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Sugli stupri evitiamo ogni ‘vittimizzazione secondaria’

In tante hanno manifestato qualche giorno fa, secondo me con molte buone ragioni, a Firenze alla Fortezza da Basso, contro una sentenza che ha assolto dall’accusa di violenza di gruppo sei ragazzi. Ieri con altre parlamentari, ho presentato un’interrogazione al governo: non si tratta di fare un processo alla sentenza, né di limitare l’autonomia della magistratura, ma di andare a fondo di questa vicenda perché nelle motivazioni (e negli effetti)della sentenza ci sono implicazioni importanti anche per la politica. Lo stupro sarebbe avvenuto nel luglio 2008, la ragazza coinvolta all’epoca aveva 22 anni e secondo la Corte d’appello sarebbe stata consenziente, denunciando poi per violenza sessuale i coetanei ed amici con i quali quella sera era uscita, per “rimuovere un suo discutibile momento di debolezza e fragilità”.

 

I giudici si servono, argomentando la mancanza di credibilità della vittima, di considerazioni “sociologiche” circa le abitudini sessuali della ragazza e le sue precedenti esperienze lavorative. Vengono passate in rassegna condizioni familiari ed economiche, partecipazione a un film “splatter”, sue precedenti esperienze sentimentali eterosessuali e omosessuali, che proverebbero il suo carattere sicuro e disinibito. Secondo i giudici, se la ragazza aveva potuto “reggere” senza problemi scene di sesso e violenza all’interno di un film, in fondo non risultava poi del tutto assurdo che si fosse volontariamente posta nella situazione in cui si trovò la notte fra il 26 e il 27 giugno 2008, salvo pentirsene subito dopo.

 

Io penso che bisognerebbe leggere la sentenza alla luce della “Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica” entrata in vigore il 1 agosto 2014, che prevede con chiarezza la necessità di evitare in ogni modo la cosiddetta “vittimizzazione secondaria”, e cioè la colpevolizzazione della vittima, che consiste nel ritenere la vittima di un crimine o di altre sventure parzialmente o interamente responsabile di ciò che le è accaduto e spesso nell’indurre la vittima stessa ad auto colpevolizzarsi.

 

Le previsioni della Convenzione di Istanbul si riferiscono espressamente alla necessità di “non fornire mai un contesto che fornisca a sua volta una giustificazione alla presunta violenza o che ne vizi il giudizio”. Sarebbe, dunque, importante chiarire la congruità delle motivazioni della sentenza emessa dalla Corte di Appello di Firenze, che ricostruisce in modo piuttosto insistente la storia della vita sessuale passata della ragazza, con il quadro normativo internazionale, europeo e nazionale..

 

Il recente rapporto Istat pubblicato nel mese di giugno descrive una situazione ancora molto grave – 6 milioni e 788 mila donne hanno subito nel corso della propria vita una qualche forma di violenza fisica o sessuale – ma esistono segnali positivi frutto di informazione, lavoro sul campo di associazioni, centri antiviolenza, istituzioni, operatori vari, e migliore capacità delle donne di prevenire e combattere la violenza, oltre ad un clima sociale di maggiore condanna.

 

Certamente non aiuta ( e non è neppure spiegabile) l’assenza di un ministro alle pari opportunità, ma chiediamo al governo di insistere su questo “lavoro sul campo” con tutti gli strumenti a sua disposizione per costruire una vera rete territoriale e dare piena attuazione alla Convenzione di Istanbul, nelle parti che riguardano la prevenzione, l’accoglienza e la tutela della vittima. L’attuazione della Convenzione passa necessariamente dalla formazione di tutti gli operatori coinvolti, da quelli della giustizia a quelli della sanità, che dovrebbero essere particolarmente consapevoli degli stereotipi e delle discriminazioni sessiste, alla ferrea attenzione da porre all’educazione e alla diffusione di modelli culturali.

 

E di quanto lavoro ed impegno ci sia ancora bisogno ce lo dice proprio questa sentenza e il comportamento quei 6 ragazzi, giudicati innocenti ed assolti dai giudici, ma che hanno visto in una loro coetanea, una loro “amica” fino a poco prima, non una persona ma un oggetto sessuale di cui disporre in maniera predatoria. In questa vicenda misuriamo tutto il lavoro che dobbiamo ancora fare per costruire una cultura del rispetto tra uomini e donne, che accolga pienamente la libertà delle donne di compiere le proprie scelte, di dire dei si e dei no, di decidere della propria sessualità.

 

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