompere i vecchi schemi per liberare le energie di tanti a partire da chi si impegna sul territorio, anche destinando più risorse finanziarie alle strutture territoriali e investendo sul loro protagonismo negli organismi nazionali. Ci impegniamo a valorizzare l’organizzazione giovanile quale luogo decisivo per la partecipazione delle giovani generazioni alla vita del Pd: la sua autonomia è per noi un valore. Ci impegniamo a rispettare la parità di genere negli organismi dirigenti, non utilizzare mai più le pluricandidature di genere in maniera distorta e avviare la Conferenza nazionale delle donne. Vogliamo costruire un partito che sappia essere, ovunque, incubatore di civismo e di cittadinanza attiva a partire dai bisogni di chi ha di meno. Un partito forte delle sue radici nei principi scolpiti nella Costituzione della Repubblica nata dalla Resistenza

Il nostro riformismo radicale

Per raccogliere le sfide di questo cambiamento di fase, serve un riformismo radicale. Perché la radicalità della tua agenda politica e la chiarezza delle tue proposte ti rendono interprete dell’urgenza del cambiamento. I convegni non bastano. I vincoli di bilancio sono un dato di fatto, non un orizzonte ideale. Il nostro riformismo guarda al futuro e spinge sull’acceleratore dell’innovazione, senza nostalgie novecentesche per fantomatici paradisi perduti della sinistra che fu, senza conservatorismi. La sinistra è cambiamento.
 
Per far vivere l’impegno del nostro riformismo nella società, il Pd deve avere un’identità chiara. Deve essere un partito con cinque matrici ben visibili grazie alla radicalità delle scelte che ne discendono. Un partito che si batte per l’uguaglianza. Un partito ecologista. Un partito del lavoro, soprattutto del lavoro che cambia

Un partito europeista. Un partito che si batte per la democrazia

Un partito che si batte per l’uguaglianza Il nostro riformismo radicale si prende cura della società aperta contro ogni forma di chiusura nazionalistica e di restringimento delle libertà. Sapendo che questo vuol dire anche difendere e rinnovare lo stato sociale di fronte al progresso tecnologico, all’apertura dei mercati e alla transizione demografica, in modo da non lasciare nessuno da solo di fronte alla domanda di protezione che nasce dalla fatica e dall’ansia del cambiamento.
 
Per tutti: il cuore del nostro impegno deve ripartire dal rendere universale ciò che è solo per qualcuno. Dall’affermare che i diritti, le tutele, le opportunità o sono anche per l’ultimo della fila o, semplicemente, non sono. Dal mettere in campo strumenti efficaci per ridurre le disuguaglianze: tutte, non solo nel reddito, anche a fronte dello smarrimento sociale delle classi medie. Amartya Sen ci parla di “capacità”, che altro non sono che la trascrizione delle nostre sfere di libertà: quella di perseguire il proprio progetto di vita, di sottrarsi a malattie evitabili, di trovare un impiego decente, di accedere a un’istruzione di qualità, o di vivere in una comunità libera dal crimine (sì, perché anche la sicurezza è un bene comune: sentirsi sicuri vuol dire superare la paura). La nostra lotta senza quartiere alle disuguaglianze non può che abbracciare tutte queste dimensioni. Oggi, in Italia, la lotta alle disuguaglianze e la difesa delle classi medie passa soprattutto dal contrasto a tre grandi fratture: generazionale, di genere, e territoriale.
 
I giovani, la loro occupazione e la loro emancipazione, sono il cuore della nostra agenda politica. Lo sono nelle proposte 10 che avanziamo su lavoro, scuola, competenze, investimenti, ma anche come destinatari di proposte specifiche. Proponiamo l’introduzione di un fondo di capitale alimentato dallo Stato dal primo anno di vita fino al diciottesimo, utilizzabile per favorire la formazione e l’inserimento nella vita attiva: «credito giovani», un conto individuale vincolato, utilizzabile da chi diventa maggiorenne, anche dopo qualche anno, per avviare un’attività economica, dare un anticipo per comprare la prima casa, fare cooperazione, formarsi (Atto Camera N. 1298). Intendiamo abolire stage o tirocini non retribuiti, introducendo un compenso minimo e limiti di utilizzo e durata. A oggi gli stage non retribuiti sono veri e propri veicoli di conservazione sociale dato che solo le classi più abbienti possono permettere ai propri figli di farli. E troppo spesso sono usati dalle aziende per ottenere forza lavoro gratuita o a buon mercato. Intendiamo introdurre un compenso minimo anche per i praticanti nelle professioni e incentivi per il loro inserimento.
 
Per noi il primo punto delle politiche di genere è il tema del lavoro, come strumento di emancipazione delle donne da una persistente discriminazione che obbliga a decidere tra carriera e maternità, ad abbandonare il lavoro al sopraggiungere del primo figlio e a non rientrare più nel mondo lavorativo, a essere pagate meno a parità di lavoro e di conseguenza a ricevere una pensione inferiore, a non scegliere liberamente le attività professionali adeguate alla propria formazione, a essere inserite nel sistema del precariato, ad avere difficoltà a sviluppare attività imprenditoriali, a caricarsi tutto il lavoro di cura all’interno della famiglia. Con le nostre proposte su welfare e lavoro, vogliamo mettere in campo una strategia complessiva sulle pari opportunità che parta da qui. E ancora.
 
Una delle nostre priorità è quella di portare avanti una lotta senza quartiere alla violenza sulle donne, a partire dal rafforzamento dei centri anti-violenza ovunque sul territorio.
 
Crescere al Sud. L’Italia è a oggi l’unico Paese europeo, insieme alla Grecia, il cui Prodotto interno lordo non è ancora ritornato ai livelli pre-crisi: dieci anni dopo risulta ancora inferiore di 5 punti, addirittura 10 nel Mezzogiorno. Dove però, in mezzo a tante ombre, qualche luce c’è: se gli investimenti pubblici continuano a latitare, quelli privati dimostrano una certa vitalità. Vitalità che va incoraggiata con una strategia complessiva di sviluppo e una, altrettanto organica, di protezione. Basta con gli interventi occasionali e contingenti, che nel passato abbiamo troppo spesso dato l’idea di preferire. Dobbiamo utilizzare in maniera più produttiva i fondi dell’Ue: nonostante non manchino esperienze positive è ancora al Sud che emergono i problemi più seri nell’utilizzo di quei fondi come leve di sviluppo. La qualità della programmazione locale è troppo spesso ancora largamente insufficiente. Non a caso diversi paesi, dalla Spagna alla Romania, li gestiscono con una cabina di regia nazionale. L’Agenzia di coesione non deve fungere solo da sostegno alle regioni per la programmazione degli interventi, ma deve poter assumere direttamente su di sé la loro progettazione.
 
È indispensabile proseguire nel sostegno all’attività d’impresa, con strumenti che puntino a compensare gli imprenditori per i maggiori costi dell’operare nel Mezzogiorno: dal credito d’imposta all’esonero contributivo per le nuove assunzioni, dal Patto per il Sud ai contratti di sviluppo, dagli incentivi per i giovani imprenditori alla riserva per le spese della pubblica amministrazione, fino all’istituzione delle Zone economiche speciali, aree ad alta attrattività per gli investimenti grazie a una fiscalità di vantaggio e a procedure semplificate (uno strumento che in altri paesi, come in Polonia, si sta dimostrando vincente). Tutte proposte che devono rientrare all’interno di un disegno più ampio, fatto di investimenti infrastrutturali, formazione del capitale umano e una profonda riforma nel sistema amministrativo e giudiziario, a cominciare dal pubblico impiego. Infine, non illudiamoci, dobbiamo dare una risposta immediata ai problemi della povertà e dell’esclusione sociale. In questo senso, è naturale che le nostre proposte di rafforzamento del Reddito di inclusione e di potenziamento delle politiche attive del lavoro parlino soprattutto al Sud e alle sue difficoltà.
 
L’Italia è la sua scuola. L’uguaglianza comincia a scuola. Vogliamo costruire una scuola radicalmente democratica in un Paese radicalmente democratico, che permetta a tutti di raggiungere adeguati livelli di rendimento a prescindere dai contesti: liberando ogni singola personalità e favorendo la mobilità sociale. Il nostro reddito di cittadinanza è la conoscenza, crediamo nel diritto universale all’istruzione e alla formazione di qualità da zero anni a tutta la vita. E per renderlo davvero esigibile vogliamo realizzare un sistema di certificazione delle competenze lungo tutto l’arco della vita. Nella scuola, vogliamo ripartire dai docenti e dal loro lavoro, in coordinamento con i dirigenti e il personale non docente.
 
Gli insegnanti vanno formati bene, selezionati meglio, valutati in maniera adeguata e pagati di più: la loro valorizzazione e la loro motivazione passano da qui. È per questo che vogliamo aprire una discussione con il mondo della scuola sulla progressione e sulla diversificazione delle carriere. Vogliamo definire livelli essenziali di prestazione per la prima infanzia validi su tutto il territorio nazionale: tutti i bambini e tutte le bambine hanno diritto all’asilo nido e al tempo pieno, soprattutto nelle aree marginali. Basta lezioni private e basta “classi pollaio”. Proponiamo, a ogni livello di istruzione, non più di 24 alunni per classe, come da normativa attuale ma senza possibilità di deroghe, e non più di 15 alunni per classe nelle scuole che ricadono in aree a priorità educativa. Intendiamo potenziare l’alternanza scuola-lavoro come metodologia didattica per maturare competenze trasversali.
 
Università e diritto allo studio. Dopo troppi anni bui, nella scorsa legislatura, grazie all’iniziativa del Pd, le risorse sono tornate ad aumentare e l’attenzione per l’università è stata massima, perché crediamo e puntiamo sul futuro delle nuove generazioni, quello che il governo attuale al contrario vuole distruggere.
 
Siamo convinti che c’è un nesso tra futuro dell’università e futuro del Paese. Per noi l’università è cittadinanza, è rimuovere gli ostacoli all’emancipazione, allo sviluppo, alla partecipazione, tenendo insieme politiche per alta formazione, industria, lavoro, pubblica amministrazione. Tutto questo in un’ottica di recupero dell’insostenibile divario tra Nord e Sud. Per questo serve una misura strategica che rifondi in senso europeo l’università, affrontando i maggiori punti di crisi (precarietà della ricerca, esigenze studentesche, divario territoriale) con risorse certe per implementare un’infrastruttura strategica della ricerca, imperniata sul legame ricerca-imprese-territori e sul presidio delle frontiere tecnologiche. L’università deve essere aperta e accessibile per dare ai giovani la possibilità di realizzarsi, indipendentemente dalle condizioni di partenza: vogliamo consentire agli studenti meritevoli, che ne abbiano bisogno, di coprire l’intero costo di mantenimento degli studi e permettere loro di poter scegliere liberamente l’università a seconda di aspirazioni e talenti.
 
Un’unica imposta su tutti i redditi che sia davvero progressiva.

Per favorire l’uguaglianza, dobbiamo riformare il fisco per rilanciarne la progressività. Quando si parla di imposte sui redditi, si discute sempre di aliquote: chi ne vuole una, magari bassa, e chi ne vuole tante, magari alte. Poco si discute dei redditi a cui si applicano quelle aliquote, del fatto che l’Irpef è ormai diventata l’Irped: l’imposta su pensionati e dipendenti. I redditi di queste due categorie sono, da soli, quasi 700 degli 800 miliardi di imponibile, mentre tutte le altre categorie dichiarano poco più di 100 miliardi.
 
Mancano all’appello dell’Irpef oltre 200 miliardi, che godono delle troppe cedolari di diritto e di quella grande cedolare di fatto, allo zero percento, che si chiama evasione fiscale. Dobbiamo tornare a un’unica imposta su tutti i redditi, superando i regimi speciali, che favoriscono soprattutto chi ha grandi capitali o guadagna dalle rendite, ed estirpando l’evasione con un superamento graduale del contante entro il 2035. Ferma restando la possibilità di detrarre le spese di utilizzo per chi mette a frutto il proprio capitale, per esempio un immobile. Per noi non ci sono dubbi: per favorire l’uguaglianza, quest’unica imposta su tutti i redditi deve essere progressiva. Altro che «flat tax», che ucciderebbe del tutto la progressività e dirotterebbe risorse pubbliche verso chi ha già di più (con 60 miliardi di minori entrate per lo Stato, il 40 percento delle quali andrebbe a esclusivo beneficio del 5 percento di contribuenti più ricchi). Con la nostra proposta, il recupero di gettito sui redditi alti o su quelli oggi evasi permetterebbe di ridurre le tasse su quelli medio-bassi attraverso una riduzione delle aliquote che gravano su di loro, rafforzando la strategia degli 80 euro e rendendola più sistematica.
 
Una «minimum tax» sulle multinazionali che operano in Italia.
 
Quando cambia radicalmente il mondo del lavoro e della tecnologia, dobbiamo cambiare anche come si tassa. Oggi, in proporzione, paga meno tasse Bill Gates di chi assembla i computer per lui.
 
L’anno scorso il cantante Ed Sheeran ha versato più soldi al fisco britannico di Starbucks e Amazon. Non ha senso. In un’economia sempre più immateriale non è accettabile che anche la base imponibile sia immateriale, perché chi ha potere economico la sposta da qualche altra parte. Serve radicalità. Puoi essere la multinazionale più in voga del momento, ma se trasferisci i profitti in un paradiso fiscale hai sbagliato i conti. Il progetto Beps (Base erosion and profit shifting) dell’Ocse e del G20, al quale i governi del Pd hanno dato pieno sostegno, ha frenato le pratiche più aggressive di pianificazione fiscale internazionale. Non possiamo nasconderci dietro le difficoltà che esistono nel determinare la connessione tra utili e territorio: è arrivato il momento di fare qualcosa, se necessario anche in via unilaterale. Se aspettiamo il treno degli accordi multilaterali, rischiamo di perdere quello dell’uguaglianza.
 
L’Italia e altri paesi disponibili devono adottare subito una misura unilaterale in chiave anti-elusiva: una «minimum tax» sugli utili prodotti dalle multinazionali estere. La nostra proposta può essere riassunta in questo modo: la multinazionale continua a determinare il suo imponibile e pagare le imposte secondo le regole ordinarie. Tuttavia, questo risultato andrà confrontato con il peso di determinati indicatori, quali per esempio beni, forza lavoro e fatturato in Italia rispetto a quelli nel resto del mondo. In altre parole, se il 10 percento del fatturato-forza lavoro-beni del gruppo si trova in Italia, allora almeno il 10 percento degli utili dovranno essere dichiarati in Italia. Se il gruppo lo ha già fatto sulla base delle regole ordinarie, nessun problema. Ma se non lo ha fatto, entra in gioco il meccanismo di rideterminazione (con eventuale credito per le imposte pagate all’estero su quel reddito) che riporta in Italia quanto prodotto nel nostro Paese.
 
Servizi pubblici, famiglie e cura delle persone. Il fisco è importante ma non basta per mettere in campo una grande azione a favore dell’uguaglianza: dati i livelli di pressione fiscale raggiunti dalle nostre economie, fare redistribuzione nel XXI secolo significa innanzitutto rimettere in ordine lo Stato, aumentare l’efficienza e l’equità dei servizi pubblici. Questo è particolarmente vero nel nostro Paese, a causa di un inverno demografico che ha ripercussioni negative sulla crescita, sulla sostenibilità dello stato sociale e sulle dinamiche occupazionali. Basta un numero: nel 2018 si è registrato, per la prima volta dall’unità d’Italia, il sorpasso degli ultrasessantenni (28,7% della popolazione) sulle persone con meno di 30 anni (28,4%). Non è più rinviabile aggredire i problemi sociali creati da questa transizione demografica. . Oggi una famiglia con redditi molto bassi non beneficia delle detrazioni per figli a carico perché non paga alcuna imposta. Così come una famiglia di lavoratori autonomi è penalizzata rispetto a una famiglia di lavoratori dipendenti. Non è giusto. Non esistono famiglie di serie A e serie B. Per questo, rilanciando il programma elettorale del Pd, proponiamo di superare gli strumenti esistenti per introdurre un unico assegno universale alle famiglie (Atto Camera N. 687). Una famiglia, un assegno: una misura fiscale unica a sostegno della natalità e dell’occupazione femminile. Nello stesso tempo, proponiamo di allargare l’offerta pubblica di asili e riordinare il complicato sistema di sussidi per i servizi alla famiglia oggi presente nel nostro Paese, affinché entrambi i genitori, se vogliono, possano tornare al lavoro dopo la nascita dei figli. Agendo sia dal lato dell’offerta che della domanda, proponiamo l’istituzione di una dote unica che copra i costi dei servizi di cura nei primi anni di vita dei bambini.
 
Partendo dalla consapevolezza che, per chi non è autosufficiente, l’assistenza da parte dei collaboratori familiari non è un lusso ma una necessità esistenziale al pari delle spese mediche, vogliamo rendere le politiche per la non auto-sufficienza un diritto di cittadinanza e l’indennità di accompagnamento un diritto soggettivo legato al bisogno di cura individuale. Per questo, proponiamo di aumentare l’indennità in base ai bisogni effettivi delle persone, introducendo sia un assegno di cura sia un budget di cura, favorendo così il riconoscimento professionale e la regolarizzazione degli assistenti familiari (Atto Senato N. 16/973). Rispetto a oggi, l’indennità aumenterà per tutti e arriverà a raddoppiare nei casi più gravi.
 
A 40 anni dalla sua nascita il Servizio sanitario nazionale rimane ancora da valorizzare, potenziare e incrementare, tenendo conto del fatto che il settore della salute è in grado di fornire un grande contributo non solo al benessere delle persone ma anche all’economia e alla crescita del Paese. Il personale della sanità (oltre 715 mila persone) costituisce uno dei fattori fondamentali su cui tornare a investire: per questo proponiamo lo sblocco delle assunzioni, anche per le regioni in Piano di rientro, puntando alla staffetta intergenerazionale. Serve attenzione in ingresso, sulla formazione, con la stesura di un piano che colmi definitivamente il gap tra laureati in medicina e specializzazioni. Va rilanciato il finanziamento pubblico del Servizio sanitario, risorse certe e basta ribassi e garantita la piena applicazione dei livelli essenziali di assistenza aggiornati nella scorsa legislatura su tutto il territorio nazionale. È necessario procedere all’abolizione del superticket per eliminare uno dei fattori che limitano l’accesso alle cure soprattutto per chi è in condizioni di difficoltà economica. Serve poi un piano nazionale sulle liste d’attesa prevedendo, tra l’altro, l’aumento del numero dei professionisti dove c’è maggiore criticità e possibilità di visita sette giorni su sette

Un partito ecologista

La transizione ecologica è una delle grandi discriminanti del nostro tempo e un riformismo radicale non può che metterla al centro della sua agenda. Presto 9 miliardi di persone condivideranno il nostro pianeta. Entro il 2050, due terzi della popolazione vivranno in grandi città e quella verso le aree urbane è la più grande migrazione in atto. La domanda per cibo, acqua, energia e infrastrutture sta testando i limiti del nostro rapporto con la natura.
 
Per questo dobbiamo mettere urgentemente al centro della nostra agenda la rapida transizione verso uno sviluppo sostenibile, un principio che crediamo debba entrare anche in Costituzione. Lo sviluppo sostenibile vuol dire la capacità di una generazione di soddisfare i propri bisogni senza pregiudicare la possibilità che la prossima generazione faccia altrettanto. Non si può più affidare la speranza di crescita, occupazione e benessere, obiettivi pur irrinunciabili, a politiche e modelli economici ad alto impatto ambientale. Non li si può vivere come giustificazioni per motivare significativi scostamenti da obiettivi di sostenibilità.
 
Ma è possibile crescere economicamente senza far esplodere il pianeta? La risposta è “sì” ma solo se faremo le scelte giuste.
 
Investendo in tecnologia, in soluzioni basate sulla natura, dalla riforestazione alla difesa degli oceani, in un nuovo patto tra governi, imprese e consumatori. L’Italia e il Mediterraneo sono particolarmente esposti al cambiamento climatico in atto.
 
Dobbiamo affrontare questo snodo cogliendone le opportunità per uno sviluppo sostenibile, per un’economia e una società circolari.
 
Serve, di nuovo, radicalità. È cruciale assumere l’obiettivo di zero emissioni di gas serra entro il 2045, lavorando per il taglio delle emissioni del 60% entro il 2030, partendo dalla produzione e dall’uso dell’energia pulita e dall’efficienza energetica. Si tratta anche di lavorare per la cura del territorio rafforzando la tutela degli ecosistemi, la sicurezza delle infrastrutture, la gestione di beni essenziali come l’acqua e la terra. Cogliendo in pieno l’opportunità di una crescita più sicura, più pulita, più sana, più efficiente. Non solo. Vogliamo introdurre un sistema di incentivazione fiscale a favore di quei consumi ad alto valore sociale e ambientale, ponendo il tema anche in sede di Unione Europea. Un sistema di incentivazione sul modello della «green social consumption tax», una rimodulazione dell’Iva che tenga conto della responsabilità sociale e ambientale delle filiere produttive.
 
Infrastrutture e qualità della vita stanno dentro il tema della sostenibilità. Una dotazione infrastrutturale insufficiente si traduce in un sistema di mobilità basata principalmente sull’auto privata, non più sostenibile. L’Italia è il Paese europeo con il tasso di motorizzazione privata più alto, con oltre 600 autoveicoli ogni 1.000 abitanti e, non a caso, il Paese europeo con il più alto numero di decessi prematuri in rapporto alla popolazione residente per inquinamento atmosferico, soprattutto nelle città. Una mobilità urbana inquinante e congestionata comporta notevoli disagi per i cittadini e genera costi diretti e indiretti elevati per l’economia.
 
Per il futuro, è necessario immaginare e progettare una nuova stagione infrastrutturale che si fondi su tre grandi assi: quello ferroviario, quello marittimo e quello ciclabile. Non più strade ma più treni e più navi, attraverso la cura del ferro e la creazione di “autostrade del mare”. Per spostare le merci dalle strade e ridurre l’inquinamento

Un partito europeista

È paradossale che uno dei Paesi di sbarco di migranti e con uno dei debiti pubblici più alti sia diventato il terreno di sperimentazione per un governo di due forze unite in modo ferreo tra di loro dal sovranismo. È infatti evidente che proprio un Paese con queste caratteristiche ha come vero interesse nazionale quello di potenziare l’integrazione perché da solo può fare ben poco su questi e altri terreni. Nella scorsa legislatura i governi di centrosinistra si sono trovati in una difficile battaglia su due fronti: per un verso hanno provato a ribadire questa semplice verità alle forze sovraniste in ascesa e per altro hanno segnalato i limiti degli assetti europei attuali che rendevano credibili agli occhi di molti cittadini quelle impostazioni sbagliate. La costruzione di una sovranità europea che si affiancasse a quelle nazionali, ossia di un nuovo equilibrio di ispirazione democratica e federale, è stato l’impegno costante dei nostri governi e dell’ampia delegazione italiana del Pd nel gruppo europeo dei socialisti e dei democratici eletta nel 2014 con lo straordinario successo del Pd, la cui delegazione è diventata la prima all’interno del gruppo.
 
Le elezioni di maggio saranno un’occasione unica per riproporre con forza questi temi all’opinione pubblica italiana ed europea, cercando di aggregare su quest’impostazione forze di ispirazione diversa. Non prendiamoci in giro. Le elezioni saranno una sfida fra tre linee: sfasciare la costruzione europea; conservarla così com’è; oppure – e questo deve essere il nostro orizzonte – costruire un’Europa politica con chi ci sta. Non si tratta di creare un super Stato. E neanche di “cedere sovranità” come troppe volte abbiamo detto nella nostra retorica. Si tratta di costruire una nuova sovranità intorno a temi strategici che non avranno soluzione se non a livello sovranazionale. Con chi ci sta, anche arrivando a uno sdoppiamento istituzionale tra l’Europa a 27 e l’Eurozona.
 
Lo sappiamo: la storiella della nuova Europa gli elettori l’hanno già sentita. Ci abbiamo fatto tanti convegni. Mai una scelta. Serve radicalità nelle scelte, una volta per tutte. È anche così che si rinvigorisce la democrazia rappresentativa, proteggendola dagli attacchi di chi la dipinge come un ferro vecchio. Serve un Presidente eletto dai cittadini europei, un Parlamento che legifera, strumenti di partecipazione permanenti, un budget a gestione politica che completi l’unione monetaria con un’unione fiscale per gestire la domanda aggregata, a partire anche dall’attuazione del Piano Prodi per un New Deal di investimenti in infrastrutture sociali nel campo della salute, istruzione ed edilizia.
 
E serve un’unione sociale: il radicamento della cittadinanza europea in uno zoccolo duro di diritti sociali. Sì, redistribuendo i rischi tra cittadini europei. Su questo i riformisti radicali non possono essere ambigui. È legittimo che la signora Schulz abbia paura che parte delle sue tasse possano aiutare il signor Rossi quando perde il lavoro, ma senza la condivisione di alcuni rischi l’Europa muore. Anche nella costruzione dello stato sociale nazionale, la redistribuzione non è stata un processo semplice, con linee di frattura che hanno attraversato la sinistra. C’era chi la voleva solo al Nord, chi solo per gli operai. Adesso è il momento di fare la stessa scelta a livello europeo. Queste scelte non sono più rinviabili. Senza un nuovo inizio, l’Europa muore. Noi vogliamo questo nuovo inizio, vogliamo costruire gli Stati Uniti d’Europa

Un partito del lavoro che cambia

Il Pd deve avere la forza e la capacità per riproporre la centralità del lavoro e l’obiettivo della piena e buona occupazione. La qualità del lavoro è la nostra stella polare. L’aspirazione delle persone a emanciparsi da ogni costrizione economica o sociale è da sempre il faro della sinistra. Oggi questo vuol dire ripartire dal diritto universale all’istruzione di qualità con un’offerta pari in ogni territorio, dalla dignità del lavoro, dalle opportunità delle donne e dei giovani. Non c’è futuro per un Paese che spende più per interessi sul debito che in istruzione. Che manda tutti in pensione anticipata ma non investe in asili, ricerca, diritto soggettivo all’istruzione di qualità dalla nascita e per tutta la vita.
 
Dobbiamo rendere meno costoso il lavoro di qualità, con un taglio del cuneo contributivo sul tempo indeterminato di almeno 4 punti (per una riduzione di circa il 12 percento): il lavoro stabile vale di più, deve costare meno, all’azienda e al lavoratore. Dobbiamo gestire le transizioni da un’occupazione all’altra, con una rete di welfare 4.0 in cui far confluire in maniera integrata e personalizzata tutte le politiche attive e passive. Dobbiamo introdurre un salario minimo legale (Atto Camera N. 947) e una legge sulla rappresentanza per contrastare il dumping salariale. La riforma della contrattazione per noi è parte integrante di una più ampia strategia di protezione dai cambiamenti dell’economia. Dobbiamo rendere complementari contratti nazionali e salario minimo per difendere i livelli retributivi, e continuare a promuovere i contratti aziendali (validati dalla maggioranza dei lavoratori) per garantire salari e produttività più alti. Continuando il percorso virtuoso avviato nella scorsa legislativa, volto ad abbattere il muro tra lavoro dipendente e lavoro autonomo, allargando tutele e opportunità a tutto il mondo del lavoro, ci impegniamo a implementare l’equo compenso per il lavoro autonomo, partendo dai contratti con la pubblica amministrazione. In attesa di un riordino complessivo dei diritti fondamentali comuni a lavoro dipendente e lavoro autonomo, vogliamo dare subito risposte e tutele ai lavoratori delle piattaforme digitali, sulla scia delle buone pratiche dei comuni di Bologna e di Milano, ed estendendo anche ai rider la disciplina delle collaborazioni organizzate dal committente introdotta dal Jobs act per combattere le finte collaborazioni (Atto Senato N. 699).
 
E in questo nuovo orizzonte dovremo porci l’obiettivo non solo di garantire la sicurezza economica attraverso il lavoro e il welfare, ma anche una quantità di base di una risorsa che sta diventando sempre più scarsa ed elitaria: il tempo.
 
Tempo discrezionale e di qualità, da usare lungo tutto il ciclo di vita senza costrizioni e paternalismi, per formarsi, realizzare il proprio progetto di vita individuale e familiare. La crescita della produttività, da favorire con politiche che rilancino l’innovazione e gli investimenti, deve essere poi accompagnata con politiche che permettano di mettere il reddito che si crea e il tempo che si libera a disposizioni di tutti.
 
Oggi in Italia chi lavora lo fa per molte ore in più che nella media dei paesi europei. Un lavoratore italiano lavora circa venti ore al mese in più di un collega tedesco. La ragione: da noi gli straordinari non solo sono previsti, ma anche incentivati attraverso forme di detassazione (con un’imposta sostitutiva del 10 percento). In Germania gli straordinari sono fortemente disincentivati: non possono essere superate le 8 ore di lavoro al giorno; in alcuni casi eccezionali si può arrivare alle 10 ore ma solo se in un arco di sei mesi le ore lavorate medie rimangono sempre 8. Proponiamo di introdurre per legge un tetto di ore mese sul modello tedesco, così da favorire nuova occupazione e un maggiore equilibrio tra tempi di vita e tempi di lavoro.
 
Vogliamo potenziare i meccanismi strutturali di sostegno alla partecipazione dei lavoratori agli utili d’impresa attraverso il principio della co-gestione aziendale per favorire un aggiornamento veloce della organizzazione del lavoro, che si realizza non solo nella partecipazione dei lavoratori agli utili (cosa che in pochissime realtà avviene anche in Italia) ma nel fatto che i lavoratori stessi influenzino i processi lavorativi attraverso i sindacati di fabbrica e partecipino ai processi decisionali in quanto rappresentati nei consigli di sorveglianza. Le aziende che adottano simili meccanismi di co-gestione devono essere premiate con detassazione sugli utili d’impresa pari al 10% del loro valore, che potrà essere reinvestito in innovazione, ricerca e sviluppo.
 
Continuando il percorso di allargamento degli ammortizzatori sociali in chiave universalistica avviato col Jobs act, dobbiamo sostenere chi rimane indietro nei processi di trasformazione dell’economia. La rete universale di protezione deve essere potenziata e differenziata. È doveroso riconoscere che i momenti di grande cambiamento lasciano indietro molte persone. La crisi ha avuto effetti asimmetrici sia geografici (Nord-Sud, cittàcampagna) sia settoriali: le imprese esportatrici e i loro lavoratori ce l’hanno fatta, gli altri meno. Per questo in un concetto ampio di rete di protezione degli individui non ci sono solo gli aiuti al reddito ma anche le politiche del territorio e le politiche per l’impresa.
 
Per funzionare, l’aiuto al reddito deve guardare a tre platee diverse (chi è in condizioni di povertà, i disoccupati, i lavoratori a basso reddito). Ci deve essere un aiuto per i poveri che molto spesso non lavorano e non sono in condizioni di lavorare; deve essere affidato ai comuni che conoscono e gestiscono il problema da anni. Per quello c’è il reddito di inclusione, che va semplicemente completato investendoci ulteriori risorse come proposto dal Pd (Atto Senato N. 473). Ci deve essere un aiuto per chi guadagna poco che è stato affrontato finora con gli 80 euro e che proponiamo di aggredire con una riforma organica dell’Irpef come già discusso.
 
C’è infine un aiuto per chi rimane disoccupato, attualmente la Naspi e l’Ape sociale per lavoratori vicini alla pensione: strumenti che possono essere rafforzati nella generosità, durata e platea dei beneficiari

Un partito che si batte per la democrazia

Il nostro riformismo radicale vive in Europa e nell’autonomismo dei municipi e delle regioni italiane. E investe sul ruolo di sindaci e amministratori come fattore di cambiamento e di generazione di valore sociale. Perché gli antidoti più forti al populismo risiedono nell’identità territoriale, nel radicamento delle comunità locali tipico del municipalismo e del regionalismo italiano. Vogliamo superare definitivamente e completamente la stretta centralistica legata alla crisi economica che ha portato a comprimere eccessivamente le risorse degli enti territoriali, aggravando squilibri territoriali e diseguaglianze, e occultando esigenze fondamentali d’intervento, come oggi si vede, drammaticamente, con le criticità dovute alle mancate manutenzioni – scuole, strade, ponti – e spesso con uno scadimento della qualità urbana. I governi di centrosinistra si sono già mossi parzialmente in questa direzione, ma ora la svolta va completata. È di fondamentale importanza il riordino dei tributi e l’istituzione della «local tax» rivendicata dai comuni. Occorre poi una «Carta delle autonomie» che ridefinisca in modo organico il rapporto fra gli enti costitutivi della Repubblica. Perciò la riforma del Testo unico sugli enti locali è un obiettivo attuale e prioritario, anche perché sono evidenti e urgenti le necessità di revisione e di rilegittimazione, a partire da ciò che richiede la vicenda delle province e delle città metropolitane. Per noi le città metropolitane sono assi cruciali per lo sviluppo dell’intero Paese, perché sempre di più nel mondo emergono anche i sistemi metropolitani, e noi con Expo e con il progetto Human Technopole abbiamo investito anche su questo nel caso di Milano. In questo percorso è anche necessario affrontare il problema dello status e del trattamento degli amministratori locali, a partire da quelli dei piccoli comuni. Si deve superare il regime vessatorio affermatosi e, vuoi per giustizia vuoi per salvaguardare un patrimonio di passione e competenza di tante persone, si deve riconoscere il valore che ha l’assolvimento di grandi e impegnative responsabilità.
 
Il nostro riformismo radicale vuole fare avanzare ulteriormente la grande stagione dei diritti civili vissuta nella scorsa legislatura.
 
Dalle unioni civili e dalle coppie di fatto al biotestamento, dal Dopo di noi alla legge sugli orfani delle vittime di reati domestici, sono molti i provvedimenti che hanno visto la luce grazie alla passione e alla volontà delle donne e degli uomini del Pd. In questa legislatura, rischiamo addirittura un’involuzione sul terreno dei diritti, involuzione che dobbiamo contrastare in ogni modo. Siamo contro il disegno di legge Pillon perché è retrogrado e punitivo nei confronti delle donne e tratta i minori come pacchi postali.
 
La divisione a metà del tempo e la doppia residenza dei figli ledono fortemente il diritto dei minori ad avere una vita serena. Faremo di tutto per tutelare la loro crescita e la loro stabilità.
 
Il nostro riformismo radicale vede nella legalità, nel garantismo e nella lotta alle mafie i cardini della propria azione. La presunzione d’innocenza (articolo 27 della nostra Costituzione) e il giusto processo (articolo 111) sono i capisaldi che guidano il nostro pensiero. Capisaldi messi seriamente in pericolo dalle recenti riforme del governo 5 Stelle-Lega e minacciati da ulteriori progetti d’intervento. La realizzazione di un processo basato sulla parità delle parti e la terzietà del giudice è il nostro progetto in materia di giustizia penale. Il tema della separazione delle carriere appare ineludibile per garantire un giudice terzo e imparziale. Allo stesso tempo, accelerare i processi vuol dire maggiore giustizia. Processi lenti sono giustizia negata e questo oggi colpisce soprattutto le persone e le comunità più deboli, che hanno bisogno di una giustizia efficace e non gridata. Per farlo, occorre aumentare l’organico dell’apparato giudiziario e la disponibilità di mezzi e strutture.
 
Non basta una depenalizzazione: occorre una riforma del sistema penale. È inutile depenalizzare se poi si allunga la prescrizione all’infinito dopo il primo grado come vuole l’attuale governo. Se si vogliono prevenire femminicidio, reati ai danni di soggetti deboli, reati ambientali, truffe ai danni di anziani e famiglie e morti sul lavoro occorre incentrare una riforma penale radicale che faccia perno sulla prevenzione prima ancora che sulla repressione.
 
I cittadini si difendo non dandogli un’arma in mano ma dando loro sicurezza pubblica dentro e fuori le proprie case, le proprie aziende e le proprie attività.
 
Allo stesso tempo, vogliamo continuare a colpire le risorse economiche delle grandi organizzazioni criminali e garantire una sempre più efficace gestione dei beni confiscati. Ma accanto alla repressione occorre che l’impegno civile e la cultura della legalità rimangano il cuore della nostra battaglia politico-culturale. Aveva ragione il Generale Carlo Alberto dalla Chiesa quando diceva che per sconfiggere le mafie bisogna dare come “diritto” ciò che esse offrono come “favore”. Non si possono costruire o riattivare gli anticorpi se manca una politica che abbia davvero a cuore il bene comune.
 
Proseguendo sulla strada dell’importante legge contro il caporalato, vogliamo intervenire per favorire la sicurezza sul lavoro. Le morti sul lavoro sono indice di inciviltà, di una società che fa prevalere il profitto sulla dignità, al contrario di quello che vuole la nostra Costituzione. Deve essere intrapresa un’unica strada con lavoratori, aziende, organi di vigilanza, sindacati, affinché crescita, sviluppo e benessere siano sinonimi. Non è più tollerabile che i morti sul lavoro aumentino con l’incremento dell’occupazione. Il vero lavoro è quello sicuro.
 
Il nostro riformismo radicale vuole rigenerare le istituzioni democratiche rendendole realmente in grado di decidere. In questa stagione più che mai, ci deve guidare l’intento di rinnovare la democrazia rappresentativa, non certo quello di svuotarla soppiantandola con una confusa democrazia diretta, con la deriva dell’uno vale uno dove tutti valgono niente. La riforma costituzionale portata avanti dal Pd nella scorsa legislatura e respinta dal corpo elettorale conteneva due principi guida, che mantengono il loro valore, anche se vanno riaffermati con strumenti diversi e condivisi. Il primo è il perfezionamento del rapporto tra centro e periferia con una Camera delle autonomie. Il secondo è la possibilità degli elettori di incidere direttamente sulla scelta del governo. Senza sciogliere questi nodi, la democrazia italiana si indebolirà ogni giorno di più.
 
La difesa della democrazia, a maggior ragione della democrazia decidente, passa anche da rendere efficiente la nostra Pubblica amministrazione (Pa). È un problema di scarsa attenzione alla catena di creazione del valore verso cui orientare la funzione delle gerarchie e dei processi, ma è anche un tema di competenze e di leadership. Non a caso le amministrazioni locali e centrali maggiormente digitalizzate sono quelle guidate da dirigenti determinati e competenti: la trasformazione digitale della Pa è una sfida innanzitutto politica. Dobbiamo riformare in profondità il diritto amministrativo per liberare la Pa da lacci e lacciuoli e trasformarla da fattore di freno in fattore di cambiamento e produttività: il cittadino e l’impresa hanno il diritto di chiedere più semplicità, velocità e trasparenza nella gestione dei servizi pubblici e lo Stato ha il dovere di fornire questi servizi con modalità sempre più moderne e inclusive. Perché uno Stato più efficiente e meno burocratizzato è uno Stato che aiuta il tessuto economico e produttivo a essere più competitivo. Troppe riforme anche dei nostri governi sono rimaste solo sulla carta perché la macchina pubblica non è stata in grado di tradurle in azioni concrete. Una trasformazione di questo tipo non può che passare dall’assunzione di giovani e dallo sviluppo di competenze non più solo giuridiche, oltre che ovviamente dal coinvolgimento dei piccoli centri urbani e delle aree più periferiche. Senza inclusione la digitalizzazione sarà un mero esercizio burocratico.
 
La difesa della democrazia passa anche dal rafforzamento del patto di cittadinanza che sta alla base del nostro vivere comune, fatto di diritti e doveri. Anche qui serve radicalità. Per noi, chi nasce e studia in Italia è italiano. Punto. Diritti e doveri valgono per tutti gli italiani, vecchi e nuovi. L’immigrazione non è un’invasione da bloccare ma una risorsa da governare. La rinuncia degli Stati a gestire con intelligenza le migrazioni economiche le ha regalate alla criminalità organizzata. In Italia, per lavorare, si deve poter entrare andando in ambasciata non rischiando la vita in mare. E chi arriva sulla base di flussi regolati deve accettare il patto di cittadinanza e inserirsi nella nostra comunità. Per questo proponiamo di cancellare la legge Bossi-Fini e il decreto Salvini, per scrivere un nuovo testo unico sull’immigrazione, gestendo le migrazioni anche per ragioni economiche governando la transizione verso un sistema nazionale di accoglienza integrata per l’autonomia

***

Di fronte a queste sfide e a servizio di questo orizzonte riformista proponiamo la candidatura di Maurizio Martina a segretario del Partito democratico. Con lui, insieme a Matteo Richetti e a una squadra rinnovata di democratiche e democratici uniti e plurali, possiamo aprire questa nuova stagione d’impegno.
 
Sul sito www.mauriziomartina.it/fiancoafianco.pdf sono disponibili documenti che contengono le nostre proposte per il Paese.
 
Documenti che formano parte integrante della nostra mozione congressuale. Documenti aperti, con proposte che arricchiremo nel dialogo di queste settimane con iscritti, elettori, parti sociali e associazioni. Perché nel nostro percorso congressuale vogliamo iniziare a far vivere il partito che sogniamo, aprendoci al dialogo anche con chi non ci appoggerà o non fa parte della nostra comunità democratica. Si tratta di dieci documenti per dieci assi di azione e di cambiamento. Un cambiamento da costruire insieme ai nostri iscritti e ai nostri elettori. Fianco a fianco.

  1. La transizione ecologica
  2. Gli Stati Uniti d’Europa
  3. Nel lavoro che cambia
  4. L’Italia è la sua scuola
  5. Redistribuzione nel XXI secolo
  6. Il protagonismo delle donne
  7. Democrazia, istituzioni, legalità
  8. Cittadinanza e immigrazione
  9. Una cultura dei diritti civili
  10. Per un nuovo Pd

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