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È tempo di scegliere.Prima le persone

I. Un congresso per riaccendere la speranza

Scarica la Mozione Zingaretti – Congresso 2019
 
Ora è tempo di scegliere. Possiamo continuare a lamentarci, dividerci, isolarci fino all’irrilevanza, oppure decidere di combattere perché l’avvenire torni ad essere un luogo della speranza, della solidarietà, della giustizia, della libertà, delle opportunità per tutti.
 
Il cuore del problema è come reagire, cambiare, offrire un futuro all’Italia e all’Europa. Il nostro Paese, guidato dal primo governo nazionalpopulista dell’Europa occidentale, egemonizzato culturalmente e politicamente dalla nuova destra, rischia un declino inarrestabile, isolato nell’Unione europea e diviso al suo interno, impaurito, incattivito e avvitato in sé stesso.
 
In questa Italia, il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, rappresenta il più solido punto di riferimento democratico.
 
Impediremo il declino se sapremo cambiare. Cambiare molto, se non tutto. Riconoscere senza reticenze gli errori, affrontare le ragioni delle sconfitte e offrire soluzioni concrete e una nostra visione e una nostra proposta per l’Italia. Il primo passo sarà tornare a incontrarci, in tanti, per cercare e trovare insieme le soluzioni e la radice profonda del nostro stare insieme e del costruire un’idea di società giusta.
 
Abbiamo perso troppo tempo. Ma non sarà troppo tardi se riusciremo a cogliere la portata della sfida. Il nostro congresso si svolge in una situazione di emergenza della Repubblica. Dopo il 4 marzo 2018, è cambiato il panorama politico e sono scosse le istituzioni. Ci sono state reazioni importanti, nelle piazze, tra le donne, tra gli studenti, nel mondo produttivo, tra gli intellettuali. Nonostante i primi fallimenti del governo e la gravità di atti e comportamenti dei suoi esponenti, l’orientamento prevalente degli italiani non è cambiato, la sfiducia verso il Pd si è ulteriormente aggravata. Il rinvio di una discussione vera è la causa di una nostra opposizione al governo incerta, propagandistica e inefficace.
 
Il nostro congresso deve rappresentare la ripresa immediata di una battaglia politica e culturale.
 
Non è più tempo di liti, di trasformismi furbeschi e della ricerca di tanti di fette del piccolo potere che ci rimane. C’è un mondo fuori di noi, che sta aspettando un segno di vita. Il 3 marzo 2019 dobbiamo accendere una nuova speranza per l’Italia.
 
Il nostro compito è difficile. La scelta è rispondere a un dovere, senza rinunciare a un diritto. Il dovere di salvare, il diritto di cambiare. Noi siamo chiamati a un tempo a salvare e a cambiare. L’Europa, l’Italia, il Pd.
 
Dobbiamo salvare l’Europa, la straordinaria conquista messa a repentaglio dal ritorno dei nazionalismi, una minaccia purtroppo rappresentata anche dal nostro Paese. Ma dobbiamo cambiare l’Europa, perché così com’è, prigioniera dell’austerità, tecnocratica, poco rappresentativa e indebolita dagli egoismi nazionali, non rappresenta per i cittadini né un futuro né una soluzione. Nell’azione di governo abbiamo più volte salvato l’Italia. Con il primo governo Prodi, il solo leader progressista che sia stato in grado di sconfiggere per ben due volte Berlusconi, abbiamo impostato un robusto programma di riforme, non dettato dalle contingenze o da calcoli elettorali, ma strategico.
 
Oggi dobbiamo salvare l’Italia, dalla deriva a cui la sta conducendo il governo gialloverde, dallo spettro di una nuova recessione che il suo corpo sociale non può reggere. La nostra azione di Governo ha portato l’Italia fuori da una crisi drammatica ma non siamo riusciti a tenere insieme una società coesa e solidale. Questa è la nostra sconfitta. Ed è questo che fa esplodere la rabbia e la paura. Sfruttare ai propri fini tutto questo è immorale, assumerne le ragioni di fondo e offrire le condizioni e gli strumenti del riscatto sociale è la nostra missione. Non saranno i partiti dell’egoismo a ridare una prospettiva, è compito nostro. E per assolverlo dobbiamo presentarci come quelli che vogliono cambiare l’Italia, per combattere le molte ingiustizie e riprendere un cammino di sviluppo, non per rivendicare un passato che non tornerà, e nemmeno quello più recente, che gli italiani hanno rigettato.
 
Infine, dobbiamo salvare il Partito democratico, dall’irrilevanza e dalla sua dissoluzione, e non per noi stessi, per leadership che hanno troppo spesso manifestato egoismo e miopia, ma perché la dissoluzione del Pd rappresenterebbe oggi un problema per la democrazia italiana. A noi interessa salvare il Pd per salvare l’Italia, ma per farlo dobbiamo cambiare profondamente questo partito, nelle idee e nelle persone. Aprire una nuova stagione, promuovere un ricambio di classe dirigente e mettere la parola fine ad una vita interna statica e conflittuale. Cambiare il messaggio, il linguaggio, l’atteggiamento nei confronti degli italiani, cambiare per costruire un’alternativa e tornare a vincere. Alla superbia dell’io sostituire la forza del noi.
 

Un’opposizione intelligente per costruire l’alternativa

L’attuale governo mette a rischio il Paese. Unisce pulsioni demagogiche con orientamenti xenofobi, autoritari, disumani. Al di là della confusione delle proposte politiche, prevale un timbro classista, di difesa dei più forti, di violenza verbale e di umiliazione delle parti più dolenti e fragili della nazione.
 
Hanno trasformato il governo di un grande Paese in un’agenzia del dilettantismo. Parlano una lingua gonfia di odio e di isterismo, che dice e non dice, poi nega di aver detto e inganna i cittadini.
 
Disprezzano gli avversari politici, irridono la scienza. Indicano capri espiatori per sottrarsi alle loro responsabilità.
 
Tra promesse mancate e provvedimenti realizzati, il quadro è desolante e sta spingendo il Paese verso la bancarotta. Non si tratta di difendere un rigido rispetto di qualche decimale sullo sforamento del deficit, al contrario. Noi siamo quelli che vogliono chiudere definitivamente la stagione fredda dell’austerità, per riavviare il processo di sviluppo e affrontare le grandi questioni sociali che ci affliggono. È il cuore della nostra battaglia in Europa. Non una battaglia contro l’Europa, come quella ingaggiata dalla Lega e dal Movimento 5 Stelle.
 
Già miliardi di euro sono andati in fumo per l’innalzamento dello spread. La crescita si è fermata e anzi ha subito una flessione dopo anni di fatica per determinare un’inversione di tendenza che si è realizzata con i governi di centrosinistra. È aumentata la disoccupazione giovanile e le grandi città governate da sindaci 5Stelle, come Roma e Torino, sono allo sbando. Ci preoccupa se dal nostro Paese fuggono gli investitori, ma soprattutto ci preoccupa che fuggano i cittadini che dovrebbero essere protagonisti dell’oggi e del domani. L’urgenza è mandare a casa questo governo prima possibile. E il Pd deve preparare e prepararsi a questo passaggio. Altrimenti, dal fallimento e dalla decomposizione dell’attuale alleanza, non potrà che trarne ulteriormente vantaggio la Lega. L’elettorato democratico e progressista resterà ancora una volta deluso e si disperderà nell’astensionismo. Il nostro congresso deve impedire questo scenario.
 
Occorre un’opposizione che non punti alla propaganda ma all’iniziativa politica. Che non insegua il populismo e la destra sui suoi terreni, e prepari l’alternativa. Fin qui, il gruppo dirigente responsabile della sconfitta ha sbagliato l’analisi, di conseguenza dopo ha sbagliato tutto.
 
Sia chiaro, non si tratta di mettere in campo una manovra politica di vertice con il Movimento 5 Stelle. Non si tratta di perseguire alleanze impossibili. Ma Lega e 5 Stelle sono due cose molte diverse, anche se entrambe pericolose. La Lega è il più antico partito italiano, radicato nei territori e nella società, con presenze popolari pienamente acquisite a una prospettiva nazionalista, illiberale, di destra e legata a un più generale movimento europeo. La leadership di Salvini è forte e coordinata con quelle di altri Paesi europei come Orban, Le Pen, Duda in Polonia. E, fuori dall’Europa, a Erdogan, Putin, Trump, Modi in India e Bolsonaro in Brasile. Il Movimento 5Stelle è l’antipolitica. Un fenomeno tradizionale e ricorrente nella storia italiana, quando entrano in crisi le classi dirigenti storiche. È un campo composito, con una inquietante organizzazione padronale e aziendale, dentro il quale si agitano spinte e ragioni molteplici, molte in contraddizione tra di loro. La sua ascesa in parte è il frutto delle nostre responsabilità, dei nostri errori.
 
Facendo di tutta l’erba un fascio, abbiamo regalato a Salvini l’egemonia su una alleanza che rappresenta più di metà degli Italiani e alla Lega il consenso di un terzo dell’elettorato, quando il 4 marzo aveva ottenuto solo il 17%. Ha votato 5Stelle una parte considerevole del nostro elettorato deluso il quale, tuttavia, non è stato assorbito da un progetto politico e ideologico organico e unificante. Questo elettorato diffida e non è disponibile ad un rapido ritorno in un’area democratica e progressista. Spetta a noi smuovere le acque e ristabilire un dialogo rivolto all’elettorato per spingerlo verso un orientamento democratico e costruttivo. Non sarà facile.
 
Tuttavia, è uno dei compiti che ci spettano.
 
Dobbiamo lavorare per riconquistare le persone, per non lasciare ulteriore terreno alla destra.
 
Confrontarci nella società con tutto un mondo che può subire in breve tempo un processo di dispersione e di frattura. Si tratta di agire nelle istituzioni e nella società per unire il nostro campo e dividere quello avversario. Una lezione elementare della politica, che sembra stata dimenticata, ma che oggi torna ad essere essenziale per la rinascita della Repubblica.
 
Si tratta di avere una visione aperta per costruire nella società e nel Paese alleanze intorno al Pd.
 
Occorre, insieme ad esse, ricostruire anche una prospettiva di governo, come abbiamo fatto in tanti municipi e città e dovunque hanno prevalso in noi il dialogo con la società, con le esperienze civiche e la valorizzazione delle autonome espressioni politiche più innovative; e dove si è verificata la divisione dello schieramento con il quale eravamo in competizione. Al contrario siamo stati sconfitti quando ha prevalso il nostro isolamento settario, che se mantenuto porterà a nuovi rovesci e ad un’attesa inerte del crollo degli altri, impedendoci ogni possibile ruolo per future alleanze di Governo.
 

Un pensiero nuovo

Occorre voltare pagina. Persino al di là del giudizio sul passato, è una stringente necessità che ci impone la realtà che abbiamo di fronte. La nostra credibilità nel costruire l’alternativa dipende dalla capacità che avrà il congresso di ricollocare politicamente e idealmente il Partito democratico nella società italiana.
 
Nel corso degli anni passati abbiamo più volte governato noi. Abbiamo ottenuto grandi risultati e tenuto le redini del Paese meglio degli altri. Tuttavia, abbiamo commesso anche molti errori. Non era inevitabile. Il nostro dovere non è soltanto di apprendere la lezione per non ripeterli ma sapere che un lungo ciclo si è concluso con una sconfitta storica. La grande speranza del Pd, iniziata con Walter Veltroni, rischia di naufragare perché ci siamo separati dal Paese. Lo stesso partito è ridotto ai minimi termini. Anche se ci sono ancora tante energie vitali, tanti giovani che suscitano speranza, tanti amministratori in trincea che svolgono il loro lavoro con dedizione e efficacia. È ciò che ci consente di ripartire, per affrontare e superare la nostra debolezza.
 
I nostri problemi non nascono solo negli ultimi quattro anni. Si sono enormemente aggravati, ma hanno radici lontane. Da tempo, ci manca un punto di vista autonomo sul mondo e sulla società. Da tempo, abbiamo agito soltanto nella dimensione istituzionale del governo, non cogliendo i mutamenti che hanno condotto alla crisi e a ciò che alcuni chiamano la “grande regressione”. Con l’accelerazione dei processi di globalizzazione ha dominato un capitalismo insofferente alle regole, ad ogni principio etico e ad ogni misura; che ha aumentato gli squilibri, le ricchezze di pochi e, al contempo, diffuso un costume e un sentire comune funzionali alla dispersione sociale, alla trasformazione dei cittadini in semplici consumatori, alla riduzione degli spazi democratici, all’esaltazione della forza e al disprezzo della debolezza.
 
Nel nostro campo, si sono affermati i miti imposti dagli avversari. Il nostro compito è oggi rovesciarli con maggiore energia. L’idea che il mercato abbia sempre ragione, che l’accumulo di grande ricchezza alla fine produca giù per i rami un benessere diffuso, quando invece la realtà ci ha mostrato non essere così. Oppure l’idea che il nostro modello economico sia appesantito dall’intervento dello Stato, quando invece la rinuncia alle leve pubbliche nell’economia, attivate con efficienza, ha impedito di riequilibrare, indirizzare le risorse per attivare la crescita potenziale, spingere più avanti la ricerca e l’innovazione. O ancora, l’idea che le regole siano un impaccio, quando invece rendono più efficaci e partecipati i processi produttivi; che il mondo del lavoro vada marginalizzato e tenuto subalterno, quando invece sarebbe necessaria una moderna centralità della forza che produce valore; che i corpi intermedi sono sempre inutili e dannosi, quando invece andrebbero innovati e riformati come elemento fondamentale di una democrazia partecipata e forte; che solo la forza e il successo siano il punto di riferimento da mostrare e imitare, quando invece è il punto di vista della fragilità e della debolezza quello che ti fa vedere le cose con più chiarezza, profondità e umanità.
 
L’intera Seconda Repubblica, dopo la frattura del 1992-93, è stata dominata dall’idea che la politica dei partiti sia incapace di riformarsi, di reagire alla corruzione, e dunque che si possa fare a meno di essa. La consapevolezza di una fragilità storica della democrazia italiana esposta in modo ricorrente alla demagogia e alle spinte autoritarie, avrebbe dovuto imporre un lavoro nella società, in grado di consolidare dal basso i valori repubblicani, anche sperimentando forme nuove dell’organizzazione politica, per tenere vivo il rapporto tra cittadini e potere, tra élite e popolo.
 
Il Partito democratico, da questo punto di vista, si è identificato sempre più nelle istituzioni, imboccando la scorciatoia leaderistica. È finito così per essere travolto oltre che dai propri errori da una crisi generale di fiducia, ignorando la lezione dei leader più preveggenti della Repubblica che videro in tempo l’incrinatura e l’involuzione dei partiti e delle istituzioni democratiche.
 
La nostra crisi oggi è figlia di questo progressivo distacco dalla società, dal sentimento della gente comune. Anche noi abbiamo partecipato alla “secessione” delle élite. Per questo non abbiamo colto l’offensiva degli avversari e le storture di un’economia che avrebbero più che mai avuto bisogno di un impegno nelle trincee faticose della vita reale.
 
Tutto questo non ci ha permesso di vedere con la necessaria prontezza il diffondersi e il crescere delle ingiustizie. Non solo rispetto al reddito delle famiglie ma ad una condizione di fragilità diffusa nella società da cui deriva il bisogno di protezione e di sicurezza che troppe volte abbiamo ignorato.
 
E rispetto alla solitudine nei luoghi reali e virtuali dove si svolge la vita, che è diventata la cifra del nostro tempo.
 
Non è stato solo un problema di scelte di governo, è soprattutto il messaggio di fondo, il riferimento nella società. Abbiamo giustamente esaltato i talenti, le eccellenze, i punti alti dello sviluppo e della produzione, le bellezze territoriali. Ci siamo dimenticati l’altra Italia, più grande e numerosa, delle persone e dei luoghi che “non contano”. Giovani disoccupati o precari, donne penalizzate sul lavoro o dall’assenza di servizi, anziani abbandonati e bambini poveri, famiglie in cui si rinuncia alle cure, il Mezzogiorno, le aree interne, le periferie sempre più degradate.
 

Riformismo: migliorare la vita delle persone.

 
Per questo dobbiamo ridiscutere, rinnovare e rilanciare il nostro riformismo. Certo, ci sono stati impetuosi processi economici a livello globale che hanno messo a dura prova le ricette delle forze riformiste europee e nel mondo. Ma se dopo tanti anni, nei quali abbiamo governato anche noi, in nome del riformismo, è aumentata in Italia la distanza tra i ricchi e i poveri dobbiamo chiederci: quale riformismo abbiamo praticato? Il tasso di riformismo non si misura con la retorica delle enunciazioni, ma sui risultati concreti che si determinano. Il riformismo è l’assunzione della democrazia, della libertà e delle istituzioni rappresentative come il terreno su cui produrre i cambiamenti. Ma di cambiamenti si deve trattare. Il riformismo è una pratica del conflitto democratico che ha lo scopo di armonizzare, riequilibrare la società e di limitare attraverso una visione etica la natura di un capitalismo senza regole e volto solo ad accrescere il profitto e la ricchezza di pochi. Questo non si addomestica con l’appello buonista che mette insieme capitale e lavoro. Ci vuole un riequilibrio di interessi e di spinte reali. Altrimenti la parola “riformismo” diventa una diplomazia delle chiacchiere, una sorta di biglietto da visita per essere accettati dall’élite protette e vincenti. Siamo stati troppo riformisti a parole e troppo poco riformisti nel trasformare gli assetti della società italiana, via via sempre più squilibrati e ingiusti.
 
Anche qui dobbiamo cambiare. Non serve un generico spostamento del Pd “più a sinistra”, una manovra tattica o una nuova geometria delle alleanze. Serve una ricollocazione politica e sociale, ideale e programmatica, dei democratici e dei progressisti italiani. È necessario rendere chiara la nostra funzione, per il riscatto della Repubblica, per un miglioramento del benessere delle persone, per dare risposte concrete alle contraddizioni del mondo di oggi. Per questo occorre superare incertezze o formulazioni confuse, compromissorie, difensive e quella subalternità che ci ha portato solo a correggere gli eccessi degli avversari, senza mai tentare di imporre noi la forza di un nuovo punto di vista sul mondo. Dobbiamo abbandonare i ragionamenti risolti e funzionanti solo nella dimensione delle parole, ma incapaci di trovare un’efficacia e una coerenza nei processi reali.
 
Dobbiamo avere la forza di affermare le nostre ragioni. Non c’è sviluppo se non c’è giustizia sociale.
 
Perché lo sviluppo è più forte in una società equilibrata, in territori coesi, sorretto da una partecipazione dei lavoratori nelle scelte delle imprese, in un contesto sociale che rende le persone più sicure e dunque attive e aperte alla collaborazione. Non c’è sviluppo se non attraverso la difesa e valorizzazione delle risorse naturali, perché l’obiettivo di contrastare il riscaldamento globale, la distruzione del pianeta, di difendere la specie umana e quelle di tutti gli esseri viventi, di ristabilire l’equilibrio dell’ecosistema, di sviluppare un’agricoltura non inquinante, di proteggere i mari e le foreste, di respirare un’aria pulita e salubre, è il vero terreno su cui si può incrementare la ricerca, l’innovazione, un’occupazione nuova e qualificata, un’economia verde che si espande in molteplici direzioni e che crea nuove occasioni di business.
 
Non c’è sviluppo se non si aggredisce finalmente quello che potremmo chiamare “costo dell’incertezza” che grava sulle imprese che producono e vogliono investire. Un costo determinato da tanti fattori: diffusa assenza di legalità, tempi della giustizia, infrastrutture materiali e immateriali, lungaggini burocratiche e con questo Governo sicuramente l’assenza di visione e strategie chiare.
 
Non c’è sicurezza, se accanto a un miglioramento degli strumenti tradizionali di controllo, non si verifica un salto di qualità nella vita delle città, una rete di solidarietà sociale nei territori e nei comuni, la consapevolezza della misura reale dei fenomeni criminosi, una integrazione delle sacche di emarginati, di poveri o immigrati. Questa è la strada maestra, che già si realizza attraverso le buone pratiche del governo di alcune città, da Riace a Brescia, da Palermo a Milano. Inoltre, non c’è avvenire per l’Italia se non nella realizzazione di un nuovo patriottismo europeo. Perché la nostra grandezza, come di ogni altro Paese del vecchio continente, non è stata mai e tanto meno è oggi il frutto della separazione o del nazionalismo che isola, bensì del perenne scambio con gli altri, dell’intreccio delle culture, delle tradizioni e degli stili di vita, del mischiarsi continuo di etnie diverse. Un’Europa più unita, più integrata nelle sue politiche, indirizzata ad una emancipazione democratica e sociale e un nuovo patriottismo europeo, non umiliano ma al contrario esaltano il meglio di tutte le patrie d’Europa.
 
Infine, il Novecento è stato il secolo della rivoluzione delle donne. Nel nostro Paese la loro emancipazione è stata possibile grazie anche a madri della Repubblica e a grandi protagoniste della sua vita politica come Nilde Iotti e Tina Anselmi. Poi, la seconda metà del secolo ha visto l’esplosione di un movimento che ha cambiato la vita di tante e le relazioni tra donne e uomini. Occorre guardare al “pensiero della differenza” e all’idea di individualità che ci viene dalla riflessione femminista: concreta, vulnerabile, relazionale.
 
Il mondo, infatti, è abitato da donne e da uomini. Ma ancora largamente prevale il modello unico maschile, nonostante le tante battaglie concrete e la grande produzione teorica del femminismo.
 
Abbassare la guardia espone tutta la società, le donne in particolare, a nuove discriminazioni e marginalità. Al contrario, la battaglia per il riconoscimento delle differenze, se realizzata fino in fondo, produce un generale salto di civiltà nella realizzazione di tutti gli esseri umani, nell’organizzazione della società e nella vita di ognuno.
 

Un nuovo Partito Democratico

Una proposta politica e programmatica nuova ha bisogno anche di un profilo organizzativo nuovo.
 
Se c’è un terreno sul quale in questi anni i gruppi dirigenti hanno investito poco e male quello è certamente la forma e l’organizzazione del partito. Nonostante le tante energie nuove e positive che pure sono emerse non si è costruito un partito nuovo, si sono impoveriti i luoghi di incontro e discussione, si è perso il contatto con i problemi reali e quotidiani delle persone e delle comunità.
 
Nei luoghi del disagio, della povertà e della sofferenza le persone hanno trovato in questi anni la Chiesa e i suoi sacerdoti, le centinaia di associazioni in cui quotidianamente donne e uomini, spesso giovani, si danno da fare per portare un aiuto concreto, i tanti operatori pubblici sensibili e professionalmente competenti che lavorano nel sistema di welfare, spesso i nostri sindaci e amministratori locali che assolvono la loro funzione con azioni concrete volte ad aiutare chi ha più difficoltà. Ma quasi mai hanno trovato il Pd come soggetto politico, i nostri circoli, i nostri gruppi dirigenti.
 
Allo stesso modo i lavoratori precari, le aziende in difficoltà, i giovani nella scuola e nelle università, le donne alle prese con la necessità di conciliare lavoro e famiglia, molto difficilmente hanno trovato nel Pd un interlocutore capace di ascoltare i loro problemi, di cercare insieme delle soluzioni.
 
Il Pd, insomma, è apparso sempre più lontano dalla vita reale delle persone comuni, poco o per nulla empatico nei confronti dei più poveri e dei più fragili, incapace di uscire dalle sue ristrette logiche interne. Ecco perché dobbiamo ricostruire il Pd, recuperare l’ispirazione originaria di un grande incontro tra culture ed esperienze diverse, fare del pluralismo delle idee una ricchezza e non un mero giustapporsi di correnti e gruppi di potere, articolare in modo completamente nuovo e originale i luoghi della discussione e della sintesi.
 
Anche nel partito, nella sua vita interna dobbiamo mettere “prima le persone”. Il valore unico, ineguagliabile delle persone, delle loro differenze e della necessità di rispettarle, dello sforzo di costruire la società a partire da esse. Ed è proprio in questo agire concreto che si può ricercare quell’incontro fecondo tra credenti e non credenti. La centralità della vita umana e il valore delle persone sono le grandi risposte che il movimento democratico del XXI secolo può dare ai dilemmi del nostro tempo, di fronte alle incognite delle trasformazioni in corso, per fronteggiare l’arretramento delle società in cui si verifica l’espulsione dell’altro, per frenare un narcisismo senza limiti, per contrastare individualismi esasperati, fanatismi, il risorgere di xenofobia e razzismo.
 
Il partito è un mezzo, non un obiettivo in sé. Non servono modelli astratti, occorre lasciarsi definitivamente alle spalle l’inutile e banale contrapposizione tra “partito pesante” e “partito leggero”, riconoscere l’urgenza di una seria discussione sui caratteri organizzativi del Pd, ricercare insieme, durante e dopo il congresso, le innovazioni necessarie per ricostruire dalle fondamenta un partito aperto, inclusivo, in cui le persone possano trovare spazio di espressione, in cui il merito, il talento, l’esperienza, le idee di ciascuno vengano prima della fedeltà ad un capo.
 
Un soggetto politico per la democrazia del nostro tempo deve assolvere tre funzioni fondamentali. Costruire luoghi diffusi, liberi e aperti, abitati in forme diverse da iscritti e non, nei quali le persone si possano incontrare, ritrovarsi l’uno di fronte all’altro, recuperare l’altro come fonte preziosa per la propria crescita e maturità identitaria. E poi, insieme all’incontro, un confronto vero, appassionato, in cui ognuno eserciti la facoltà di esprimere le proprie posizioni e opinioni nell’esercizio della propria responsabilità individuale. Non abbiamo bisogno di megafoni che riportino le posizioni dei vertici o delle varie correnti. Abbiamo bisogno di una ricerca coraggiosa alla quale tutti possano contribuire con il meglio dei propri “talenti”. E infine determinare in questi luoghi il momento della decisione.
 
La sovranità deve spostarsi verso la base della piramide, dobbiamo rendere davvero protagonisti gli iscritti, i simpatizzanti, gli elettori. La costruzione del nuovo sarà possibile se i processi decisionali coinvolgeranno direttamente coloro che dovranno essere protagonisti dell’opera di ricostruzione. A partire dalle primarie del 3 Marzo che noi vogliamo siano una grande festa di popolo per un nuovo Pd.
 
Dobbiamo reinventare i modi per stare assieme, nella società reale, a fianco delle persone nelle difficoltà della vita quotidiana, dobbiamo ricostruire uno spirito di comunità anche dentro il Pd.
 
E dobbiamo imparare ad essere comunità anche nella rete, un luogo oggi ineludibile per aprire canali di incontro e comunicazione con una larga parte di cittadini, di tutte le età ma soprattutto giovani.
 
La rete oggi è spesso il luogo della semplificazione esasperata, dell’odio e dell’inganno. Spesso è popolata da chi la utilizza per divulgare menzogne e disvalori. Ma la rete può essere anche il luogo di una nuova e proficua comunicazione tra cittadini consapevoli e informati, può essere lo strumento per nuove forme di partecipazione politica e sociale, una modalità per accorciare le distanze tra le i cittadini e chi riveste ruoli politici. Bisogna saperla usare, dobbiamo imparare a starci come Pd, come soggetto organizzato e collettivo.
 
Per fare questo non ci servono i guru americani delle agenzie di comunicazione: bisogna piuttosto scommettere e investire sul protagonismo, sulla forza creativa, sulla passione di una nuova generazione che può e deve fare la differenza nel nuovo Pd che dobbiamo costruire.
 
Abbiamo bisogno di ricostruire sedi autonome di ricerca, di riflessione e di elaborazione, aperti alle forze intellettuali e della cultura. Anche l’intellettualità in parte in questi anni di grandi trasformazioni è stata passiva, si è adeguata al costume dominante, si è chiusa nelle proprie carriere scientifiche o di potere. Eppure l’intellettualità italiana conserva in ogni campo personalità di grande rilievo che il mondo ci invidia.
 
Il Partito Democratico deve investire su fondazioni, associazioni, scuole di politica che non servano al leader o al notabile di turno, ma che siano in grado di chiamare in campo le migliori intelligenze, coinvolgendo in questo lavoro nuovo e creativo le tante straordinarie energie di una nuova generazione che spesso vorrebbe partecipare ma incredibilmente non sa come farlo. La formazione delle classi dirigenti è una delle funzioni cui un partito non può rinunciare, seppure in un contesto del tutto nuovo rispetto al passato. Ecco perché la ricerca e la formazione politica vanno sostenute economicamente e considerati vitali per l’elaborazione di proposte e idee per il nuovo Pd.
 
Un partito di questa natura è largo, aperto, plurale, accogliente. Riconosce e rispetta l’autonomia delle migliaia di esperienze diverse di impegno sociale e politico che, nonostante tutto, si sono radicate nel nostro Paese. Questa ricchezza, questa pluralità richiama tuttavia ad una responsabilità.
 
Noi, in queste settimane, con Piazza Grande, ci stiamo assumendo questa responsabilità, stiamo provando a praticare questa idea di un partito. Piazza Grande non è uno strumento transitorio a sostegno di una candidatura, non è una corrente, è un metodo una pratica al servizio di un nuovo partito. È il luogo in cui i far vivere – aprendosi ad altre esperienze – un Pd nuovo. Un Pd orgoglioso ma non arrogante, capace di dialogare e relazionarsi con le energie più vive della società: comitati, associazioni, esperienze civiche, gruppi che vogliono partecipare, farsi ascoltare, decidere.
 
Un partito che per questa via promuove, costruisce – a partire dai Comuni e dalle Regioni – alleanze nuove e vere, uscendo da una stagione troppo lunga di isolamento e di debolezza che ci ha visto soccombere in troppe elezioni amministrative e che ci condannerebbe all’irrilevanza su scala nazionale.
 
È necessaria una discussione organizzativa da svolgere durante e dopo il congresso, tutti assieme. È una priorità politica. Nelle prossime pagine, avanzeremo qualche proposta più specifica per un partito del XXI secolo.
 

II. Una proposta per l’Italia.
Prima le persone.
Una società più giusta, un modello di sviluppo sostenibile

È un’idea di società, ciò su cui dobbiamo confrontarci nel nostro congresso e nel Paese. Un’idea che deve nutrirsi di proposte coerenti, sull’economia e l’organizzazione della vita democratica. Nelle pagine che seguiranno, non troverete un programma di governo, ma il tentativo di dare concretezza ad alcuni obiettivi fondamentali per l’Italia e l’Europa. Su molti di questi temi, dibatteremo nelle prossime settimane. Alla fine del percorso congressuale, saranno arricchite dal vostro contributo. A noi, preme restituire un’idea di fondo: stiamo attraversando una grande trasformazione e abbiamo bisogno di riscrivere le nostre mappe e ridefinire il nostro orizzonte.
 

Prima le persone.

Il mondo, per molti versi, è un posto migliore in cui vivere rispetto a trent’anni fa. Il reddito per abitante è aumentato di tre quarti in termini reali. Le persone in condizione di estrema povertà sono crollate dal 35 al 10 per cento del totale, innanzitutto grazie al boom economico cinese e indiano.
 
L’analfabetismo si è dimezzato, così come la mortalità infantile. La speranza di vita è aumentata da 65 a 72 anni (1).
 
Il rovescio di queste medaglie è in un modello di sviluppo insostenibile e nell’esplosione delle disuguaglianze. Per altri versi, insomma, il mondo è guasto. È attraversato da crisi politiche, economiche, sociali ed ecologiche, che si alimentano a vicenda in modo permanente, come evidenzia il Rapporto della commissione indipendente sull’uguaglianza sostenibile (2). Queste crisi sono la conseguenza del sistema economico dominante e, in assenza di profondi cambiamenti, esse porteranno a un collasso democratico, sia perché le forze populiste ed estremiste autoritarie acquisiranno un forte potere, sia perché queste crisi economiche, sociali o ambientali raggiungeranno una fase destabilizzante per la società.
 
L’Earth overshoot day, il giorno nel quale il consumo supera le risorse annualmente prodotte dal pianeta nel 2000 era il 23 settembre. Nel 2018 è stato il 1° agosto, quasi due mesi prima (3). La frequenza, la velocità e l’intensità con cui si verificano eventi estremi di natura economica, sociale e ambientale indicano che ci stiamo avvicinando ai punti limite oltre i quali l’intero sistema globale diventa instabile.
 
Il problema della sostenibilità non riguarda solo il rapporto dell’uomo con l’ambiente, ma anche le dimensioni economiche, demografiche, sociali, educative e culturali.
 
L’economia globale cresce ma è sempre più finanziarizzata e siede sopra una montagna di debiti:erano 116 trilioni di dollari nel 2007, prima della crisi. Sono saliti a 164 trilioni nel 2016, il 225 per cento del PIL mondiale (nuovo record storico) (4).
 
La popolazione mondiale crescerà entro il 2050 dagli attuali 7,5 miliardi a quasi dieci. Metà di questo incremento sarà in Africa, aggravando la pressione migratoria verso il Nord del mondo. Nel 2007 la quota di popolazione che vive in aree urbane ha superato il 50 per cento del totale. Le megalopoli con più di 10 milioni di abitanti erano 10 nel 1990, oggi sono diventate 33 (di cui 27 nei paesi in via di sviluppo) (5).
 
Il problema non è più “adattare” il modello globale di sviluppo, ma cambiarlo radicalmente per scongiurare il rischio che si verifichi nell’orizzonte temporale della nostra generazione una “tempesta perfetta” di mancanza di cibo, scarsità di acqua e risorse energetiche insufficienti, che scatenerebbe disordini, conflitti e migrazioni di massa.
 
La disuguaglianza è uno dei principali problemi del nostro tempo. Non riguarda solo la distribuzione del reddito ma ogni sfera delle nostre vite: dal lavoro alla sanità, dai livelli d’istruzione all’accesso alla cultura.
 
Tra il 1980 e il 2016 l’1 per cento più ricco si è accaparrato il 27 per cento dell’incremento totale del reddito mondiale, mentre al 50 per cento più povero è andato solamente il 12 per cento (6). Nel 2008, prima della crisi, nel mondo vi erano 1.125 miliardari con una ricchezza netta complessiva di 4,4 trilioni di dollari(7). Nel 2018 sono diventati 2.208, con un patrimonio di 9,1 trilioni di dollari.7 In dieci anni, una crescita doppia rispetto a quella media mondiale (8).
 
La natura del lavoro sta cambiando, ha evidenziato la Banca Mondiale, che ha dedicato a questo tema il suo ultimo Rapporto sullo sviluppo (9). Nel mondo oggi ci sono quasi 200 milioni di disoccupati, di cui 32 milioni nei paesi avanzati. Il 43 per cento di chi lavora (1,4 miliardi di persone!) ha un’occupazione “vulnerabile” (10). L’accelerazione del progresso tecnologico va assumendo i caratteri di una rivoluzione. Non sappiamo quale sarà l’esito finale di questo processo. Di sicuro, la transizione non sarà facile e investirà milioni di persone.
 
Le ferite provocate dalle crescenti disparità rendono le società più fragili e le persone più impaurite.
 
In Italia, a differenza del resto d’Europa, dall’inizio della crisi la disuguaglianza nella distribuzione del reddito è aumentata (11). Nel nostro Paese la mobilità sociale ascendente è da tempo bloccata.
 
Sempre più fa la differenza nascere in una famiglia di ricchi o di poveri, con livelli alti o più modesti di istruzione, in un’area urbana o in un piccolo comune, al Nord o al Sud.
 
Di fronte a questo deterioramento dell’equità sociale non abbiamo saputo interpretare e rispondere efficacemente al bisogno di sicurezza e di protezione delle persone. Secondo una recente ricerca il 71 per cento dei genitori italiani teme che i loro figli non raggiungano il loro stesso status e benessere (12). Cresce il disorientamento, innanzitutto tra i più giovani, rispetto ad un mondo del lavoro in rapida trasformazione in cui la globalizzazione, la deindustrializzazione e la rivoluzione digitale hanno cambiato radicalmente le modalità di produzione aprendo sì nuove frontiere per gli occupati più qualificati ma generando allo stesso tempo una nuova classe di lavoratori precari e poveri.
 
Non avere compreso i contraccolpi di tutto questo e i sentimenti che essi generano nel corpo sociale ha alimentato la percezione di un partito lontano dai luoghi della sofferenza e del disagio. Questo limite mette in discussione la nostra radice storica, i valori più profondi di una sinistra che trova la sua ragion d’essere nell’idea del riscatto degli esseri umani, nell’ambizione di dare forza a chi non ce l’ha.
 
Da questi fatti dobbiamo ripartire con passione e coraggio, riorganizzarci per rifondare il legame identitario con il nostro elettorato su un pensiero nuovo. Un pensiero che nasce da un concetto semplice: ora prima le persone. Attorno ad esse vogliamo costruire un nuovo modello di società.
 
Troppo spesso nel discorso politico la vita delle persone appare come una risultante marginale di logiche, regole, parametri ritenuti oggettivi e inderogabili. Al contrario è dalle persone che va ricostruito l’assetto e l’equilibrio della società. L’umanesimo integrale di Gramsci ci ha insegnato questo; così come la lezione di Aldo Moro, che non riusciva letteralmente a concepire la politica al di fuori del suo intreccio con l’esistenza umana.
 
E poi la tradizione solidaristica mutualistica e umana della storia dei socialisti italiani. Cosi come la sacralità dell’individuo singolo e la “religione” della Repubblica fondata sulla libertà di ogni cittadino, che ci giunge dal pensiero laico e libertario di Ernesto Rossi, Ugo La Malfa e Marco Pannella e molti altri.
 
Occorre liquidare definitivamente la parte tragica del Novecento; quella esaltazione ideologica del potere e della forza dello Stato che hanno sacrificato milioni di persone sull’altare del fanatismo e del disprezzo della vita umana.
 
Il pensiero cristiano ha visto prima degli altri questi aspetti decisivi della politica e della storia. Di fronte ai terribili avvenimenti che hanno sovrastato l’Occidente ha mantenuto spesso in modo carsico, una ispirazione umana, critica e feconda. Il personalismo cattolico, il cattolicesimo democratico, il cristianesimo sociale, la lettura diretta del messaggio evangelico hanno contribuito a salvare l’anima di un Occidente perduto nella follia della violenza. Tali semi sono oggi essenziali per guardare nel profondo la perdita di senso e le solitudini del mondo contemporaneo; dove molti paiono aver perso la loro autonomia e la loro identità e sembrano in balia di meccanismi più grandi di loro stessi.
 
È questa la nostra sfida.
 

L’economia giusta. La sostenibilità ambientale e sociale

L’Italia ha bisogno di più crescita, ma soprattutto di una straordinaria iniezione di giustizia. È l’economia giusta: una nuova piattaforma che sappia coniugare la crescita con l’equità in un modello di sviluppo fondato sulla sostenibilità ambientale e sociale, sulla qualità della vita.
 
Dobbiamo essere i più bravi a generare sviluppo e i più testardi a garantirne l’equità e la sostenibilità.
 
Dobbiamo far sì che mercato e economia siano strumenti e non fine della politica, mezzi per attuare una visione della società, come con mirabile chiarezza, già negli anni ’60, in pieno boom economico, indicò l’enciclica di Paolo VI “Populorum progressio” (13).
 
Questo, per noi, significa economia giusta.
 
Per costruirla dobbiamo ricostruire prima di tutto il tessuto sociale del Paese: investire nel capitale umano, nella cultura, negli asili, nella scuola e nelle università, negli spazi comuni e nei servizi alle persone.
 
E, insieme, investire negli elementi base della nostra competitività. Nelle reti materiali e immateriali che debbono connettere tutto il nostro Paese, in politiche industriali che portino le imprese dentro il mondo nuovo dell’innovazione aumentandone la produttività, in politiche per la ricerca scientifica e il trasferimento tecnologico, in politiche del lavoro per affrontare il nuovo mondo con formazione continua, centri per l’impiego di qualità, più donne nell’economia grazie a politiche di genere in tutti i settori produttivi, in un nuovo welfare che garantisca opportunità per tutti, qualità della vita e anche del lavoro. In particolare, la piena realizzazione delle donne nell’economia e nel lavoro è elemento imprescindibile di giustizia e di sviluppo. Le donne potrebbero dare alla crescita e alla sostenibilità economica del Paese un contributo ancora più forte e decisivo il ruolo che spetta a loro nella società. Dobbiamo investire sulla libertà e sulla promozione di politiche per contrastare le disuguaglianze di genere, e garantire a tutte la possibilità di scegliere cosa fare delle proprie vite a partire dall’indipendenza economica.
 
La sostenibilità come scelta strategica
 
Il primo obiettivo che ci poniamo è costruire un modello di sviluppo che si fondi sulla sostenibilità ambientale, perché uno sviluppo che risponde solo alle necessità del presente, compromette la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni.
 
Il recente rapporto dell’IPCC sui cambiamenti climatici ci impone di adottare globalmente misure per la sostenibilità ambientale del Pianeta: se non riusciremo a fermare il riscaldamento globale ci saranno conseguenze devastanti e i più poveri saranno i più esposti a queste minacce.
 
La sostenibilità è la via maestra per costruire un modello di sviluppo alternativo a quello basato sulla distruzione delle risorse naturali, garantire alle nuove generazioni un futuro più giusto, e restituire un’economia più competitiva perché a misura d’uomo. Il nostro riferimento sono gli obiettivi dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite. Condividiamo e sosteniamo la proposta dell’ASViS di inserire il principio dello sviluppo sostenibile nella Costituzione, così come hanno fatto il Belgio, la Francia, la Norvegia e la Svizzera.
 
Dobbiamo valutare il progresso della nostra società non solo attraverso indicatori economici come il PIL (Prodotto Interno Lordo) ma anche utilizzando parametri sociali e ambientali. Nella scorsa legislatura grazie all’iniziativa del nostro governo l’Italia ha introdotto nella programmazione economica dodici indicatori di benessere equo e sostenibile (BES) (14). D’ora in poi il governo è tenuto a riportare l’impatto di ogni legge di bilancio su distribuzione e povertà, lavoro e discriminazione delle donne, salute, e istruzione, ambiente e abusivismo, giustizia civile e sicurezza. È un nostro impegno far sì che questa innovazione non rimanga sulla carta.
 
La sostenibilità ambientale da vincolo deve trasformarsi in una straordinaria opportunità di sviluppo, innovazione e competitività. L’economia verde, come ricorda il documento “Progetto Green economy” (15), ha un ruolo centrale nel cambiamento verso uno sviluppo sostenibile ed è in grado di assicurare un benessere più inclusivo ed equamente esteso.
 
La green economy può essere una gigantesca opportunità per valorizzare le aree naturali e protette, rivitalizzare le aree interne e rurali, rigenerare il patrimonio dei piccoli Comuni. Un’opportunità per centinaia di migliaia di imprese italiane per innovare, crescere e creare lavoro, innanzitutto nel Mezzogiorno. Un grande motore di sviluppo trasversale che coinvolge interi settori e filiere e che va dalla rigenerazione urbana alla lotta contro il dissesto idrogeologico, dalla qualità, tracciabilità e sicurezza dei prodotti agroalimentari alla riconversione green delle aziende, dalla mobilità sostenibile fino alle energie alternative e all’economia circolare.
 
Secondo l’ultimo rapporto “GreenItaly” della Fondazione Symbola (16), sono circa 3 milioni i lavoratori della green economy, il 13% dell’occupazione complessiva nazionale. Si prevedono numeri ancora migliori nel 2018. Il Pd deve intercettare queste forze vive del mutamento e farsi promotore di una grande alleanza tra Stato, cittadini e imprese, per una svolta sostenibile dell’Italia. Serve una sterzata vera: per far ripartire il processo di decarbonizzazione, che sembra essersi arrestato; per sviluppare le forme di responsabilità sociale e ambientale d’impresa; per favorire la transizione verso l’economia circolare, così come stabilito dalle direttive UE in vigore dal luglio 2018, per sviluppare riciclo, riuso e riduzione del ciclo dei rifiuti, a partire da quelli plastici.
 
Ma non bastano più le dichiarazioni di intenti. È il momento di assumere decisioni coraggiose e di produrre fatti. Proponiamo cinque azioni, cinque passi concreti per avviare subito una nuova stagione di politiche per la sostenibilità, un New Deal verde per l’Italia:

  1. un nuovo Piano di manutenzione del territorio e delle piccole opere contro il dissesto idrogeologico, da sviluppare in 5 anni e da finanziare con almeno 5 miliardi di euro l’anno, per coprire il fabbisogno indicato dalle Regioni;
  2. incentivare la produzione di fonti rinnovabili e l’autoproduzione di energia per cittadini, imprese e distretti, puntando a coprire almeno il 35% del consumo totale di energia entro il 2030. Proponiamo una riforma delle tariffe elettriche per favorire (anziché penalizzare, come avviene oggi) l’utilizzo da parte delle famiglie e delle imprese di energia autoprodotta con le rinnovabili;
  3. favorire la transizione verso la mobilità elettrica, destinando il 50% degli investimenti in infrastrutture per la mobilità sostenibile nelle città e per il trasporto pubblico collettivo e condiviso;
    promuovendo la realizzazione di colonnine di ricarica per le auto elettriche in aree private, permettendo una detrazione fiscale del 50% delle spese in 10 anni;
  4. avviare un grande programma di riqualificazione energetica e messa in sicurezza sismica degli edifici pubblici e privati. Gli investimenti potenziali sono enormi (17) e produrrebbero grandi ricadute occupazionali e rilevanti benefici per le famiglie e le imprese. In questa prospettiva, è fondamentale rafforzare e rendere permanenti gli incentivi verdi (bonus ristrutturazione, ecobonus e sismabonus; incentivi per la cura del verde) e stanziare fondi speciali a favore degli enti locali per la riqualificazione energetica e antisismica degli edifici pubblici;
  5. dare strumenti ai comuni per affrontare l’adattamento ai cambiamenti climatici (con particolare riferimento alle periferie, dove si stanno rivelando più gravi gli impatti di piogge e ondate di calore), prevedendo anche un piano di riforestazione, valorizzazione e manutenzione del verde e demolizioni più semplici e veloci degli abusi nelle zone a rischio. Fondamentale è l’approvazione della legge contro il consumo di suolo.

 
L’introduzione a livello europeo di una carbon tax su carbone, petrolio e gas (fossil fuel contribution), secondo la proposta avanzata nel febbraio 2018 da 19 economisti europei (18), permetterebbe di finanziare la transizione energetica “socialmente sostenibile”, incrementando i fondi destinati ai trasporti pubblici nelle città, alla riqualificazione professionale di chi ha perso il lavoro nelle industrie più inquinanti, allo sradicamento della povertà energetica. In Italia, una forte spinta allo sviluppo sostenibile potrebbe derivare da una riforma fiscale green che – mantenendo invariata la pressione tributaria complessiva e prevedendo misure compensative per evitare impatti sociali e territoriali negativi – trasformi i sussidi dannosi per l’ambiente in incentivi per la riduzione dell’inquinamento; renda le accise sui carburanti proporzionali al contenuto di carbonio fossile (CO2 emessa al litro) e il bollo auto proporzionale all’inquinamento effettivamente generato da ciascun veicolo; introduca una fiscalità IVA di vantaggio per l’economia circolare, con una differenziazione delle aliquote tra i diversi impatti e cicli realizzativi che premi i beni che hanno un minore impatto ambientale.
 
Una cornice di piena legalità è essenziale in un disegno di sviluppo sostenibile, dalla lotta senza quartiere alle ecomafie e agromafie alla lotta all’abusivismo edilizio, affermando la certezza del diritto e procedure più semplici.
 
Sostenibilità vuol dire anche rendere il nostro patrimonio abitativo resistente ai terremoti, perché costruzioni antisismiche riducono al minimo i costi umani ma anche l’impatto ambientale dovuto alla ricostruzione. I terremoti non si possono prevedere. Ma si possono prevenire molte delle loro disastrose conseguenze. Per questo serve una seria politica antisismica dell’abitare, coordinata con gli interventi contro il dissesto idrogeologico. Oggi la tecnologia ci consente di conoscere quasi tutto dei nostri territori e ci consente di usarla per costruire sempre meglio, in modo sempre più sostenibile e a costi accessibili. Vogliamo ricostruire le comunità colpite dai terremoti con rinnovata efficienza e massima qualità. Ma vogliamo anche investire importanti risorse sulla rigenerazione del patrimonio abitativo nelle aree sismiche, rendendo strutturali gli incentivi fiscali introdotti dai governi di centrosinistra.
 
La filiera agricola italiana deve affrontare nuove sfide come la mitigazione degli effetti del cambiamento climatico e accrescere la funzione di tutela e conservazione delle risorse naturali.
 
Dobbiamo investire sulla qualità dell’ambiente, il paesaggio e la sicurezza alimentare ripartendo dai territori e dai piccoli comuni per affrontare la competizione globale in una logica fondata sui principi di etica del lavoro e di coesione sociale, ma realizzando anche investimenti che consentano al Made in Italy di rafforzare la propria proiezione sul mercato mondiale.
 
A livello di imprese, la sostenibilità ambientale deve essere coniugata con la sostenibilità economica.
 
Per questo, i fondi per la Politica Agricola comune (PAC) non possono essere ridotte, nell’ottica di accrescerne l’ambizione ambientale. Negli ultimi anni l’export agricolo è molto cresciuto e il potenziale di aumento della produzione agricola è importante. Per progettare il futuro dell’agroalimentare italiano dobbiamo mettere a punto un contratto strategico concordato tra le organizzazioni della filiera e la parte pubblica, a cui spetta il compito di sostenere il sistema produttivo con la modernizzazione delle infrastrutture e la diffusione delle più moderne tecnologie, che possono contribuire alla riduzione dell’uso di prodotti chimici in agricoltura. Di grande rilievo e attualità è il rapporto con i consumatori. La corretta informazione è essenziale e occorre giungere ad un sistema di etichettatura dei prodotti definito in ambito europeo, contrastando le iniziative unilaterali di alcuni Paesi.
 
Un’agenda per l’uguaglianza Il secondo grande obiettivo è la definizione e l’attuazione di un’agenda per promuovere l’uguaglianza, per la sostenibilità sociale dello sviluppo. Come sottolinea il Forum Disuguaglianze e Diversità, le disuguaglianze economiche, sociali e territoriali sono elevatissime e sono cresciute negli ultimi trenta anni, anche in Italia (19). Le ragioni di fondo stanno un’inversione a U delle politiche pubbliche, nella perdita di potere negoziale del lavoro e in un’involuzione del senso comune meno sensibile all’esigenza di ridurre le disuguaglianze per dare vigore alla democrazia.
 
Un contributo decisivo all’agenda europea per ridare potere alle persone, ridefinire il capitalismo e conseguire giustizia sociale e sviluppo sostenibile in una società dinamica e inclusiva è arrivato, recentemente, dal già citato Rapporto per l’Uguaglianza sostenibile elaborato dalla Commissione indipendente della Progressive Society, su iniziativa del gruppo S&D.
 
Le disguaglianze in Italia sono tornate a crescere a ritmi prima sconosciuti e con esse anche la povertà, compresa quella associata al lavoro. La povertà oggi interessa non solo gli più strati marginali della popolazione, ma anche porizioni crescenti di ceto medio impoverito, stretto ai margini dalla crisi e impaurito di fronte alla percezione quotidiana di un lento ma costante scivolamento verso il basso.
 
È tempo di proporre una nuova agenda anche in Italia, che parta dal rilancio di quel grande strumento di promozione e protezione sociale che è stato il welfare. In Europa gli investimenti nel welfare sono un motore di crescita e di creazione di lavoro. Le infrastrutture sociali e i servizi di welfare (di cura, assistenza, conciliazione, integrazione socio-sanitaria, continuità assistenziale) devono perciò entrare a far parte della strategia di rilancio degli investimenti, anche perché è in questi ambiti che verrà creata in futuro molta della nuova occupazione.
 
Abbiamo bisogno di nuove politiche fiscali redistributive nel rispetto del principio costituzionale di progressività del sistema tributario, che alleggeriscano il carico sui redditi medio-bassi (20) e sulle famiglie con figli e familiari non autosufficienti a carico e chiedano un maggiore contributo ai redditi più elevati, attraverso la riduzione delle agevolazioni fiscali di cui beneficiano (21). È esattamente l’opposto della Flat tax prevista dal Contratto di governo Lega-5 Stelle, che regalerebbe metà del taglio delle tasse al 10% più ricco dei contribuenti! Anche la revisione degli estimi e dei classamenti catastali (a parità di gettito) può rappresentare un potente strumento di miglioramento dell’equità del sistema fiscale.
 
Dobbiamo porci l’obiettivo di aiutare tutte le persone in condizione di povertà assoluta. Il Reddito di cittadinanza si prospetta come uno strumento stigmatizzante nei confronti delle persone indigenti o a rischio di povertà; centralista, perché taglia fuori i comuni; inefficace, perché incardinato sui centri per l’impiego, le cui difficoltà sono ben note e per i quali non si avvia un processo credibile di riforma e potenziamento. Se si vogliono davvero rafforzare le politiche contro l’esclusione sociale, va invece rafforzato il Reddito di inclusione (REI), dirottando su questo strumento l’aumento di spesa previsto e investendo sui servizi sociali dei comuni, come chiede l’Alleanza contro la povertà (22). Vanno inoltre riviste e migliorate le misure di contrasto della “povertà energetica” (23). Gli interventi contro la povertà, infatti, sono complessi e multidimensionali. Sono efficaci se i comuni, il terzo settore e le imprese lavorano insieme per costruire risposte su misura delle singole persone in condizione di difficoltà. A un anziano o a un bambino non si possono certo proporre tre offerte di lavoro per uscire dalla povertà! Ma per fare ripartire l’ascensore sociale dobbiamo puntare sulle politiche “predistributive”, per prevenire i fattori che causano le disuguaglianze.
 
I giovani sono le prime vittime delle disparità sociali (24) e devono essere i primi destinatari di queste politiche. L’Italia ha bisogno di un grande investimento sulle nuove generazioni, nell’ordine di un punto di PIL, circa 18 miliardi di euro: dai servizi per l’infanzia alla lotta alla dispersione scolastica, dall’estensione della gratuità dei libri di testo a una più generale nuova politica per il diritto allo studio e alla conoscenza. Proponiamo di assegnare ai giovani provenienti dalle famiglie meno abbienti una dote attivabile al compimento dei 18 anni per finanziare un progetto formativo o imprenditoriale, con un grande obiettivo, liberare i giovani dal ricatto di vite precarie, cancellare lo scandalo dei tirocini gratuiti, rimuovere il triste primato italiano di tre milioni di ragazzi e ragazze tra i 18 e 29 anni che non studiano e non lavorano (i cosiddetti NEET). Il servizio civile va reso universale.
 
I figli sono l’investimento più importante per il futuro. Le famiglie italiane ne fanno sempre meno: nel 2017 le nascite sono crollate di oltre un quinto rispetto al livello del 2008 (25). Il nostro tasso di fecondità – 1,32 figli per donna in età fertile – è uno dei più bassi del mondo. L’inverno demografico mette a rischio la sostenibilità del nostro welfare. Per invertire questa tendenza, l’Italia deve finalmente diventare un Paese family-friendly, favorevole alle relazioni, alla generatività e alla cura.
 
Nella scorsa legislatura sono stati introdotti numerosi incentivi per la natalità. Ciò di cui abbiamo bisogno è però un salto di qualità, un vero e proprio Piano nazionale di politiche familiari mirate, integrate, strutturali e partecipate. Le priorità sono: una riforma fiscale che destini risorse importante sui figli e i familiari a carico, introducendo un nuovo assegno familiare universale in sostituzione degli strumenti vigenti (assegni al nucleo familiare e detrazioni IRPEF) e un buono per l’acquisto di servizi rivolti alle famiglie; un grande investimento nei servizi socio-educativi 0-3 anni, con l’obiettivo di raggiungere in pochi anni l’obiettivo europeo di copertura del 33%; il miglioramento del sistema di congedi parentali (guardando al modello svedese) e permessi più generosi e paritari per i lavoratori genitori o che hanno familiari cui prestare assistenza; la stabilizzazione dei finanziamenti per la contrattazione collettiva rivolta a istituti di conciliazione famiglia-lavoro; il rafforzamento dei consultori familiari come strutture di prossimità per le famiglie.
 
Dobbiamo introdurre un codice del lavoro semplificato, cambiando le cose che non hanno funzionato del Jobs act e attuandone le parti più innovative, ma anche rivedendo il Decreto dignità.
 
L’obiettivo che ci poniamo è superare i tanti contratti di lavoro atipici che generano una flessibilità malata che si traduce in precarietà; rafforzare la rete di ammortizzatori sociali e le politiche attive del lavoro; prevedere norme che includano i nuovi lavoratori della gig economy, che non hanno tutele. Vanno potenziati l’apprendistato e i meccanismi di formazione orientata al lavoro, così come la contrattazione collettiva di secondo livello e il salario di produttività.
 
Dobbiamo lavorare per un welfare che superi le distinzioni tra lavoro dipendente e indipendente, a partire dall’ampliamento della platea dei beneficiari dell’indennità di malattia e dall’istituzione di un’indennità universale di maternità.
 
Dobbiamo ridurre le differenze di genere nella retribuzione (26), nelle occasioni di lavoro, nella divisione del tempo dedicato al lavoro familiare, investendo nel welfare per servizi di cura e conciliazione: da misure già citate come l’assegno unico per i figli a carico e il rafforzamento del congedo parentale e dei permessi genitoriali al miglioramento dei servizi per la prima infanzia e la cura degli anziani, fino alla trasformazione dei sistemi di telelavoro in modalità stabili di organizzazione del lavoro pubblico e privato. La legge in vigore dal 2018 in Islanda sulla certificazione obbligatoria della parità retributiva di genere nelle aziende e istituzioni con più di 25 dipendenti è un modello interessante (27).
 
Puntiamo a introdurre, confrontandoci con le organizzazioni sindacali, un salario orario minimo legale per i lavoratori non coperti da contrattazione collettiva; a dimezzare l’IRES alle imprese che riducono la forbice delle retribuzioni entro il rapporto 1 a 20 e a quelle che rispettano standard certificati di rispetto dell’ambiente e di responsabilità sociale; ad attuare le norme sull’equo compenso dei lavoratori autonomi, a partire dai rapporti con la Pubblica amministrazione; a incentivare la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario, rivedendo la disciplina dei contratti di solidarietà espansivi.
 
Il sistema pensionistico va reso flessibile in modo più equo e sostenibile rispetto a quanto propone il governo, seguendo il percorso delineato dall’accordo tra Cgil-Cisl-Uil e Governo del 2016 (28) e prevedendo: la proroga e l’allargamento dell’APE sociale; misure per risolvere i problemi degli esodati e per tutelare chi svolge lavori gravosi e usuranti; una pensione minima di garanzia per i giovani che rischiano di ritrovarsi da anziani in condizioni di forte disagio economico; politiche per la riduzione del gender gap pensionistico (29); la revisione del meccanismo di adeguamento dell’età di pensionamento all’aspettativa di vita; la piena portabilità del credito pensionistico per gli iscritti alla gestione separata INPS; il rilancio della previdenza complementare, anche introducendo il silenzioassenso per l’adesione ai fondi pensione integrativi.
 
Il sistema sanitario nazionale (SSN) ha compiuto quarant’anni. La sanità pubblica, che è da sempre ai vertici nei confronti internazionali, è una conquista di civiltà che vogliamo salvaguardare e rafforzare. Per noi la spesa sanitaria non è un costo, è un investimento. La ricostruzione della sostenibilità del SSN non è stata senza conseguenze sul grado di copertura e sulla qualità dei servizi.
 
La definizione dei LEA (i Livelli Essenziali di Assistenza) non è bastata a garantire l’erogazione in modo omogeneo sull’intero territorio nazionale dei servizi fondamentali. Le differenze tra le sanità regionali, infatti, si sono ampliate. Il superamento di queste criticità passa necessariamente dalla condivisione con le regioni di un nuovo Patto per la salute, che preveda l’adeguamento delle risorse finanziarie (30) e umane per garantire in tutto il territorio nazionale i LEA (aggiornati dai governi guidati dal Pd) e migliorare l’accesso alle prestazioni (31) ma anche affrontare sfide come l’impatto sulla salute dei cambiamenti climatici, la salute mentale e i nuovi modelli di ricerca. Le risorse da recuperare riducendo sprechi e inefficienze (32) vanno reimpiegate nel sistema sanitario. La prevenzione e la formazione vanno poste al centro del sistema e la salute deve diventare parte integrante di tutte le decisioni politiche. È necessario un piano nazionale per la gestione delle liste di attesa che faccia proprie le buone pratiche messe in campo da alcune regioni. Il rafforzamento della rete dei presìdi territoriali e dell’integrazione sociosanitaria è cruciale per garantire la continuità assistenziale.
 
Vanno definiti criteri più equi e omogenei di compartecipazione ai costi, eliminando il superticket.
 
L’Italia sconta uno sviluppo a macchia di leopardo della rete di servizi sociali, assistenziali e sociosanitari. La legge 328 del 2000 è stata depotenziata dalla riforma del Titolo V della Costituzione.
 
La mancata definizione dei livelli essenziali delle prestazioni sociali ha avuto come conseguenze il sottodimensionamento della spesa (sbilanciata sui trasferimenti monetari) e la “competizione tra poveri” per accedere ai servizi, garantiti solo in funzione delle risorse disponibili a livello locale e quindi penalizzati dai tagli che hanno colpito i comuni. I governi di centrosinistra hanno rifinanziato e stabilizzato i fondi nazionali destinati alle politiche sociali e hanno istituito uno strumento universale di sostegno delle persone in povertà assoluta (il Reddito di inclusione). Per rafforzare il sistema di welfare territoriale dobbiamo ripartire dai comuni, favorendo la creazione di alleanze locali, investendo sulla rete di servizi e riducendone la frammentazione, cooperando con il terzo settore, oggetto di un’importante riforma nella scorsa legislatura.
 
Aiutare gli oltre 3 milioni e mezzo di non autosufficienti (di cui quattro quinti anziani over-65) è una delle sfide più importanti che l’Italia deve affrontare (33). Una legge-quadro sulla non autosufficienza è ormai improcrastinabile. Dobbiamo incrementare il Fondo per la non autosufficienza e diversificarlo nelle sue funzioni; accrescere i fondi per il ‘Dopo di noi’ (per sostenere i disabili una volta diventati adulti e privi di una rete di assistenza familiare), per l’indennità di accompagnamento e il ‘Caregiving’ (per dare sollievo alle centinaia di migliaia di persone, in grande maggioranza donne, che si prendono cura di familiari o figli non autosufficienti). Altri paesi europei come la Germania hanno promosso forme innovative pubblico-private di assistenza, organizzate su base territoriale o regionale, co-partecipate dai cittadini sin dalla nascita. L’obiettivo che l’Italia deve porsi è dare a tutti la certezza di poter contare su un aiuto reale per i bisogni che sorgono nell’ultimo tratto di vita.
 
Non possiamo accettare che solo chi ha un reddito elevato possa permettersi una vecchiaia serena, al contrario di chi non ce l’ha ed è costretto a vivere in condizioni di insicurezza, fragilità e paura.
 
Il diritto alla casa è una emergenza dimenticata. Le politiche pubbliche devono occuparsi molto di più dei 4 milioni di famiglie che vivono in affitto, spesso in condizioni di grave disagio abitativo e delle famiglie che hanno diritto ad un alloggio di edilizia sociale: rifinanziando il Fondo per la morosità incolpevole e il Fondo nazionale per l’affitto; riservando all’edilizia residenziale pubblica una quota significativa delle risorse statali per gli investimenti; portando le detrazioni fiscali per chi vive in affitto al livello di quelle per i mutui sulla prima casa, con agevolazioni ulteriormente rafforzate per i giovani.
 
Una strategia nazionale per la piena e buona occupazione La terza sfida che vogliamo lanciare è quella di una strategia nazionale per la piena e buona occupazione, basata su un grande programma di investimenti pubblici e privati; sulla costruzione di un Sistema Italia per le imprese; sul rinnovamento generazionale della P.A.; sulla sperimentazione a livello locale di progetti costruiti con il terzo settore per offrire lavori di utilità sociale ai disoccupati che cerchino e non trovino lavoro o per integrare l’occupazione di coloro che abbiano un lavoro parziale involontario (34).
 
La sostenibilità sociale, da questo punto di vista, non rappresenta soltanto un valore in sé di coesione sociale. Gli investimenti nel welfare, sui servizi soprattutto, sono un motore di crescita e creazione di nuova occupazione. In tutti i paesi europei i servizi alle persone sono tra i settori che più stanno contribuendo a creare occupazione e più lo faranno in futuro per via delle grandi trasformazioni demografiche e dei nuovi bisogni legati alla conciliazione e cura delle persone. I dati Eurostat certificano questo andamento, comune ai diversi paesi europei, anche negli anni della crisi.
 
In Europa, tra il 2008 e il 2017, a fronte di una perdita di occupati nel manifatturiero di 3,3 milioni di unità, i servizi di welfare ne hanno guadagnati 3,2 milioni (+15,5%) (35). Se questo è il trend, le infrastrutture sociali i servizi di welfare (di cura, assistenza, conciliazione, di integrazione sociosanitaria, di continuità assistenziale) devono entrare a fare parte di una strategia di rilancio degli investimenti per la crescita, perché è in questi ambiti che c’è molta della nuova occupazione che si andrà creando in futuro. Una occupazione da qualificare, utile a rispondere ai bisogni sociali emergenti, cui non possono continuare a fare fronte le famiglie da sole, senza politiche in grado di invertire la rotta di un familismo coatto come è ancora oggi in Italia.
 
Gli investimenti sono la variabile cruciale per lo sviluppo, come è ormai riconosciuto ovunque nel modo. Decisivo è il ruolo di uno Stato “strategico”: non solo “facilitatore” e alimentatore di condizioni di contesto favorevoli, ma anche capace di intervenire direttamente, recuperando il ruolo di motore e traino dello sviluppo. Tutto questo richiede un salto di capacità progettuale e programmatica.
 
Nel bilancio dello Stato ci sono 140 miliardi già disponibili (36), che renderebbero il Paese più connesso, più competitivo e che potrebbero dare un impulso straordinario anche all’occupazione. Quasi nulla è stato ancora utilizzato. Uno spreco enorme, soprattutto considerando il possibile impatto occupazionale. Non è un problema di risorse, ma di procedure: serve un grande piano di semplificazione burocratica per accelerare la capacità dello Stato e degli enti locali di attuare quanto programmato e finanziato. Secondo l’ANCE sono ferme o in bilico 27 grandi opere (di cui 16 al Nord) per un valore di 24 miliardi (37): sbloccarle è indispensabile, se vogliamo ridurre lo “spread infrastrutturale” di cui soffre l’Italia. Bisogna soprattutto rafforzare la capacità realizzativa e progettuale delle Pubbliche Amministrazioni, che devono reclutare personale con competenze tecniche per il rilancio delle strategie di investimento. L’obiettivo è quello di aumentare del 50% gli investimenti pubblici, riportandoli al livello di prima della crisi (3% del PIL) e orientandoli verso progetti ad alta intensità occupazionale per la sostenibilità ambientale e sociale: manutenzione del territorio, mobilità sostenibile, rigenerazione delle periferie, infrastrutture sociali per l’istruzione, la sanità, la cura. Strategico è il completamento del progetto nazionale Banda ultralarga, promosso dai governi a guida Pd.
 
Un Sistema Italia per l’Impresa L’obiettivo della piena e buona occupazione si lega in maniera indissolubile a quello della costruzione di un “Sistema Italia per l’impresa”. L’Italia ha un problema conclamato di produttività e di crescita(38). Per recuperare il gap dobbiamo abbattere il “costo dell’incertezza” e ridisegnare strategicamente la nostra politica industriale.
 
Bisogna creare le migliori condizioni affinché le imprese possano svilupparsi e assumere nuovo personale. Il sistema pubblico è ancora lontano, come tempi e modalità di funzionamento, dalle esigenze delle aziende. La semplificazione della normativa e delle procedure (a partire dal sistema fiscale), la modernizzazione della giustizia civile e l’accelerazione dei pagamenti della P.A. sono fattori di competitività cruciali. Nella scorsa legislatura abbiamo avviato riforme importanti. Bisogna proseguire con grande determinazione, a tutti i livelli.
 
Le politiche pubbliche devono orientare sempre più imprese verso la sostenibilità ambientale e sociale. Per questo, proponiamo di dimezzare l’IRES alle imprese con certificazione ambientale e di responsabilità sociale e alle imprese che contengono la forbice salariale entro un rapporto 1:20.
 
Nonostante le tante inefficienze del sistema Paese, il nostro apparato produttivo ha punti di forza che lo rendono ancora capace di affrontare con successo le sfide globali (39). Proprio la capacità di offrire prodotti di nicchia e dall’inconfondibile eccellenza qualitativa, le cui punte di diamante sono i prodotti del “Made in Italy”, costituisce la nostra grande forza anche sui mercati esteri. Un modello unico, nel quale il fattore umano del lavoro, spesso di natura artigiana, è fondamentale. Il mondo chiede prodotto italiano e lo cerca sempre più sui motori di ricerca. È importante che le nostre imprese siano capaci di intercettare queste richieste sviluppando una presenza digitale in grado di affiancare l’impegno sui canali tradizionali di distribuzione e di vendita (40).
 
La vocazione manifatturiera del nostro Paese va difesa e rafforzata. Ma c’è un salto culturale da compiere: la sfida più cogente per le nostre imprese è rappresentata dall’avvento della quarta rivoluzione industriale e l’accelerazione dei progressi della digitalizzazione, dell’intelligenza artificiale e della robotica. L’Italia investe poco in ricerca e innovazione e presenta un notevole ritardo in termini di utilizzo delle nuove tecnologie.
 
Per sostenere le imprese che investono e innovano il programma Impresa 4.0 va consolidato e rafforzato, a partire dalla proroga e dal miglioramento di incentivi quali il super ammortamento e i crediti d’imposta per la formazione 4.0 e la ricerca e sviluppo.
 
La ricerca è cruciale: dobbiamo farne comprendere il valore, puntando ad allineare gli investimenti alla media europea e dando il giusto riconoscimento a chi dedica ad essa la sua vita. In questa prospettiva, l’Italia deve dotarsi di una strategia nazionale per la Blockchain e l’Intelligenza Artificiale. L’anello debole della catena della ricerca e dello sviluppo sta nel trasferimento tecnologico: per questo dovremmo immaginare, sul modello tedesco, una rete della ricerca applicata che veda la virtuosa collaborazione tra pubblico e privato e che faccia rete tra i tanti centri di eccellenza animati dai nostri bravissimi ricercatori, con l’obiettivo della produzione di brevetti e l’introduzione di innovazioni nel processo produttivo delle nostre PMI.
 
Accanto a questi grandi obiettivi, comuni a tutti i sistemi, c’è un filone che in Italia ha una sua specifica declinazione. Per fare del nostro Paese un vero e proprio ecosistema dell’innovazione e della creatività dobbiamo accelerare la convergenza fra il digitale e il saper fare, tipico dell’impresa italiana. L’Italia deve dotarsi di un Programma strategico per la creatività, che ne affermi il valore economico, scelga i settori sui quali puntare, individui i programmi da finanziare e gli strumenti da utilizzare. Passa da qui il miglioramento della produttività dell’impresa tradizionale. In un mondo che premia la tecnologia, noi abbiamo tutto per vincere questa sfida: un ecosistema molto dinamico che conta 9.742 start-up innovative (41), una rete capillare di FabLab, Università e centri di ricerca d’eccellenza. Spesso però manca un efficace raccordo tra le imprese tradizionali e questo mondo.
 
Occorre dare maggiore impulso allo sviluppo di reti di innovazione e sostenere così il rafforzamento e la crescita dimensionale delle nostre imprese, in particolare nei settori d’avanguardia.
 
Il sistema imprenditoriale italiano è caratterizzato da una grande maggioranza di piccole e medie imprese con bassi livelli di patrimonializzazione, che hanno nel credito bancario la primaria forma di finanziamento delle loro attività. In questo contesto, i programmi di accesso al credito vanno potenziati, a partire dal Fondo centrale di garanzia; dall’altra è necessario valorizzare i canali alternativi di finanziamento, rafforzando le misure avviate nella scorsa legislatura, per dare l’opportunità di fare impresa anche a chi non ha dietro di sé risorse e beni da dare in garanzia.
 
Vogliamo rilanciare la cooperazione, un modello d’impresa che negli anni della crisi ha aumentato i livelli occupazionali (42) e oggi sembra ritrovato una missione. In quest’ottica, è importante promuovere lo start-up cooperativo in settori innovativi e valorizzare lo strumento delle imprese rigenerate dai lavoratori (il workers buyout) non solo per il rilancio delle aziende in crisi, ma anche per il ricambio generazionale degli imprenditori e la gestione delle attività confiscate alla criminalità organizzata.
 
Tutto questo non è possibile se non si continua ad investire sulle persone. Semplicemente perché in un mondo in rapido cambiamento è sempre più importante la qualità del capitale umano. Da questo dipende, in ultima istanza, la capacità di un Sistema d’impresa di stare nella competizione e quella dei singoli cittadini di vivere la globalizzazione come un’opportunità o una minaccia. Per questo è fondamentale investire su una formazione continua e mirata alle esigenze concrete delle aziende, anche prevedendo meccanismi di premialità per i formatori in relazione ai risultati ottenuti.
 
Il rilancio del Mezzogiorno, delle aree interne e delle periferie urbane Il quinto fronte è un grande programma di rilancio del Mezzogiorno, delle aree interne e delle periferie urbane, valorizzando in primo luogo i talenti e le energie presenti, che chiedono risposte e opportunità di crescita e di sviluppo. Giovani, donne, disoccupati, periferie urbane e aree interne.
 
Settori sociali e spazi geografici troppo spesso dimenticati e dove si annidano le molte cause di disuguaglianza.
 
Devono essere questi i riferimenti per il riscatto e l’emancipazione della società meridionale.
 
Tenendo insieme chi nel Mezzogiorno ce la fa, produce e lavora e chi è rimasto indietro.
 
Abbandonando la retorica delle eccellenze e senza più indugiare in narrazioni lontane dalla realtà.
 
Riconoscendo nello slogan, tanto abusato, “il Paese riparte solo se riparte il Sud”, una condizione realmente imprescindibile per l’uscita dell’Italia dal declino. Inquadrando, finalmente, il tema del Sud in una strategia nazionale. Perché Nord e Sud sono realtà diverse ma non sganciate e il disegno delle politiche deve valorizzare i tanti canali ai quali si alimenta l’interdipendenza tra due aree che tendono inevitabilmente a crescere o arretrare insieme.
 
Vanno costruite le condizioni di contesto, in primo luogo, attraverso un grande piano di lotta alla criminalità organizzata, cui accompagnare un programma di investimenti nella mobilità, nel risanamento ambientale, in cultura, istruzione e ricerca. La soglia minima del 34% degli investimenti della Pubblica Amministrazione nel Mezzogiorno va attuata ed estesa. Il credito d’imposta per gli investimenti nel Mezzogiorno ha ottenuto risultati importanti: va riproposto.
 
Bisogna ampliare la dotazione di infrastrutture sociali e l’offerta di servizi pubblici essenziali.
 
Soprattutto nelle periferie urbane e nelle aree interne a rischio spopolamento, superando una inadeguatezza dei servizi essenziali che secondo la Svimez determina in molte aree del Sud una vera propria “cittadinanza limitata”.
 
La governance delle politiche di coesione va rivista, riordinando e riqualificando le istituzioni interessate ed eliminando sovrapposizioni e disallineamenti di competenze.
 
Il Mediterraneo rappresenta, in prospettiva, una straordinaria opportunità di sviluppo per il Mezzogiorno, per il Paese. Il raddoppio del canale di Suez ha modificato le rotte globali, conferendo al Mar Mediterraneo una nuova centralità: negli ultimi vent’anni il traffico container è cresciuto di 6 volte (43). Nella Belt and Road Initiative (BRI) e la sua componente marittima (la “Via della Seta Marittima del XXI secolo”) la Cina attribuisce un ruolo strategico al Mediterraneo (44). L’Italia deve saper cogliere l’opportunità di inserirsi in questo scenario, facendo delle coste e dei territori del Mezzogiorno (a partire dagli scali di Gioia Tauro, Napoli, Salerno) una grande piattaforma per i trasporti e l’industria. In questo contesto, la costituzione a livello europeo di un’Agenzia Euromediterranea per lo Sviluppo permetterebbe di coordinare gli interventi di carattere strutturale comunitari, nazionali e privati dei Paesi che si affacciano sul Mediterraneo, finanziando progetti strategici di modernizzazione degli assetti produttivi e logistici.
 
Il divario territoriale si manifesta con particolare intensità nelle aree interne, a partire da quelle della montagna. La Strategia nazionale avviata dai governi di centrosinistra va proseguita e rafforzata, coordinandola con altre iniziative quali la Legge sui piccoli comuni (approvata nella scorsa legislatura ma non ancora attuata). Nei piccoli comuni delle aree interne si potrebbero sperimentare misure quali “zone franche interne” con fiscalità agevolata per le microimprese analoga a quella prevista per le zone franche urbane; una quota riservata dei fondi per gli investimenti pubblici degli enti territoriali; misure per ridurre il costo dei servizi per l’infanzia e favorire il reinsediamento dei giovani.
 
Le aree periferiche di molte città italiane soffrono condizioni di grave degrado territoriale e sociale, parte di una più vasta e complessa “questione urbana”. Il bando periferie promosso nella scorsa legislatura – che ha riportato l’attenzione su questa problematica – deve evolvere in una “Agenda urbana per lo sviluppo sostenibile” di respiro pluriennale, per rendere le nostre città più inclusive, sicure, resilienti e sostenibili. I progetti di rigenerazione delle periferie dovrebbero essere al centro dell’Agenda, focalizzandosi sulle politiche abitative, sulla riconversione energetica del patrimonio edilizio, sulla mobilità sostenibile, sulle politiche attive per il sociale, sul rilancio dell’economia urbana (incentivando l’insediamento di attività artigianali e commerciali nelle periferie) e sulle misure per la legalità e la sicurezza dei cittadini.
 

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Per finanziare questi cinque grandi obiettivi – New Deal verde; agenda per l’uguaglianza; strategia per la piena e buona occupazione; sistema Italia per l’impresa; rilancio del Mezzogiorno, delle aree interne e delle periferie urbane – sono decisivi due strumenti.
 
Il primo è la lotta all’evasione fiscale, che sottrae ogni anno circa 110 miliardi alle casse dell’erario e dell’INPS (45). Rendere l’Italia un Paese in cui si pagano meno tasse, ma le pagano tutti e secondo un criterio progressivo, è una delle più importanti politiche di redistribuzione e di giustizia sociale che possiamo mettere in atto. Non è un’utopia, è una battaglia che l’Italia può vincere: incentivando e generalizzando l’uso degli strumenti di pagamento digitali; incrociando con maggiore efficacia le molte banche dati già oggi esistenti; facendo davvero una digital tax contro l’elusione dei giganti del Web; sollecitando in sede internazionale la chiusura dei paradisi fiscali; escludendo qualunque forma di condono.
 
Il secondo strumento è la revisione della spesa pubblica. In quest’ambito molto è stato fatto (46) ma tanto rimane ancora da fare. Sono molteplici i settori nei quali si possono recuperare risorse: la riduzione dei sussidi ambientalmente dannosi (47); lo sfoltimento delle agevolazioni fiscali (48); una migliore centralizzazione degli acquisti pubblici di beni e servizi (49); l’abbattimento dei costi per l’illuminazione pubblica e il riscaldamento degli edifici pubblici; la digitalizzazione della P.A.
 

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Questi sono gli obiettivi da cui vogliamo ripartire. I possibili riferimenti di una nuova sinistra che abbia l’ambizione di costruire una nuova Italia.
 
Le scelte sbagliate del governo
 
Purtroppo le scelte dell’attuale Governo non hanno nulla di tutto questo. Il problema più importante della manovra di bilancio non è il suo carattere espansivo: le politiche di austerità hanno aggravato la nostra crisi economica e sociale. Le abbiamo combattute, dobbiamo continuare a farlo. Il problema è che non c’è traccia del modello di sviluppo di cui l’Italia ha bisogno.
 
Ci sono solo nuovi debiti che ricadranno sulle spalle delle nuove generazioni compromettendone il futuro. Meno tasse per alcuni e condoni, sanatorie per altri e nessun reale contrasto all’evasione fiscale. Maggior spesa pubblica per interessi e tagli ai servizi per i più poveri. Poco o nulla per la crescita, molto poco per il Mezzogiorno.
 
Anche nella loro azione di contrasto alla povertà c’è una pericolosa deriva culturale che va spezzata: quella secondo la quale i disagiati, i poveri debbano esseri controllati perché indegni del sostegno sociale in una logica assurda per cui chi soffre è una persona inaffidabile. Ogni persona ha in sé una dignità e una sacralità che esige rispetto, non possiamo permettere uno scambio tra sostegno materiale e dignità delle persone, ci vuole grazia quando ci si avvicina al dolore delle persone.
 
Proprio perché sono queste le nostre idee, non possiamo restare a guardare l’avanzata di questa destra – tanto nuova quanto pericolosa – che sta costruendo un paese più povero e ingiusto, che premia i furbi, penalizza le nuove generazioni e mette a rischio anni di conquiste culturali e democratiche. Anche in Europa.
 

Per una nuova Europa, politica e sociale

L’Europa è il nostro destino. I risorgenti nazionalismi affermano una sconcertante bugia: senza l’Europa tutto andrebbe per il meglio. Il governo si è incamminato sulla linea dello scasso, della provocazione, contribuendo di fatto al tentativo di liquidare l’Unione, non di riformarla. Senza confessarlo, si sta procedendo a una rottura storica della collocazione internazionale dell’Italia, con inedite e pericolose alleanze nel mondo delle democrazie illiberali. Nel volgere di poche settimane l’Italia si è trasformata da Paese primo fondatore del sogno europeo a una mina vagante; considerata dall’opinione pubblica di tanti Paesi democratici del Continente irresponsabile e del tutto inaffidabile.
 
Oggi l’Europa è sotto attacco. Trump l’ha dichiarata sua “nemica”. Dobbiamo difenderla. “La via da percorrere non è facile né sicura, ma deve essere percorsa e lo sarà”. Si conclude così il Manifesto di Ventotene che nel 1941 lanciò il grande ideale dell’Europa federale “libera e unita”. L’Europa così come è ha perso la sua spinta di emancipazione, la sua capacità di rappresentanza, il suo spirito solidale. Come è successo in epoche passate, il rischio del Vecchio Continente è di entrare in una zona d’ombra e di decadenza a cospetto dell’emergere di inediti protagonisti. Oggi siamo chiamati a salvare le conquiste del percorso di integrazione europea. Ma per farlo dobbiamo essere protagonisti di un cambiamento profondo dell’Unione.
 
In questi anni hanno prevalso il rigore astratto e cieco, il “trionfo delle idee fallite” del pensiero neoliberale, la pratica burocratica e tecnocratica funzionale a un indirizzo politico conservatore, il ritorno alla logica degli Stati contro una visione comune. Il prevalere della filosofia e delle politiche “ordoliberiste” ha acuito le disuguaglianze all’interno dell’Unione e rafforzato i fattori di disgregazione. La configurazione incompleta della moneta unica, in assenza di una politica economica, fiscale e sociale comune, ha contribuito a creare divergenza e un crescente distacco dei cittadini europei nei confronti delle istituzioni dell’Unione. Le incertezze nell’affrontare la crisi migratoria e l’inefficacia del “sistema di Dublino” hanno indebolito il ruolo della UE di garante delle libertà civili e sociali e ne hanno messo in discussione uno dei pilastri fondamentali, la libera circolazione degli individui.
 
L’Europa non può rimanere in mezzo al guado. O fa un salto in avanti generoso e coraggioso, o va incontro alla sua disintegrazione. Questa è la posta in gioco alle prossime elezioni, l’Europa da rifondare.
 
Un’Unione politica, un’Europa sociale
 
Non ci battiamo per un europeismo di maniera, per una Europa astratta contro i cosiddetti populismi. Ma ci battiamo per un’Europa che ritrovi la sua identità sociale e si dia una nuova missione per il XXI secolo, all’altezza del nostro tempo. Ci battiamo per un’Unione politica, con Istituzioni più semplici e un riequilibrio di potere che ridimensioni l’assetto intergovernativo a favore della rappresentanza democratica e di un governo politico.
 
La compresenza di tre organismi di decisione politica (il Parlamento, la Commissione e il Consiglio) è troppo verticistico, opaco, farraginoso e, non di rado, paralizzante. C’è una distanza tra i cittadini e la sovranità europea che va accorciata anche attraverso una semplificazione dell’assetto dell’Unione. Il Parlamento, che è l’unico organismo eletto e rappresentativo dei cittadini, deve essere il cuore decisionale in rapporto con la Commissione, il cui Presidente deve essere eletto direttamente dal popolo. Occorre, inoltre, animare il dibattito politico europeo con partiti, associazioni, sindacati a dimensione transnazionale. Che possano essere interlocutori credibili e sufficientemente forti per confrontarsi con le istituzioni dell’Unione. Essi si svilupperanno tanto più se i referendum di tutti i cittadini europei su questioni essenziali saranno meglio regolamentati e svolti frequentemente.
 
L’Europa non può rinunciare all’ambizione di far vivere la democrazia su scala sovranazionale, attraverso la concretezza e gli ideali, capace di convincere e mobilitare intorno sfide del continente e del pianeta, ma anche per dare risposte ai bisogni e al crescente disagio dei propri cittadini.
 
Noi vogliamo batterci per un’Europa sociale. Fin dal suo nascere in Europa si sono fronteggiate due visioni diverse: quella democratica e sociale contenuta nelle costituzioni dei Paesi europei dopo il ’45 e quella tecnocratica, di fatto funzionale alla difesa senza se e senza ma del mercatismo 99senza regole e di un’economia senza politica. Troppo a lungo la costruzione europea ha considerato le politiche sociali e del lavoro come competenze nazionali, sottratte ad una visione condivisa. Troppo a lungo è stata tollerata, all’interno dell’Unione, una competizione al ribasso dei regimi fiscali e degli standard sociali. Ma la crisi finanziaria ci ha mostrato che non basta garantire la stabilità dei prezzi e il libero mercato, servono politiche comuni per lo sviluppo, il lavoro e per il welfare, per rimettere al centro le persone, un’idea di uguaglianza e di giustizia.
 
Già oggi molti diritti sono sanciti nei Trattati, ma senza una riforma della governance economica, costruzione dell’Europa sociale resta un miraggio. In particolare nell’Eurozona, dove viviamo veri e propri paradossi: una moneta unica e un differenziale sul costo del denaro e sugli interessi, che alimenta la speculazione e allenta i vincoli di solidarietà. Abbiamo bisogno di condividere vincoli e responsabilità, certo. Ma anche rischi e garanzie sui debiti sovrani. Dobbiamo tenere un tasso sostenibile di inflazione, bene. Ma ridurre il tasso di disoccupazione è la priorità. La BCE, come la Federal Reserve, deve essere prestatore di ultima istanza e avere mandato di perseguire non solo la stabilità dei prezzi ma anche la piena occupazione.
 
Non possiamo più consentire una competizione fondata sulla svalutazione del lavoro. Per tutto questo abbiamo bisogno di una politica comune di investimenti, di armonizzare i sistemi fiscali, della garanzia di standard minimi di tutela e promozione dei diritti sociali. Da questo punto di vista, un’assicurazione europea contro la disoccupazione, un piano per i giovani focalizzato sull’istruzione e il lavoro, misure contro il dumping fiscale per disincentivare le delocalizzazioni opportunistiche tra Paesi membri, l’implementazione del “Piano Prodi” per le infrastrutture sociali, sarebbero i primi mattoni per la ricostruzione di un pilastro sociale già debole e che rischia di sgretolarsi.
 
L’Unione Europea diventerà propriamente politica non solo quando avrà risolto i suoi deficit democratici, ma quando avrà un bilancio degno della sua forza economica e che si basi in prospettiva su risorse proprie, derivate dalle ricchezze che il mercato interno produce più che dai contributi degli Stati membri. Quando completerà il sistema dell’Euro dotandosi degli strumenti necessari per il suo governo, a partire da un bilancio dell’Eurozona per mettere in atto politiche anticicliche e di convergenza. Quando saprà utilizzare tutto il potenziale del suo mercato interno europeo per rafforzare la capacità regolativa di fronte ai colossi finanziari e digitali che sono gli attori principali dell’economia globale, anche al fine di migliorare le possibilità di circolazione del capitale a favore in particolare delle piccole imprese e delle imprese innovative.
 
Serve coraggio e determinazione per la costruzione della dimensione sociale dell’Unione, lo stesso coraggio e la stessa determinazione che devono portare l’Europa a un cambio radicale di passo per una effettiva politica comune sulle migrazioni. La riforma del “sistema di Dublino” non è più rinviabile: deve essere la UE, non i singoli Stati, a concedere la protezione e a garantire ai richiedenti asilo lo stesso trattamento e lo stesso rispetto dei diritti. I confini esterni dei singoli Stati devono diventare il confine unico europeo.
 
Dobbiamo affrontare il tema della sicurezza comune, della difesa comune europea, e di come gli Stati europei possono sviluppare gli strumenti già esistenti e aumentare il peso della nostra azione nel mondo. È soprattutto necessario un salto di qualità nella politica verso il Mediterraneo e l’Africa, nella direzione di un partenariato politico ed economico, di una strategia che sia effettivamente europea e fondata sulla promozione della pace, dello sviluppo, della solidarietà. La cooperazione internazionale è uno strumento di fondamentale importanza, che va rafforzata. L’Italia deve fare la sua parte, portando gli aiuti allo sviluppo allo 0,7% del reddito nazionale lordo entro il 2025.
 
L’Europa attore di pace: per un mondo con meno ingiustizie e conflitti
 
L’Unione Europea è già uno dei più importanti attori globali ed è nel suo insieme l’area economica aggregata più ampia e ricca del mondo. Nessuno Stato membro può ambire da solo a un protagonismo nel mondo globalizzato. La politica commerciale europea è lo strumento essenziale per negoziare con i partner globali affermando allo stesso tempo principi e valori condivisi propri del modello europeo: protezione della salute pubblica e dei beni comuni, standard di qualità, diritti del lavoro e tutela dei consumatori. In un mondo in cui il numero delle potenze globali continua ad aumentare e le istituzioni multilaterali sono sotto attacco, si rischia di tornare a relazioni tra singole nazioni fondate su mere logiche di potere. L’Europa come attore globale deve restare a fianco delle Nazioni Unite nella difesa e nel rilancio delle istituzioni multilaterali e di un ordine mondiale condiviso, fondato sulla pace e su valori e principi comuni. Nelle sedi sovranazionali, dev’essere rappresentata l’Unione.
 
Oggi tornano pericolose spinte all’instabilità geopolitica, economica e finanziaria. Spetta ai progressisti rompere i diversi fattori di incertezza e offrire delle prospettive politiche per un nuovo ordine internazionale e un diverso modello di sviluppo, più equo e sostenibile. Uno sviluppo che abbia al centro delle sue priorità le questioni ambientali e sociali, come dimensioni inseparabili della stessa sfida.
 
Uniti, gli Europei possono far sì che i valori che sono a fondamento della storia comune, quelli dell’umanesimo, siano tutelati nel futuro che è alle porte. Gli Stati Uniti d’Europa non sembrano alle porte, ma la prospettiva di un’Europa integrata politicamente e programmaticamente nelle sue scelte fiscali, di bilancio, sociali, culturali, di ricerca e di innovazione, di difesa e per le infrastrutture strategiche non è più rinviabile. Su questo, bisogna rompere alcuni tabù: dobbiamo riavviare questo percorso di integrazione partendo dal nucleo dei fondatori, dall’Eurozona, con chi ci sta.
 
Non è più rinviabile affermare nei processi di globalizzazione lo spazio di un’Europa più democratica, più giusta, più umana.
 
Ecco il nostro compito, e di un campo rinnovato di tutta la sinistra europea. Non un vago fronte europeista, ma un fronte democratico e progressista rinnovato, in grado di unire tutte le varie espressioni libere, creative e spontanee della sinistra europea, da Tsipras a Podemos agli ecologisti, che hanno una vocazione di governo. Questo campo largo dei progressisti potrà poi allearsi, nel Parlamento europeo con l’insieme delle forze liberali e moderate che si battono per difendere l’Unione e la democrazia dal ritorno della destra nazionalista, contrastando l’involuzione conservatrice dei popolari europei.
 
Quello che ci serve è un fronte progressista in grado di ridare slancio all’unità europea, lavorando insieme ai movimenti e alle forze della società civile e dell’associazionismo che mettono l’Europa al centro della loro azione. In grado di costruire un nuovo linguaggio che sia più forte delle parole d’ordine dei nazionalisti, un linguaggio libero dai miti sovranisti e fondato su un nuovo “contratto sociale” tra l’Europa e i cittadini europei. Appellarsi ad un generico schieramento antisovranista che non fa i conti con la ragione fondamentale delle sconfitte del movimento progressista e democratico in tutta Europa, e in particolare in Italia, significa regalare ulteriori ingenti consensi ai nostri avversari. Di più, sarebbe costruire la nostra proposta su trampoli incerti, ancora una volta distanti dal sentire comune dei democratici e dei progressisti. Il senso di questa sfida e la consapevolezza della necessità di questa grande apertura dovranno guidare la costruzione della nostra proposta politica, anche in Italia, in vista delle elezioni europee.
 
La sinistra oggi più che mai può dirsi tale solo se capace di agire a livello internazionale. E il destino della sinistra è legato a quello dell’Europa. Il senso della lotta per la libertà e la giustizia, che è da sempre la ragione sociale dei progressisti, trova oggi nell’Europa politica un orizzonte imprescindibile.
 

Per una nuova stagione di diritti, di parità, di inclusione

Le scelte in materia di diritti e libertà, non discriminazione, contrasto alla violenza e politiche di genere sono aspetti centrali dell’identità del Partito democratico. I governi a guida Pd su questo terreno hanno compiuto passi in avanti importantissimi, dalla legge sulle unioni civili a quella sul biotestamento. Il nostro campo deve dare voce a chi non ce l’ha: il riconoscimento di identità ed esperienze, in spirito di eguaglianza e solidarietà, deve essere la chiave per alleanze sociali e politiche sui temi che riguardano l’autodeterminazione e la vita di ognuno di noi. Alleanze che vanno costruite a partire dall’ascolto delle realtà associative e delle singole e dei singoli che della tutela dei diritti e dell’eguaglianza hanno fatto quotidiana esperienza di lavoro, di impegno e soprattutto di vita, nell’ottica di una decisa apertura del Partito alle forze vive della società, valorizzando adeguatamente le pratiche di donne e uomini che, in ambiti decisivi come ad esempio il contrasto alla violenza di genere, hanno dato vita a modelli di azione ormai consolidati.
 
Un nuovo femminismo sta attraversando il mondo e il nostro Paese. Dal #metoo alle grandi manifestazioni di Non Una Di meno, nuove generazioni di donne rivendicano autodeterminazione e libertà dalla violenza, opponendosi al machismo delle politiche illiberali e sovraniste. Questo movimento deve trovare ascolto nel Partito democratico, e deve farsi sentire la voce degli uomini.
 
Anche nel nostro Paese assistiamo, in questi mesi, al tentativo di respingere le donne in una condizione di subalternità, di imporre un unico modello di famiglia, di negare le differenti forme di relazioni familiari e genitoriali, di rimettere in discussione la legge 194.
 
Dobbiamo reagire con forza ad attacchi analoghi che stanno interessando molte conquiste faticosamente ottenute, ad esempio le unioni civili, ma anche temi ancora aperti quali il contrasto, culturale e specificamente giuridico, alla violenza omotransfobica, il percorso verso la piena uguaglianza delle persone LGBT+, il riconoscimento dei diritti delle bambine e dei bambini delle famiglie arcobaleno, la protezione dell’identità di genere, la dignità delle persone detenute, o il riconoscimento di fondamentali spazi di autodeterminazione alla fine della vita.
 
La proposta politica del Partito democratico su ciascuno di questi temi deve partire dal progetto di promozione e di liberazione della persona umana della Costituzione: progetto da rinnovare e completare, che si radica nell’intreccio tra libertà ed eguaglianza, dignità solidarietà e giustizia, diritti civili e diritti sociali. Abbiamo bisogno di una proposta limpida e priva di ambiguità. Senza limitare il confronto e la pluralità delle posizioni, è necessario individuare una cornice di valori chiara e condivisa, che segni il perimetro della nostra “casa”. Rispettando ovviamente sempre il diritto alla libertà di coscienza degli individui dobbiamo costruire, per il Partito democratico, una identità aperta, ma forte e coerente, e sulla base di essa un messaggio chiaro e comprensibile. Anche offrendo sedi di discussione su temi come il matrimonio egualitario.
 
A partire dall’irriducibilità di ciascuna persona, diritti sociali e civili si legano indissolubilmente.
 
La globalizzazione non ha assicurato in modo automatico una crescita di diritti e libertà per tutti, anzi abbiamo assistito ad una crescita delle disuguaglianze di ricchezza, di genere anche nel rapporto con le minoranze.
 
In questa prospettiva, è necessario considerare sempre la molteplice dimensione del diritto all’autodeterminazione delle persone: sia sul piano delle interrelazioni tra diversi profili identitari – genere, orientamento sessuale, condizione sociale, nazionalità, colore della pelle, convinzioni religiose, abilità fisica, età – sia sul piano del necessario intreccio tra politiche di riconoscimento di sfere di autodeterminazione individuale, politiche sociali e di welfare, politiche culturali.
 
Vigilare, resistere e lavorare sui diritti significa proporre l’urgenza del riconoscimento di concrete situazioni di vita. Per essere davvero credibili, dobbiamo dare ascolto e voce alle persone che vogliamo rappresentare. Solo così potremo davvero provare a ricostruire una politica condivisa, imparando, di nuovo, ad immergere le mani nei luoghi della vita dove più teso è il conflitto, e più avvertito il dolore.
 
Il contrasto della violenza di genere deve essere una grande priorità del Pd. Dobbiamo accrescere la dotazione di risorse del Piano contro la violenza, potenziare le politiche di prevenzione, aumentare la presenza dei centri antiviolenza e il lavoro di rete nel territorio, rafforzando i percorsi di autonomia, a partire da quella economica e abitativa, delle donne che hanno subito violenza, sostenendo gli orfani delle vittime di femminicidio. Dobbiamo sconfiggere la cultura che produce violenza, educare al rispetto, alla libertà, alla differenza.
 

Il valore della giustizia e della legalità. Contro tutte le mafie

È in atto un attacco alle democrazie liberali. Una delle manifestazioni è l’aperta contestazione a consolidati principi dello Stato di diritto e del giusto processo. L’azione del governo giallo verde si colloca pienamente in questo quadro.
 
Nei primi mesi della legislatura si sono smantellati gli interventi finalizzati alla piena attuazione della Costituzione realizzati dai governi a guida Pd e sono diventati bersagli polemici più o meno espliciti i principi che li ispiravano.
 
Diritto alla riservatezza, alla difesa, monopolio pubblico della forza, principio di non colpevolezza e persino separazione dei poteri sono stati indicati all’opinione pubblica come impedimenti alla realizzazione della volontà popolare. Beni tutelati giuridicamente come sicurezza e buon andamento della pubblica amministrazione sono stati contrapposti alle garanzie.
 
Non sempre, nonostante l’azione legislativa, abbiamo saputo opporci sul terreno culturale a questa offensiva che risale nel tempo e che assume i caratteri di una delle declinazioni del populismo.
 
Il diritto penale è sempre più spesso utilizzato come strumento simbolico di costruzione del consenso, la pena sempre più simile alla vendetta.
 
Dobbiamo opporci a tutto questo ed il programma fondamentale è la Costituzione.
 
Un processo lento è un processo ingiusto ma lo è altrettanto e più un processo sommario. La velocizzazione deve realizzarsi mediante investimenti sulle tecnologie, la specializzazione e la formazione dei magistrati e al contempo semplificando il processo senza comprimere le garanzie.
 
Gli investimenti sulle tecnologie, la formazione e la specializzazione oltre al proseguimento dell’azione di riduzione e semplificazione normativa, unita ad un incremento degli strumenti stragiudiziali, sono gli elementi per compiere ulteriori passi avanti nel miglioramento delle performances del processo civile, un settore fondamentale per la competitività del paese e per la tutela di diritto essenziali per gli individui, la famiglia, la società.
 
La garanzia per i cittadini di pieno godimento dei propri diritti è la legalità. La nostra concezione di sicurezza si basa sull’affermazione della cultura del rispetto delle regole, sulla prevenzione e sulla partecipazione attiva dei cittadini. È un approccio radicalmente alternativo rispetto alle politiche della destra, che strumentalizzano la domanda di sicurezza alimentando la paura, il rancore sociale e i conflitti tra gli ultimi e i penultimi.
 
La lotta alla criminalità diffusa, alla criminalità organizzata e al terrorismo deve basarsi non solo sulla necessaria azione repressiva da parte delle Forze dell’ordine – a cui dobbiamo fiducia e gratitudine – ma anche su un processo culturale, civico e sociale che vada a sradicare alla base il substrato su cui poggiano questi fenomeni.
 
Lo Stato deve svolgere il suo compito anche attraverso la creazione di opportunità di sviluppo, lavoro ed emancipazione nelle aree maggiormente interessate da questi fenomeni.
 
Tuttavia, è anche dai cittadini che deve scaturire il desiderio di riconquistare la sicurezza, a partire dalle situazioni di degrado nelle zone urbane e periferiche, spesso luoghi di maturazione di disagi e conflitti sociali dove il desiderio di sicurezza si fa più impellente.
 
La lotta alle mafie è una priorità assoluta. Rifiutiamo con forza l’idea di una loro invincibilità. La strategia di contrasto deve concentrarsi sulle aree di “vulnerabilità” del sistema, nei diversi ambiti della vita economica, sociale e istituzionale, attraverso una “straordinaria ordinarietà” dell’azione pubblica nella promozione e nella difesa degli interessi collettivi. Le mafie si rigenerano costantemente nella crisi della democrazia. La sfida è di ridurre e chiudere i “varchi” nella vita istituzionale, economica e sociale attraverso cui le mafie si espandono al sud come al centro nord.
 
Se la mafia è un fenomeno di classi dirigenti, come ci ha insegnato Pio La Torre, anche la lotta alla mafia non può fare a meno di classi dirigenti forti, autorevoli, impegnati su questo fronte.
 
Sicurezza è difendere il principio di un’Italia accogliente nei confronti di chi fugge da guerre, fame e persecuzioni, così come garantito dai principi fondamentali della Costituzione, esigendo da chi giunge nel nostro Paese il pieno rispetto delle nostre regole di convivenza e di legalità.
 
L’Unione Europea è il luogo nel quale molti di questi problemi vanno affrontati, perché le politiche di sicurezza sono chiamate a rispondere a minacce globali assumendo una dimensione sovranazionale.
 
La domanda di sicurezza, che in passato era riservata allo Stato, oggi coinvolge sempre più le amministrazioni comunali. Ai sindaci viene richiesta una sicurezza di prossimità, capace di affrontare con efficacia non solo le questioni di “sicurezza percepita”, ma anche i fenomeni di degrado urbano e i problemi di convivenza civile e sociale. Dobbiamo metterli in condizione di agire, attraverso un sistema unitario e integrato di sicurezza per le comunità locali.
 

Un’agenda progressista per il governo dell’immigrazione

Il perdurare della crisi economica ha peggiorato il rapporto tra i cittadini e gli immigrati in tutte le società occidentali. Anche in Europa è cresciuta la paura, l’intolleranza, la xenofobia. È aumentata la percezione della concorrenza tra europei ed immigrati nell’accesso a risorse scarse: il lavoro, i servizi sociali e sanitari, la casa, gli spazi pubblici. Sempre di più il tema delle politiche di sicurezza ha assorbito il dibattito sull’immigrazione. Tutte le misure tese a governare le migrazioni, anche se di diverso segno tra i governi conservatori e quelli progressisti, sono state ritenute inefficaci e in molti paesi non più accettate dalla maggioranza dei cittadini. In questo contesto hanno guadagnato un vasto consenso le forze politiche che hanno fomentato le paure e attribuito la causa delle insicurezze sociali agli immigrati. I teorici della chiusura totale delle frontiere e della negazione di diritti fondamentali agli immigrati hanno conquistato larga parte dell’opinione pubblica. Persino tesi apertamente razziste e discriminatorie hanno avuto titolarità a stare nella discussione pubblica. Oggi alcune di quelle forze politiche sono al governo o comunque esprimono rilevanti rappresentanze parlamentari.
 
L’Italia con il governo ‘’gialloverdÈ’ è diventato il primo grande paese governato dai sovranisti, un governo apertamente ostile sia all’ingresso di nuovi immigrati sul territorio nazionale che al riconoscimento di qualsiasi diritto per quelli già presenti.
 
Noi non possiamo essere silenti e far finta che il problema dell’immigrazione si governi da solo. Dalla capacità di proporre dall’opposizione una offensiva politica e culturale e di offrire risposte credibili in materia di governo dell’immigrazione si decide non solo il futuro elettorale delle forze progressiste nel nostro paese, ma anche il livello di coesione sociale e il grado di civiltà della nostra società. Questa è la sfida che abbiamo di fronte.
 
Le prime misure del governo Lega-5 Stelle vanno contro il nostro interesse nazionale e sono destinate a peggiorare la capacità di governare il fenomeno migratorio.
 
La gestione di una finta emergenza sbarchi nell’estate scorsa, la disastrosa trattativa con l’Europa su una più equa e solidale distribuzione nei paesi membri dei richiedenti asilo e rifugiati, fino alla annunciata volontà di non firmare l’accordo sul Global Compact for Migration mettono un paese di primo approdo come l’Italia nella condizione di dover gestire in solitudine, più di quanto non sia accaduto in questi anni, il problema dei flussi migratori dell’Africa e dal Medioriente verso l’Europa.
 
Il dibattito sulla riforma del sistema Dublino non è più all’ordine del giorno delle istituzioni europee e i paesi del gruppo di Visegrad, alleati della Lega, si guardano bene dal favorire qualsiasi ipotesi di ripartizione dei costi o delle presenze di richiedenti asilo o rifugiati. Le incertezze sulla collocazione in politica estera del governo italiano allontano poi ogni ipotesi di un Piano europeo per la cooperazione internazionale con l’Africa e per il rafforzamento degli strumenti comuni per il controllo delle frontiere.
 
Il tanto sbandierato Decreto Sicurezza, oltre alla palese violazione di alcuni diritti fondamentali delle persone, smantella un sistema di accoglienza diffusa e volontaria che ha costituito un modello in tutta Europa come lo SPRAR. L’abolizione dell’istituto della protezione umanitaria è destinata a produrre una nuova sacca di irregolarità e ad alimentare ulteriormente le tensioni ed i conflitti.
 
Abbiamo il compito di indicare una strada alternativa senza subalternità culturali di sorta, rifiutando di ridurre la discussione pubblica sull’ immigrazione al tema della chiusura delle frontiere e della insostenibilità delle politiche di accoglienza. Occorre perciò individuare una agenda credibile in materia di gestione dei flussi di ingresso e della regolamentazione della presenza straniera nel Paese.
 
Occorre rafforzare gli attuali strumenti di cooperazione internazionale ed interregionale in materia di governo dei flussi: l’adesione al Global Compact for Migration è strategica in questo senso. Va dato poi un nuovo impulso alle politiche ed alla legislazione comunitaria. L’Italia ha solo da perdere nel perseguire una politica isolazionista per quanto riguarda il controllo delle frontiere e la possibile ripartizione delle presenze di richiedenti asilo all’interno dei paesi dell’Unione. Di conseguenza dobbiamo farci promotori non di una semplice riforma del sistema di Dublino bensì di un nuovo patto europeo sull’asilo finalizzato ad equilibrare gli sforzi tra i Paesi più esposti alla pressione migratoria sulle frontiere esterne. La UE deve riconoscere che chi accede in Italia per chiedere asilo e protezione entra in Europa.
 
Il fenomeno degli arrivi forzati proseguirà nei prossimi anni soprattutto a causa della crescita demografica e dei cambiamenti climatici. Di conseguenza, rafforzare la cooperazione con i paesi terzi, a partire da quelli dell’Africa sub-sahariana, per governare gli eventuali flussi di ingresso è una priorità. Ciò significa innanzitutto pensare a potenziare lo strumento dei “corridoi umanitari” per l’ingresso legale di profughi e richiedenti asilo e riaprire i canali di immigrazione regolari per chi cerca lavoro. L’attivazione dei canali di ingresso regolari rappresenterebbe un colpo durissimo nei confronti della criminalità organizzata che gestisce l’immigrazione illegale, ridurrebbe i morti nel Mediterraneo ed eviterebbe i rischi di snaturare l’istituto dell’asilo, considerato che la stragrande maggioranza dei neoarrivati presenta la domanda di protezione quale unico modo per tentare l’ingresso in Europa. Sul tema della gestione in Italia della protezione internazionale e dei minori non accompagnati va ribadito che la strada sperimentata da ormai quasi venti anni con l’accoglienza su base volontaria dei comuni è senza alternative. Senza un ruolo attivo delle regioni, degli enti locali, del privato sociale e delle ONG non è possibile organizzare alcuna accoglienza e prevenire le fin troppo frequenti situazioni di emarginazione sociale che si manifestano dopo il periodo di prima accoglienza.
 
Tuttavia, il PD non può limitarsi ad offrire proposte solo in relazione alla governance dei flussi dei migranti forzati e al controllo delle frontiere. In Italia vivono 5 milioni di immigrati regolari (pari all’8,4% della popolazione residente, per un totale di ben 198 nazionalità presenti). Negli ultimi dieci anni oltre un milione di stranieri ha acquisito la cittadinanza italiana (50). Sono 2,4 milioni i lavoratori stranieri (il 10,5% del totale) che contribuiscono al gettito fiscale e previdenziale e producono l’8,7% del PIL51. Non è pensabile che passi l’idea, propugnata dalla Lega nel silenzio colpevole dei 5 Stelle, che chi vive con noi, chi contribuisce al nostro sviluppo e alla nostra ricchezza, chi assiste i nostri anziani, chi ha figli che vanno nelle nostre scuole sia considerato invisibile nella nostra società, per la politica e le istituzioni.
 
La sinistra deve promuovere una grande discussione pubblica sul come vogliamo far vivere insieme italiani e immigrati. Falliti o messi in discussione i modelli di integrazione assimilazionista di ispirazione francese e multiculturalista di origine anglosassone, abbandonato dalla stessa Germania il modello del lavoratore ospite e temporaneo che ha ispirato la Legge Bossi Fini, oggi l’Italia ha la necessita di indicare quale modello di convivenza e di integrazione della presenza straniera intende perseguire.
 
Sul piano legislativo serve quindi una nuova Legge Quadro sull’immigrazione che superi la Legge Bossi Fini. Una legge che deve essere pienamente integrata nel quadro normativo dell’Unione Europea e basata su tre pilastri fondamentali:

  1. l’abolizione del reato di immigrazione clandestina, uno strumento che ha intasato tribunali e carceri e che poco ha prodotto nel contrasto all’immigrazione irregolare. Al contrario, bisogna incentivare i rimpatri volontari assistiti, come altri paesi europei stanno facendo da anni, e dare più efficacia ai provvedimenti di rimpatrio coatto per via amministrativa;
  2. l’apertura dei canali di ingresso legali: occorre una programmazione dei flussi migratori con quote annuali, permessi di soggiorno temporanei per ricerca lavoro, reintroduzione della chiamata diretta dall’estero con il cosiddetto meccanismo dello sponsor;
  3. le politiche per l’Integrazione: serve un Piano Nazionale per la Coesione e l’Integrazione che dia un quadro organico alle politiche per la scuola, la tutela della salute, l’apprendimento dell’italiano, le politiche per la casa e quelle per la mediazione culturale.

 
Il PD deve tornare a battersi, con maggiore forza di quanto non sia successo negli ultimi anni, per l’approvazione di una nuova legge sulla cittadinanza basata sullo ius soli e ius culturae. Occorre anche rivedere il procedimento di naturalizzazione, superando la logica concessoria e la discrezionalità amministrativa. Inoltre dobbiamo riconoscere pienamente e tutelare la libertà religiosa, in un quadro di rigoroso rispetto della laicità dello Stato in un regime di pluralismo confessionale e culturale. È di vitale interesse del nostro Paese accompagnare e favorire la nascita di un Islam italiano nel pieno e rigoroso rispetto dei principi della Carta Costituzionale sviluppando forme di collaborazione con le associazioni dei musulmani nell’azione di contrasto a ogni forma di radicalismo religioso.
 
Infine, è tempo di riconoscere il diritto di voto amministrativo per i lungo residenti, un passo necessario verso una cittadinanza piena fatta di corresponsabilità e partecipazione.
 
Nel nostro paese ci sono tante persone, spesso non organizzate, che guardano al futuro del paese e dei loro figli e dicono no alla politica della paura e della separazione fra italiani e immigrati, che costruiscono ogni giorno incontro, convivenza, coesione. Da loro il PD deve ripartire per cambiare.
 

La scuola e il sapere al centro dell’agenda politica

Contro ogni forma di oscurantismo e regressione culturale, dobbiamo riportare la scuola e il sapere al centro dell’agenda politica.
 
La scuola deve tornare ad essere uno straordinario presidio sociale, la principale arma contro le disuguaglianze, capace di offrire ai bambini e ai ragazzi non solo una possibilità di crescita, ma di riscatto, in un tempo in cui le eredità familiari e geografiche segnano ancora i destini delle persone.
 
Il PD deve impegnarsi per una scuola che sappia affrontare le sfide sociali e democratiche, che riesca a trasformare la diversità in risorsa, la marginalità in inclusione, che educhi alla sostenibilità e all’innovazione, che riporti il sistema formativo ad avere nell’opinione pubblica il ruolo che gli spetta.
 
Ma la scuola non può essere trasformata “dall’alto”: è un universo complesso in un’Italia complessa.
 
Uno degli strumenti chiave per governare questa complessità resta l’autonomia, alla quale va affiancato un sistema di monitoraggio efficace, che renda replicabili le tante esperienze positive che oggi il sistema scolastico offre. Dagli investimenti per l’edilizia scolastica al piano di assunzione fino all’alternanza scuola-lavoro, il PD dal governo ha investito nella scuola. Ma gli errori compiuti sulla legge 107 (cd. “Buona Scuola”) hanno prodotto una frattura con il mondo della scuola che noi vogliamo sanare.
 
La conoscenza è la più importante materia prima nel XXI secolo. Per questo, è necessaria una nuova stagione di investimenti strategici in istruzione e formazione. Occorre reclutare e formare una nuova leva di docenti che sappiano accompagnare e motivare le future generazioni alle sfide che hanno di fronte. I docenti italiani hanno stipendi tra i più bassi d’Europa: dobbiamo pagarli meglio e migliorare il loro status. Abbiamo bisogno di un maggiore investimento nelle lingue straniere e nell’istruzione tecnico/scientifica, fondamentale nella quarta rivoluzione industriale. Bisogna aumentare le risorse ordinarie alle scuole. Rendere davvero efficace e utile l’alternanza scuolalavoro.
 
Dobbiamo valorizzare le eccellenze ma garantire un’offerta di servizi di qualità per la prima infanzia, di scuola di base a tempo pieno e di una formazione professionale di qualità, in particolare nelle aree di massima concentrazione della povertà educativa e della dispersione scolastica. Occorre proseguire con il programma di investimenti nell’edilizia scolastica, riservando a questo scopo il 10% dei fondi pluriennali per gli investimenti pubblici Investire sulla scuola significa piantare i semi di una società più inclusiva e tollerante, di uno sviluppo più durevole e sostenibile, di una democrazia meno afflitta dalle disuguaglianze e dal risentimento.
 
L’Italia deve valorizzare il capitale umano, soprattutto delle nuove generazioni, investendo in alta formazione e ricerca, retribuendo adeguatamente le alte professionalità e rafforzando le sinergie tra istruzione, formazione e lavoro. Non abbiamo troppi laureati, come crede qualcuno. Ne abbiamo meno degli altri paesi europei, e soprattutto molti meno di quanti ne servano (52). Occorre quindi investire nel diritto allo Studio, incrementando il Fondo Integrativo Statale, aumentando la residenzialità studentesca, e garantendo finalmente la copertura totale di tutti gli studenti idonei.
 
Norme più semplici sono cruciali per valorizzare l’autonomia responsabile degli atenei e degli enti di ricerca.
 
La rigenerazione del sistema universitario passa attraverso alcune scelte, tra cui il superamento del precariato dei ricercatori, che scoraggia l’attività di ricerca e non promuove la qualità della didattica; lo svecchiamento del sistema di abilitazione scientifica nazionale per i professori; l’offerta di percorsi di formazione più adeguati alle richieste di un mondo del lavoro sempre più dinamico e globale.
 
L’Italia ha bisogno di fare finalmente crescere l’investimento nella ricerca di qualità, interdisciplinare, di respiro internazionale, che sia capace di generare innovazione imprenditoriale e sviluppo sociale.
 
Il sapere, l’arte, la cultura sono beni pubblici. Dopo un lungo periodo di disinteresse e tagli, i beni culturali hanno riconquistato centralità. Oggi è necessaria una fase di consolidamento delle riforme.
 
Nel campo della tutela bisognerebbe favorire sempre più misure attive, basate su una profonda e capillare conoscenza, sulla pianificazione territoriale e urbanistica, sulla prevenzione, sulla manutenzione programmata.
 
Lo straordinario patrimonio storico e culturale e il rinnovato interesse per le humanities pongono l’Italia in una condizione di vantaggio che dobbiamo ancora cogliere appieno, se si pensa alle potenzialità ancora inespresse dell’economia culturale e creativa, soprattutto nel Mezzogiorno. Per la valorizzazione del patrimonio culturale, andrebbero sperimentate nuove formule anche nella gestione, facendo leva in particolare sul terzo settore, che in questo campo può svolgere un ruolo straordinariamente importante.
 
Il patrimonio culturale deve essere uno strumento di crescita culturale e sociale ma può anche diventare un’occasione di lavoro qualificato e di sviluppo sostenibile. A oltre 4 anni dalla legge 110 del 2014, si attende ancora il decreto per definire le professioni dei beni culturali e valorizzare le tante competenze oggi prive di garanzie e di diritti. Un riordino è necessario anche nei percorsi formativi universitari nel campo del patrimonio culturale.
 
Servirebbe, infine, la promozione di un’alleanza tra patrimonio culturale e cittadini, superando definitivamente una concezione elitaria e proprietaria. Il patrimonio culturale deve essere sentito come proprio dai cittadini, con un’azione forte di educazione e di diffusione di conoscenza, consapevolezza e inclusione. Bisogna lavorare per costruire ‘comunità di patrimonio’. La partecipazione non può essere più intesa solo come fruizione o come un mero trasferimento di conoscenze ma deve tradursi nel coinvolgimento di cittadini nei processi decisionali, fin dalle fasi iniziali di un progetto culturale.
 
Lo sport ha un grande valore educativo e sociale. Può contribuire a cambiare il mondo in meglio, perché parla un linguaggio universale, quello delle emozioni, come l’arte o la musica. Dovrebbe essere riconosciuto come un fatto culturale. Bisogna favorire la pratica sportiva, sostenere fiscalmente l’associazionismo, investire sull’impiantistica.
 

Rafforzare la democrazia, le istituzioni, la pubblica amministrazione

Le democrazie liberali dell’Occidente sono in affanno, dappertutto avanzano nuovi autoritarismi, persino dove la democrazia aveva le sue radici più antiche. È un momento storico difficile, che chiama a raccolta tutti coloro che credono che la democrazia sia ancora la modalità migliore per organizzare la convivenza nelle nostre società. Le persone vanno sempre meno a votare, si allontanano dai partiti, diversi sono i segnali di sfiducia nei confronti delle istituzioni rappresentative e democratiche, degli organismi indipendenti. Ma non bisogna rassegnarsi, avere un atteggiamento rinunciatario. Perché la storia ci sorprende e i cittadini e le cittadine anche oggi si mostrano capaci di grandi mobilitazioni, di azioni concrete per il bene pubblico, magari su singoli temi e grandi questioni.
 
Rianimare la democrazia è la nostra sfida. E deve avere un obiettivo: ridare potere alle persone.
 
Nuovi strumenti di comunicazione stanno mostrando tutti i loro limiti e paradossi: invece di mantenere la promessa di un mondo più orizzontale e plurale, stanno aumentando le concentrazioni di ricchezza e di potere. La sfida è organizzare la democrazia nell’era dell’algoritmo, dei social network, delle fake news. Dobbiamo coltivare un’ambizione alta: proporre una costituzione che delinei i diritti, i doveri, i limiti e i compromessi necessari alla convivenza civile nella piazza digitale, sono i primi passi poter trasformare l’attuale oligarchia digitale in una vera democrazia. Concetti essenziali come quello della partecipazione non posso essere assimilati a un diritto di parola che per qualcuno si trasforma in diritto di diffamazione o nelle mani di altri in strumento di manipolazione delle opinioni.
 
In questo contesto difficile è quanto mai necessario difendere la libertà di stampa e il pluralismo delle voci garantiti dall’articolo 21 della Costituzione. Un principio di fondo va riaffermato con forza: il giornalismo serve ai cittadini e alla democrazia, non ai governi e ai poteri. Per rafforzare il diritto di cronaca, bisogna scoraggiare per legge il fenomeno delle querele temerarie e mettere i giornalisti al riparo da ogni forma di intimidazione.
 
I partiti giocavano un tempo un ruolo decisivo di intermediazione, oggi si trovano di fronte all’interrogativo su quali nuove modalità devono utilizzare per tornare a esercitare una funzione. Non ci sono ricette pronte e per questo servono momenti di riflessione condivisa alla ricerca di possibili vie da percorrere e da sperimentare.
 
Occorre riprendere le mosse dal concetto di bene pubblico, di società, di comunità. Recuperare i valori fondanti delle democrazie, ridare ad essi corpo e anima. Dobbiamo ripartire da un’educazione alla democrazia. I giovani non sono solo quelli a cui consegneremo un futuro che disegniamo oggi ma sono fin da subito una risorsa per definirlo assieme, quel futuro. E per farlo devono possedere gli strumenti adeguati per leggere la realtà, formarsi delle opinioni, imparare ad esprimerle in confronti che siano corretti e finalizzati a quel bene comune senza il quale è difficile anche immaginare il bene dell’individuo.
 
Ovviamente c’è una grande responsabilità nelle mani di chi quelle decisioni governa, a qualsiasi livello politico e amministrativo. Nessuno è più disposto a consegnare una delega in bianco ai decisori pubblici. Non è una tendenza necessariamente negativa, anzi deve essere uno stimolo. I problemi che affrontiamo non sono solo complessi, ma in continuo mutamento ed occorre essere aperti, ascoltare, creare le basi per un dialogo che oggi è sempre più difficile.
 
La democrazia non si esaurisce nel voto, anzi. La maturità delle nostre democrazie e il loro futuro si misureranno su questo, su quanto sapranno ritrovare un canale di comunicazione e partecipazione tra amministratori e cittadini Dobbiamo essere esperti di “relazioni” prima ancora che di “politiche”, perché le politiche migliori si co-decidono e si attuano assieme. Solo così si potrà vere una base di consenso reale quando le scelte diventano decisioni, quando dalla politica si passa all’amministrare.
 
La sempre maggiore complessità delle politiche pubbliche e del ruolo stesso delle istituzioni pone al centro dell’attenzione politica il tema della qualità e dell’efficacia dei processi decisionali e, con esso, quello della democrazia partecipativa e degli strumenti più idonei a conseguirla. Lo Stato, le Regioni, le autonomie locali, non dispongono più di tutte le leve necessarie ad assumere decisioni, non solo perché la dimensione dei problemi e delle sfide spesso li sovrasta, ma per l’incapacità di coinvolgere – anche emotivamente – i cittadini della vita pubblica, ricevendo da questo una forma di legittimazione sostanziale.
 
Da tempo si discute della necessità di rispondere alla crisi della democrazia rappresentativa con elementi di democrazia partecipativa o deliberativa. Troppo tardi e troppo debolmente si sono introdotti nel nostro ordinamento strumenti già sperimentate in vari ordinamenti europei, come il debàt public francese, che da materie ambientali si è via via esteso a diversi casi di decisioni di prossimità. È tempo di un investimento politico e istituzionale sulla democrazia partecipativa, per rafforzare l’impianto di una democrazia rappresentativa che è minacciata da chi, ora da posizioni di governo, parla a vanvera di democrazia diretta e teorizza il superamento delle assemblee parlamentari. L’evoluzione delle tecnologie digitali potrebbe offrire strumenti nuovi ed efficaci per la partecipazione organizzata dei cittadini, a patto di non farne un’ideologia, che alimenta l’equivoco della democrazia diretta nello spazio virtuale, spesso fuori da meccanismi accreditati di pubblicità trasparenza e controllo.
 
Un’altra forma virtuosa di superamento dei limiti di una democrazia rappresentativa in crisi di consenso e di istituzioni indebolite, è quella di sviluppare forme organizzate e virtuose di collaborazione pubblico-privato, nella logica della sussidiarietà c.d. orizzontale. Occorre pensare a nuovi strumenti per riattivare i canali di partecipazione politica, e di potenziare strumenti vecchi che tuttavia sembra tornare ad assumere un ruolo decisivo, come i referendum (si pensi alla Brexit o al referendum costituzionale del 4 dicembre 2016), accompagnandoli con processi di partecipazione consapevole, garantendo libertà di espressione e piena possibilità di informazione sul merito delle questioni poste.
 
Rianimare la democrazia e le sue istituzioni, ridare potere alle persone, ricreare un ampio e vivace spazio civico, non può prescindere tuttavia da un’opera di profondo rinnovamento della pubblica amministrazione. La pubblica amministrazione è un volano indispensabile per lo sviluppo ma è anche lo strumento per una giusta erogazione di servizi e il presidio per l’esercizio dei diritti da parte dei cittadini. Negli anni scorsi è stata approvata e avviata una importante riforma che deve essere attuata fino in fondo, misurandone gli effetti concreti. Ma occorre fare un salto in più, investendo su cinque versanti.
 
Il primo riguarda il reclutamento. La nostra P.A. ha bisogno di giovani, di nuove professionalità e di intelligenze innovative. Dobbiamo tornare ad avere assunzioni regolari, assicurando un ricambio generazionale continuo. Al contempo, occorre completare il percorso di assunzione dei precari storici che hanno superato concorsi e hanno il diritto all’assunzione, soprattutto in settori estremamente critici come quello della ricerca pubblica.
 
Il secondo versante riguarda la formazione. Occorre investire in un grande piano di riqualificazione del personale. Serve un percorso di valutazione delle competenze a cui segua un piano straordinario di riqualificazione delle professionalità che già operano nella PA. L’aggiornamento professionale può rappresentare il vero salto di qualità delle nostre amministrazioni.
 
Il terzo versante riguarda l’innovazione digitale. Nella scorsa legislatura i governi a guida Pd hanno avviato la costruzione di grandi piattaforme, dalla fatturazione elettronica a pagoPA, dall’identità digitale unica all’anagrafe unificata di tutti i comuni italiani. I grandi progetti nazionali però faticano a decollare. Occorre quindi investire risorse per ammodernare completamente gli strumenti digitali a diposizione delle amministrazioni. La prospettiva a cui dobbiamo puntare entro cinque anni è l’interazione cittadino P.A. principalmente attraverso smartphone e computer.
 
Il quarto pilastro riguarda la trasparenza e l’Open Government. Dopo anni di ritardi, l’Italia era riuscita a imprimere una spinta significativa sulle procedure di trasparenza e di partecipazione.
 
L’attuale Governo sembra volere tornare indietro. Le novità da poco introdotte, a cominciare dal Freedom information Act e l’agenda trasparente dei decisori pubblici, vanno mantenute. L’Open Government deve diventare un progetto nazionale stabile e strutturato. La trasparenza assoluta sull’utilizzo delle risorse pubbliche deve diventare la regola, così come il coinvolgimento dei cittadini nella costruzione condivisa delle scelte che impattano sulla vita quotidiana delle persone.
 
Il quinto pilastro riguarda la misurazione dell’efficacia delle politiche pubbliche, che deve diventare il compito principale del Ministero della funzione pubblica. Attraverso il coinvolgimento di altre istituzioni pubbliche, come Università e centri ricerca, è possibile costruire un modello che imponga al decisore politico di compiere scelte sulla base di dati certi e di modificare eventualmente le politiche pubbliche a valle di una reale misurazione e verifica dei risultati.
 

Una nuova stagione per le istituzioni e le comunità locali.

Le autonomie territoriali rappresentano la spina dorsale del sistema pubblico italiano e i primi interlocutori dei cittadini. Negli ultimi anni sono state investite da una profonda crisi finanziaria e politica, che ha accompagnato e, per certi versi, determinato un’altrettanta problematica stasi nel percorso di riforma in senso federalista avviato con la revisione costituzionale del 2001. Le politiche di austerità si sono tradotte in drastici tagli ai trasferimenti statali e nel sostanziale blocco dell’autonomia finanziaria degli enti territoriali. I sindaci, di fatto, sono stati lasciati soli di fronte alle drammatiche ricadute sociali della recessione, senza le risorse necessarie per reggere l’urto della disgregazione sociale e delle tendenze populiste.
 
I governi a guida Pd hanno posto fine alla stagione dei tagli ma il sistema delle autonomie continua a soffrirne le conseguenze. Il conformismo centralista ha creato un vuoto d’identità oggi sempre più difficile da recuperare e una claudicante capacità di risposta ai bisogni primari dei cittadini.
 
Per questo, oggi è tempo di un nuovo grande investimento di fiducia. Dare fiducia agli enti locali.
 
Investire nelle città. Ricucire le fratture tra centro e periferie.
 
L’autonomismo e il riformismo municipale sono matrici storiche del centrosinistra italiano.
 
Per questo, oggi dobbiamo rimettere al centro dell’agenda politica una riflessione complessiva sul ruolo che gli enti territoriali devono assumere, per rispondere a problemi che sono allo stesso tempo globali e locali. È necessario affermare una nuova consapevolezza e responsabilità condivisa tra classe politica e amministrativa per riacquistare autorevolezza, capacità di incidere positivamente e superare la forte disaffezione dei cittadini nei riguardi delle istituzioni e di chi le rappresenta.
 
È ora di superare la logica ipercentralista dei tagli lineari, recuperando in capo alle istituzioni territoriali l’autonomia impositiva e la responsabilità dell’amministrare. Bisogna investire e porre grande attenzione alle dinamiche territoriali ed alla virtuosità dei comportamenti. Le città e i territori devono essere il luogo delle idee nuove, dell’alleanza fra politica e scienza, della sintesi fra culture, della creatività, della partecipazione. Per affrontare le nuove sfide, serve un vero ricambio generazionale, che richiede formazione mirata e guidata.
 
Dopo una lunga fase di stasi, una serie di Regioni hanno avviato percorsi di richiesta di autonomia differenziata, prevista dal terzo comma dell’articolo 116 della Costituzione, con l’obiettivo di riaffermare il ruolo, le potenzialità e le specificità dei sistemi territoriali. Il rafforzamento delle competenze regionali dovrà riguardare solo specifiche funzioni e dovrà avvenire nel pieno rispetto dei principi costituzionali, conciliando la legittima aspirazione di gestire in autonomia alcune politiche pubbliche con il dovere di garantire uno sviluppo armonico e solidale dell’intero Paese.
 
È giunto il momento di una revisione complessiva del Testo unico degli enti locali, con l’obiettivo di stabilizzare l’assetto istituzionale e finanziario dei comuni, delle città metropolitane e delle province (superando i limiti della legge 56 del 2014) nel rispetto dei principi costituzionali di autonomia, responsabilità e solidarietà.
 
È necessaria una nuova spinta alla realizzazione di dinamiche di collaborazione inter istituzionale virtuose, attraverso la divulgazione di buone pratiche, l’unificazione di procedimenti amministrativi, la semplificazione delle relazioni e degli accessi ai servizi da parte dei cittadini. Vanno snellite e semplificate le procedure, gli adempimenti e i vincoli a carico degli enti, a partire da quelli riguardanti la gestione del personale.
 
L’autonomia finanziaria locale va pienamente ripristinata. La fiscalità dei comuni e degli enti di area vasta va riorganizzata e razionalizzata. La spesa pubblica locale va riqualificata e non ridotta, rimuovendo sprechi e inefficienze, a cominciare dalla riduzione dei centri di spesa e dall’eliminazione di sovrapposizioni in molti settori, per rinnovare le strutture, per migliorare i processi gestionali, per favorire la crescita inclusiva. Gli investimenti negli ultimi dieci anni sono crollati. Il superamento del patto di stabilità (abolito dai governi Pd) e dei residui vincoli (per effetto di due sentenze della Corte costituzionale) ha riaperto spazi importanti. Cruciale, però, è la semplificazione delle procedure (Codice degli appalti) e il rilancio della capacità progettuale, indebolita da anni di blocco del turnover.
 
La disciplina della gestione associata obbligatoria delle funzioni fondamentali va profondamente rivista, abolendo limiti demografici e coinvolgendo dall’inizio i comuni, le città metropolitane e le province in un procedimento partecipato nella definizione degli ambiti per l’esercizio associato delle funzioni comunali. In questo processo è necessario prevedere che dal basso possano nascere esperienze che mirino anche alla successiva fusione tra comuni, da accompagnare e sostenere anche rafforzando gli incentivi attualmente previsti.
 

Una fase costituente per il partito del XXI secolo

Come già detto, il Partito democratico è in crisi non solo come soggetto politico, ma anche come comunità organizzata. Molti circoli sono inattivi o ridotti a comitati elettorali di questo o quel capobastone. Alcune federazioni sono chiuse. Il ruolo degli iscritti e dei militanti è stato via via ridimensionato e il tesseramento si è rarefatto o inquinato da pacchetti di tessere. Le risorse economiche sono ai minimi termini: il finanziamento pubblico della politica è stato abolito senza essere sostituito da un sistema di fundraising efficace e trasparente. Le strutture dipendono a tutti i livelli dai contributi degli eletti, in una identificazione sempre più viziosa tra partito e istituzioni.
 
Su questo il fallimento del gruppo dirigente del Pd è stato totale.
 
Eppure, il PD ha al proprio interno tutte le risorse per rimettersi in movimento. Non mancano, fortunatamente, realtà dinamiche e vivaci, capaci di riconnettersi sentimentalmente con le comunità locali e di costruire percorsi innovativi di partecipazione e rappresentanza. Da queste bisogna ripartire.
 
Il modello organizzativo del PD va totalmente riformato, adeguando le regole statutarie ad una stagione di profondi cambiamenti della società, del sistema politico, del livello e delle forme di partecipazione dei cittadini.
 
La fine dell’assetto bipolare del sistema politico italiano rende oggettivamente superato l’impianto maggioritario dello Statuto nazionale del PD. Va perciò superata l’identificazione, sancita dall’articolo 3 dello Statuto, tra il ruolo di segretario nazionale del Partito e quello di candidato presidente del Consiglio9. Una grande conferenza nazionale sulla forma partito può essere il luogo dove discutere e condividere la revisione dello Statuto nazionale e del Codice etico del Pd ma soprattutto lanciare la sfida di una vera è propria “fase costituente” per la riforma del Pd.
 
Il nostro punto di riferimento è l’articolo 49 della Costituzione (“Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorre, con metodo democratico, a determinare la politica nazionale”), che va attuato in un contesto in rapida e profonda mutazione come quello attuale. La sfida è riconnettere la forma partito della “comunità democratica” con le forme molteplici e, per molti versi, inedite con i quali i cittadini vivono il rapporto con la politica. Dovremo riorganizzare tutto. Ripensare anche i luoghi della partecipazione. Non è detto che a un nucleo di base debba corrispondere un luogo fisico. In un momento di seria difficoltà economica del partito potremmo anche trasformare un problema in una opportunità e convocare incontri degli aderenti in sedi diverse dalla sede che spesso non esiste più, ma presso associazioni, circoli, o scuole o sedi pubbliche promuovendo iniziative di confronto di dibattito ma anche decisionali come iniziative proiettate all’esterno. Questo renderebbe anche più libera la diffusione di questi “luoghi” limitando i costi e quindi favorendo la libertà di associarsi.
 
Dovremo ripensare il ruolo dei Circoli per investire sulla loro funzione, sperimentando nuove forme di partecipazione anche su progettualità di valenza nazionale o territoriale o tematiche specifiche, rilanciando i circoli online, favorendo gli scambi di buone pratiche politiche, organizzative e di autofinanziamento attraverso una piattaforma nazionale dedicata. Ma soprattutto nel nuovo Pd dovranno contare le persone superando le troppe intercapedini burocratiche che di fatto trasformano l’individuo la sua ricchezza la sua individualità nel numero di un gruppo da contare per le elezioni.
 
Organizzeremo dunque consultazioni periodiche degli iscritti sugli indirizzi strategici politici e programmatici del Partito, anche attraverso una nuova e mai sperimentata piattaforma web del Pd.
 
Questo strumento, già previsto dallo Statuto, è rimasto lettera morta. Vogliamo iniziare a sperimentarlo, valorizzando l’uso della Rete e dei social networks come canali di partecipazione attiva alle scelte del Partito ma soprattutto con l’ambizione di mettere l’Italia democratica la sua ricchezza i suoi militanti in rete tra loro. Non dobbiamo vivere il partito del territorio come alternativo alla presenza organizzata nella rete. Questa è una visone antica. Proprio dalle sinergie tra queste due dimensioni della partecipazione potrà realizzarsi un partito moderno e che guarda al futuro.
 
La comunicazione del Pd va radicalmente rivista, per affrontare i due problemi che abbiamo di fronte: la potente ondata populista, alimentata dalla rete; la nostra difficoltà nel raggiungere una grande parte della popolazione, a partire dai giovani che formano le loro opinioni soprattutto sulla Rete. Nel primo caso, è fondamentale la presenza sulla Rete e la formazione dei nostri militanti per utilizzare al meglio i social networks. Nel secondo caso, la consapevolezza del distacco di molti cittadini dalla politica e l’innovazione nei modi e nei contenuti della comunicazione.
 
Vogliamo restituire valore all’iscrizione: il tesseramento va riorganizzato secondo modalità di piena trasparenza e tracciabilità. Agli iscritti va riservata l’elezione anche dei segretari e delle assemblee regionali e il diritto di voto nelle consultazioni periodiche sugli indirizzi strategici del Partito.
 
Dobbiamo recuperare l’intuizione positiva con cui è nato il Pd: quello di un partito di iscritti e di elettori: più potere agli iscritti e maggiore apertura alla partecipazione di elettori, simpatizzanti, volontari senza tessera. Le nuove tecnologie digitali espandono a dismisura lo spazio per sperimentare nuove forme di partecipazione per iscritti ed elettori.
 
Intendiamo mantenere le primarie aperte per l’elezione del segretario nazionale del Pd e, in forma di primarie di coalizione, per l’individuazione delle candidature alla guida dei governi locali e regionali, garantendo il diritto di elettorato attivo previa iscrizione all’Albo degli elettori.
 
Bisogna ridare centralità ai territori anche riservando a loro e ai Giovani Democratici l’elezione del 50% della Direzione Nazionale.
 
La disposizione statutaria che prevede l’organizzazione di una Conferenza programmatica annuale va attuata, per fare del confronto e dell’elaborazione programmatica un elemento continuativo della vita e dell’iniziativa del Pd. Per questo, è necessario Il Pd deve lasciarsi alle spalle la stagione della “disintermediazione”, stabilendo “patti di consultazione” con le forze economiche, sociali, civiche e con le associazioni, le fondazioni e i think tanks di orientamento politico vicino a quello del Partito.
 
Fare del Pd un soggetto politico protagonista nella lotta per l’uguaglianza e i diritti delle donne deve essere un obiettivo strategico. Il Pd da anni non ha più una Conferenza nazionale delle donne. Va ricostituita, per rafforzare la nostra capacità di promuovere partecipazione ed elaborare risposte sulla grande questione della cittadinanza delle donne. Se la democrazia paritaria è un elemento fondativo del Pd, va perseguita sempre: dalle elezioni politiche, evitando l’utilizzo di candidature multiple di donne per far poi eleggere uomini, ai ruoli apicali del partito, favorendo una più equilibrata rappresentanza di genere a tutti i livelli. Proponiamo di sperimentare per i dipartimenti tematici incarichi paritari sul modello dei Verdi tedeschi (53).
 
Valorizzare il ruolo dei Giovani Democratici come organizzazione giovanile del Pd, nel rispetto della reciproca autonomia stabilita dalla Carta di cittadinanza dei Gd, rafforzandone il contributo nella definizione delle scelte strategiche e nella formazione degli organismi dirigenti del Partito.
 
Fare della formazione politica a livello nazionale e territoriale un investimento strategico del Partito.
 
Proponiamo di lavorare alla costituzione della “Fondazione Democratica”. Luogo di raccordo elaborazione e investimento delle politiche di ricerca e formazione La riorganizzazione del Pd deve investire anche la gestione finanziaria.
 
Per evitare che i partiti e i movimenti politici siano eccessivamente dipendenti dai finanziatori privati, è necessario rafforzare il contributo pubblico su base volontaria (il 2 per mille IRPEF). Le regole di trasparenza e rendicontazione previste per i partiti vanno estese anche a fondazioni e associazioni di carattere politico.
 
Per quanto riguarda il PD, il fundraising va promosso in stretta collaborazione con le articolazioni territoriali, alle quali bisogna riconoscere il 50 per cento delle entrate derivanti dal 2 per mille.
 
Dobbiamo rendere obbligatoria la pubblicazione e la certificazione dei bilanci di tutte le articolazioni regionali e provinciali del Partito, affidando i controlli a revisori dei conti indipendenti designati dagli organismi dirigenti di livello immediatamente superiore. Il personale del Pd a livello nazionale e locale sta subendo un drastico ridimensionamento: è un dovere morale del Partito mettere in atto tutti gli strumenti utili a limitare le ricadute occupazionali degli interventi di riequilibrio finanziario.
 
Sono alcune delle priorità per avviare quella riforma del partito che, annunciata più volte, è sempre rimasta sulla carta. È tempo di uscire da dibattiti astratti e surreali intorno a formule ormai prive di senso: partito solido o liquido, leggero o pesante. Ciò di cui abbiamo bisogno è un partito per il XXI secolo.
 
Roma, 12 dicembre 2018
Nicola Zingaretti


note

1. Fonte: World Bank Open Data
2. Fonte: Progressive Society, Rapporto della Commissione indipendente sull’uguaglianza sostenibile, novembre 2018
3. Fonte: Earth Overshoot Day, Past Earth Overshoot Days
4. Fonte: Mbaye e altri, Global Debt Database: Methodology and Sources, IMF working paper, Maggio 2018
5. Fonte: United Nations, World Urbanization Prospects 2018
6. Fonte: World Inequality Lab, World inequality report 2018
7. Fonte: Forbes, 25th Anniversary Timeline
8. Fonte: elaborazione su dati Credit Suisse, Global Wealth Databook 2018
9. World Bank, World Development Report 2019
10. Fonte: ILO, World employment social outlook. Trends 2018
11. Secondo Eurostat l’indice di Gini in Italia è passato da 31,2 nel 2008 a 32,7 nel 2017. Il rapporto tra il reddito medio del quintile più ricco e quello più povero è passato da 5,2 nel 2008 a 5,9 nel 2017
12. Fonte: OECD, Un ascensore sociale rotto?, Giugno 2018
13. Populorum progressio, Lettera Enciclica di Sua Santità Paolo PP. VI, 26 marzo 1967
14. Vedi Camera dei deputati, Benessere equo e sostenibile, Temi dell’attività parlamentare XVII legislatura
15. Fonte: Progetto Green economy, Contributo al dibattito congressuale del Pd.
16. Fonte: Symbola e Unioncamere, GreenItaly. Rapporto 2018
17. Secondo ANCE (Osservatorio congiunturale sull’industria delle costruzioni, febbraio 2018, pagine 89-97) il mercato potenziale ammonterebbe a 33 miliardi per l’efficientamento energetico e 105 miliardi per le opere antisismiche
18. Fonte: Enrico Letta e altri, Reinforcing the Eu budget with a fossil-fuel contribution, 20 febbraio 2018
19. Fonte: Forum Disuguaglianze Diversità
20. Per esempio aumentando le detrazioni IRPEF per lavoro dipendente, con un effetto di riduzione del cuneo fiscale.
21. Secondo le statistiche del Dipartimento delle finanze del MEF, nel 2017 i 169.990 contribuenti che hanno dichiarato reddito superiore a 150 mila euro attraverso le deduzioni e detrazioni di cui beneficiano hanno ridotto il proprio carico IRPEF di circa 1,5 miliardi. A titolo di confronto, il contributo di solidarietà introdotto dall’art. 2 del DL 138/2011 (e prorogato al 2016 dalla Legge di stabilità 2014) produceva un gettito aggiuntivo di 150 milioni annui.
22. Alleanza contro la povertà, Una giusta risposta a chiunque viva la povertà assoluta, Roma 27 settembre 2018
23. Secondo una recente ricerca della Fondazione Di Vittorio per conto dello Spi-Cgil (La povertà energetica e gli anziani, 26 novembre 2018) i bonus sociali energia e gas nel 2016 sono stati erogati a poco più di 700 mila famiglie su circa 2,2 milioni di aventi diritto.
24. Secondo l’ISTAT la povertà assoluta nel 2017 colpiva il 9,6% delle famiglie con persona di riferimento tra 18 e 34 anni, a fronte del 4,6% di quelle con persona di riferimento con 65 anni e più. Fonte: ISTAT, La povertà in Italia. Anno 2017, 26 giugno 2018
25. Fonte: ISTAT, Natalità e fecondità della popolazione residente, 28 novembre 2018
26. In Italia secondo Eurostat il gender pay gap (la differenza tra i salari orari lordi medi) è pari al 5,3%, mentre nella Ue28 è al 16,2%. Il gender overall earnings gap (che tiene conto di guadagni orari, ore lavorate e tasso di occupazione) è invece al 43,7%, a fronte di un dato Ue-28 di 39,6%. Per un’analisi di questi dati, vedi D’Ascenzo, Salari: il divario «inspiegabile» tra gli uomini e le donne in Italia, Il Sole 24 Ore, 12 aprile 2018
27. Fonte: Panorama, La parità retributiva in Islanda: perché è un modello per il mondo, 3 gennaio 2018. Vedi anche Commissione Europea, Iceland: Equal pay certification legalised, luglio 2017.
28. Vedi il Verbale di accordo sulle modifiche al regime pensionistico, 28 settembre 2016
29. In Italia le pensioni femminili sono più basse del 31% di quelle degli uomini (nella UE il divario è il 39%). Il gap nelle pensioni è più alto di quello nei salari. Il divario (che nella UE è pari al 39%) è il risultato di tre tendenze del mercato del lavoro: 1) le donne hanno meno possibilità di ottenere un lavoro rispetto agli uomini; 2) lavorano meno ore e/o anni; 3) ricevono in media salari più bassi. Fonte: EIGE, Gender gap in pensions in the EU, 2015
30. Secondo la Nota di aggiornamento al DEF 2018 la spesa sanitaria pubblica a legislazione vigente scenderà dal 6,6% del PIL nel 2018 al 6,4% nel 2021.
31. Secondo Eurostat nel 2016 il 21% degli utenti ha una difficoltà moderata o grande nel permettersi i servizi di cura (il corrispondente dato dell’Unione europea è 12,6%).
32. Il Rapporto GIMBE 2018 stima sprechi e inefficienze per 21,59 miliardi nel 2017 (pari al 19% della spesa sanitaria complessiva)
33. Attualmente solo un anziano non autosufficiente su tre è attualmente preso in carico dai servizi, sanitari o sociali, così come un terzo delle persone in disabilità dai 15 ai 64 anni. Fonte: Da Rold, Gli italiani invecchiano ma le risorse per la loro cura non aumentano, Il Sole 24 Ore
34. Negli Stati Uniti durante la Grande Crisi la Works Progress Administration promossa dal Presidente Roosevelt nell’ambito del New Deal offrì lavori di pubblica utilità a 8,5 milioni di persone. L’idea di un’offerta pubblica di “lavoro di ultima istanza” (Job Guarantee) è stata recentemente riproposta dal Levy Economics Institute e fatta propria dal senatore democratico Bernie Sanders
35. Fonte: Eurostat Database
36. Fonte: ANCE, Osservatorio congiunturale sull’industria delle costruzioni, febbraio 2018, pag. 121
37. Fonte: ANCE, Sbloccacantieri
38. L’Italia cresce meno della media UE ininterrottamente dal 1992. Tra 2000 e 2017 il PIL dell’Italia è aumentato complessivamente del 2,8% a fronte di una media UE del +27,1%. Nella UE siamo al penultimo posto, subito dopo la Grecia. Fonte Eurostat
39.

. Nel 2017 abbiamo esportato merci per un valore di 448,1 miliardi di euro, pari al 26% del PIL, con un saldo positivo della bilancia commerciale di 47,4 miliardi di euro. Fonte: ISTAT
40. Nonostante l’aumento degli ultimi anni, nel 2017 solo l’8% delle imprese italiane con oltre 10 addetti vende tramite internet a fronte di una media Ue del 18%. Fonte: Eurostat
41. Dato riferito al terzo trimestre 2018. Fonte: Registro Imprese – Startup e PMI innovative
42. Tra il 2008 e il 2016 l’occupazione nelle imprese cooperative è aumentata del 6,1%, mentre nel resto del Paese diminuiva dello 0,4%. Fonte: Alleanza delle cooperative italiane, Cambiare l’Italia cooperando, gennaio 2018
43. Nei primi 30 porti del Mediterraneo il traffico container è aumentato da 9 milioni di TEUs nel 1995 a 53 milioni nel 2017. Fonte: SRM, Italian maritime economy, Sintesi del Rapporto, 5 giugno 2018
44. La “Belt and Road Initiative” è un gigantesco programma di investimenti infrastrutturali lanciato dalla Cina a fine 2013 che, attraverso sei corridoi di trasporto via terra e via mare, punta a sviluppare la connettività e la collaborazione tra la Cina e altri 70 Paesi, con l’obiettivo di creare un grande spazio economico eurasiatico integrato, ampliando i legami già esistenti con la UE. Fonte: Ministero degli affari esteri, Diplomazia economica italiana, n. 3/18, 17 aprile 2018
45. Fonte: Ministero dell’economia e delle finanze, Rapporto sui risultati conseguiti in materia di misure di contrastoall’evasione fiscale e contributiva – anno 2018
46. Vedi Revisione della spesa: obiettivi, attività e risultati 2014-2016, Roma 20 giugno 2017
47. Secondo il Catalogo dei sussidi ambientalmente favorevoli e dei sussidi ambientalmente dannosi 2016 del Ministero dell’ambiente ammontano a 16,2 miliardi annui
48. Secondo il Rapporto programmatico recante gli interventi in materia di spese fiscali del Ministero dell’economia e delle finanze nel 2018 hanno sottratto 54,2 miliardi di entrate.
49. Secondo una recente ricerca dell’Osservatorio sui conti pubblici dell’Università Cattolica di Milano su un totale di 90,7 miliardi di acquisti di beni e servizi della P.A. (dato 2016) la quota di acquisti “intermediati” dai soggetti aggregatori statali è in aumento ma rimane piuttosto contenuta (Consip nel 2017 ha intermediato 9,5 miliardi).
50. Fonte: ISMU, dati sulle migrazioni
51. Fonte: Fondazione Leone Moressa, Rapporto 2018 sull’economia dell’immigrazione, infografica riassuntiva
52. Secondo Eurostat nel 2017 in Italia possedeva un titolo di studio terziario il 26,9% dei 30-34enni, a fronte del 39,9%
dell’Unione europea.
53. Lo Statuto del Partito dei Verdi in Germania dal 1986 prevede una quota del 50 per cento non solo per tutti i comitati ma anche per le cariche. Da gennaio 2018 il partito è guidato da Robert Habeck e da Annalena Baerbock

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