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Gutgeld: «Rivediamo il Fiscal compact, l’Italia non riduca il deficit»

Revisione non fa sempre rima con (forte) riduzione della spesa, ma con aumento degli spazi per ciò che il governo deve o vuole fare. Yoram Gutgeld, commissario alla spending review, deputato del Pd, ex consigliere economico di Matteo Renzi a Palazzo Chigi, ha presentato ieri il primo rapporto annuale sul suo lavoro. Lui per primo sa che ora la parte tecnica deve lasciar posto alle scelte politiche. Quanto a queste, Gutgeld ne indica due fra le sue preferenze «personali»: rinegoziare il Fiscal compact europeo per fermare il cammino verso il pareggio di bilancio, e mantenere il deficit agli attuali livelli in proporzione al prodotto lordo. Non ridurlo. Dunque per il commissario alla spending review la prossima Legge di bilancio non dovrebbe contenere la nuova stretta, per quanto limitata, che il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan ha prefigurato in una lettera alla Commissione europea.

 

Commissario, includete nella revisione oltre 30o miliardi di spese ma ne escludete 500, fra cui le pensioni. Perché?

«Il governo di Mario Monti ha messo in sicurezza la dinamica della spesa pensionistica, ma la spesa rimane alta. Detto questo, mi sembra complicato intervenire ancora. Per avere un impatto, bisognerebbe arrivare a toccare i diritti acquisti delle pensioni medie da 2.000-2.500 euro lordi al mese quando non sono sostenute da contributi adeguati. Lì ci sono limiti oggettivi: mancano i dati sui contributi più antichi e siamo vincolati dalla Corte costituzionale».

 

Vanno coperte sempre nuove spese automatiche, come le pensioni e la sanità, o inevitabili come quelle sui migranti. Resta spazio per nuovi tagli altrove?

«Di taglio facile non è rimasto molto ma il lavoro sull’efficienza degli acquisti continuerà. Non possiamo trovare altri trenta miliardi, ma possiamo fare molto perché ci sono margini importanti. In futuro sarà fondamentale limitare la dinamica della spesa pubblica, contenendo l’aumento dei costi e vigilando sull’efficienza».

 

L’Italia può limitarsi a contenere la spesa e allo stesso tempo portare il bilancio verso il pareggio?

«L’obiettivo del pareggio è iscritto del Fiscal compact europeo, ma trovo che su di esso occorra una riflessione. Quell’accordo fu pensato in un momento di grande emergenza, nel 2011-2012, e non si è rivelato un successo».

 

Da allora in area giuro si sono tagliate spese per due punti di Pil e mezzo punto di tasse. Perché non è un successo?

«Intanto perché tutti i Paesi faticano a raggiungere l’obiettivo del pareggio di bilancio, ad eccezione della Germania che ha un enorme surplus esterno. Ma soprattutto, un Paese non è un’azienda. Non può essere gestito come se lo fosse: lo Stato non deve generare “profitti” per remunerare il capitale. Dunque non c’è nulla di magico in un pareggio o in un surplus di bilancio pubblico.

 

Dunque lei ritiene che l’Italia dovrebbe rinegoziare il Fiscal compact?

«Il vero problema è la crescita e come ottenerla. Dobbiamo andare avanti con interventi strutturali sulla giustizia, la burocrazia sulla legge fallimentare. Ma si dovrà anche valutare la leva fiscale per stimolare la ripresa, come hanno fatto gli Stati Uniti e la Gran Bretagna dopo la crisi».

 

Dove interverrebbe?

«Guarderei per esempio i crediti d’imposta su ricerca e sviluppo. Oggi il valore aggiunto dei prodotti italiani è in media più basso di quello francese o tedesco, in parte perché non si investe abbastanza in quest’area. Allargherei il credito d’imposta. Oggi le aziende farmaceutiche vanno in Francia a fare ricerca, perché lì gli sgravi sono più alti. Anche l’ambito degli incentivi di Industria 4.o, che stanno funzionando, è ancora limitato, riguarda solo le macchine digitali: andrebbe allargato».

 

Sembra che lei pensi più a sgravi per le imprese che all’imposta sul reddito delle persone fisiche.

«Anche sull’Irpef si dovrebbe fare qualcosa. Serve una fiscalità orientata alla famiglia, proprio perché abbiamo un problema demografico e occorre incoraggiare la natalità. Il problema è europeo eccezion fatta per la Francia che ha una fiscalità molto più favorevole per famiglie».

 

Difficile fare ciò che lei dice riducendo il deficit, e presto l’Italia dovrebbe dare disco verde alla piena integrazione del Fiscal compact nel diritto europeo. Che ne pensa?

«Il governo si dovrà esprimere. Personalmente non credo sia una buona idea, perché trovo che quell’accordo sia da rivedere per avere uno spazio fiscale più ampio».

 

Anche con un disavanzo sopra al 3% del prodotto lordo?

«No, perché in Italia resta un problema di debito. Con un deficit sopra al 3% inizieremmo a faticare nello stabilizzare la dinamica del debito e questa per noi resta una questione fondamentale. Il problema del Fiscal compact è che si concentra solo sul deficit».

 

Lei invece a cosa guarderebbe?

«A deficit, crescita e inflazione. Con la regola del due. Con un due per cento di aumento del Pil in termini reali, di deficit pubblico e di aumento dei prezzi al consumo, metteremmo il debito su una traiettoria rapidamente discendente. E pian piano ci stiamo avvicinando a questi obiettivi, ma serve una spinta in più»

 

Il deficit nel 2017 è già diretto attorno al 2%. Significa che la prossima Legge di stabilità non dovrà stringere ancora? Padoan pensa a un aggiustamento da 5-6 miliardi…

«Più o meno siamo come dovremmo essere in questa fase. La macchina della gestione della spesa ora funziona e siamo in grado di gestire aumenti contenuti delle uscite. Il tema che richiede una valutazione politica è quello della leva fiscale. Si potrebbero ridiscutere gli obiettivi per l’anno prossimo, ma non isolatamente. Dobbiamo andare avanti anche con le altre riforme strutturali: vanno rassicurati i mercati, perché capiscano che l’Italia crescerà».

 

In Francia il presidente Emmanuel Macron prepara una riforma del lavoro più radicale di quella di Renzi, perché include la contrattazione in azienda. Addolcita da un balzo del deficit dal 3% al 4% n12018. Che ne pensa?

«I numeri francesi sono diversi, resto convinto che per noi un deficit al 3% complica la gestione del debito. Ma prendersi un po’ di spazio fiscale, come sembra farà Macron, ha senso».

 

L’Italia dovrebbe seguire Parigi sulla riforma del lavoro?

«Sono questioni che riguardano la contrattazione, dunque i rapporti fra datori e sindacati. Sicuramente è l’approccio giusto, in Germania c’è da tempo. Ma temo che il governo possa favorirlo solo fino a un certo punto».

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