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Gentiloni: “Il Recovery fund non è una torta da spartire. Ci vuole molta serietà, è un’occasione irripetibile”

«In 65 giorni la Ue ha coperto una strada che sarebbe stata considerata impensabile, se si guarda agli ultimi dieci anni. C’è stato un mix di misure protettive della Banca centrale europea di metà marzo, poi due scelte drammatiche dal punto di vista delle norme come la sospensione del Patto di stabilità e delle regole sugli aiuti di Stato. Alla fine siamo arrivati al pacchetto da 750 miliardi di euro questa settimana, che amplifica in modo straordinario un elemento che era passato senza che ce ne fosse troppa consapevolezza: Sure, l’assistenza sull’occupazione, prevedeva già emissioni di titoli comuni per 100 miliardi».

 

«Abbiamo tutti definito questa crisi senza precedenti dagli anni ‘3o. A quel punto non potevamo non avere una risposta senza precedenti. Questo messaggio così semplice – essere all’altezza della crisi, ritrovare l’idea di un’Europa senza buoni e cattivi, senza vincitori né vinti – ha avuto un potere straordinario. Hanno avuto un ruolo cruciale alcuni leader, alcune donne. E la Commissione ha fatto le scelte giuste in tempi incredibilmente brevi. Spesso ci è stato detto che facevamo `too little, too late’: troppo poco e troppo tardi’. Ora stiamo di fronte a decisioni di enorme portata e rapidissime».

 

Angela Merkel aveva detto che mai si sarebbe fatto un eurobond con lei cancelliera. Ora è alla testa di questa svolta. La sorprende?

«Non è la prima volta che compie scelte coraggiose nei momenti storici. Ricordo ancora nel 2015 sull’immigrazione. L’accordo Merkel-Macron è stato basilare».

 

Sulle posizioni dei sovranisti, Gentiloni ha dichiarato «I tre mesi che abbiamo alle spalle sono stati disastrosi per il populismo nazionalista, in Europa e non solo. La pandemia ha fatto risaltare l’importanza della scienza, dello spirito di comunità, del multilateralismo e del modello europeo: quel mix fra protezione sociale, mercato unico, trasparenza, diritti, libertà. Le teorie sull’uomo forte, quelle antiscientifiche, quelle dei Paesi che risolvono tutto da soli stanno avendo una pessima crisi. Covid-19 ne ha messo a nudo l’inadeguatezza. Ora la sfida è che questa presa di coscienza regga alle conseguenze economiche della pandemia. Non illudiamoci che la sconfitta del populismo nazionalista sia definitiva».

 

Sulla recessione: «Il pacchetto europeo è complementare a quelli dei governi: misure di stimolo in media per il 4% del Pil europeo, più differimento di tasse e garanzie per un altro 23%. Cifre enormi, con un potenziale accentuarsi delle differenze fra i Paesi che possono di più e quelli che possono meno. Il pacchetto europeo è fondamentale per mitigare gli squilibri e orientare le risorse alle esigenze future. Ma ricordo che ci sono strumenti disponibili già quest’anno: il fondo Sure, le garanzie della Bei, i crediti agevolati del Mes e una parte seppure minima dei trasferimenti di emergenza che abbiamo proposto».

 

Per quanto riguarda il ricorso al Mes: «Non tocca a me decidere. Quel che ho cercato di fare e non era facile è stato di adattare uno strumento usato in passato per altri obiettivi a modalità nuove. Tra l’altro il fatto che le risorse siano ingenti, specie nel 2021 e nel 2022, non elimina le preoccupazioni per l’economia, perché l’immediato futuro dipende da vari fattori».

«Per l’Italia, conta anche quanto riuscirà a esprimersi la nostra capacità produttiva. I ritardi nell’intervento pubblico vanno colmati, certo, ma non dimentichiamo la nostra storia: anche se l’intervento dello Stato è sempre stato rilevante, molto spesso la forza dell’economia si è sprigionata a prescindere dallo Stato. E se noi vogliamo riprendere a crescere e mettere il debito su una curva discendente, abbiamo bisogno che questa forza si manifesti. Parlo dei sistemi produttivi delle imprese private nei territori, della loro forza, della loro autonomia e creatività. Senza, è molto difficile riaccendere il motore».

 

In Italia invece si parla di intervento pubblico o di bonus e tagli alle tasse grazie al Recovery Fund. Che ne pensa?

«Non penso che sia utile impostare la questione come se si trattasse di dividersi una torta. E sono certo che il governo, che ha agito bene nella fase dell’emergenza, ne è consapevole. Bisogna sintonizzarsi con le vere sfide del piano. Che sarà ‘made in Italy’ e non va deciso a Bruxelles o a Lussemburgo, perché questa era la logica dei salvataggi di dieci anni fa. Ma resta comunque un’occasione irripetibile per rimettere in moto l’economia italiana. Servono competenze, lungimiranza, responsabilità politica. Mi viene da dire: nessuna Troika, non diciamo cose ridicole. Però molta serietà, se vogliamo cogliere questa occasione».

 

Il piano di riforme dell’Italia deve porsi il problema della protezione del lavoro più fragile, delle politiche attive, della correzione delle strozzature che abbiamo nelle regole burocratiche o nel sistema della giustizia. Nel medio e lungo termine anche il debito deve stabilizzarsi e riprendere a calare, grazie a un forte avanzo di bilancio prima di pagare gli interessi. Questi concetti sono nell’ultima raccomandazione che abbiamo mandato all’Italia e sono ben presenti da anni nell’ambizione riformatrice che nel Paese non manca».

I trasferimenti del Recovery Fund sono condizionati all’esecuzione di questo piano di riforme?

«Stiamo parlando di volumi finanziari importanti e i fondi europei richiedono comunque chiarezza di obiettivi e puntualità nel raggiungerli. Chiunque abbia avuto a che fare con i soldi europei lo sa: il piano non funzionerà in modo diverso, con grande chiarezza, puntualità e verifiche. Si faranno a scadenze fisse, con rapporti sullo stato di avanzamento dei piani. L’Italia ha tutte le competenze economiche, amministrative e tecniche per riuscire. Se invece si pensa che ci sia una torta da spartire, allora sprecheremo un’occasione unica».

Christine Lagarde sostiene che il Patto di stabilità vada rivisto. Lei che ne pensa? «Era una discussione aperta prima di questa crisi, e ritornerà. Noi stimiamo nei prossimi due anni in Europa 846 miliardi di investimenti in meno a causa della recessione, quasi tutti del settore privato. Ma la storia ci insegna che poi rischia di arrivare una stretta negli investimenti pubblici. Sarebbe esattamente ciò che non dobbiamo fare».

 

L’intervista completa sul Corriere della Sera

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