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Calenda: “Sinistra accecata dal futuro mentre i movimenti populisti fanno politica nel presente”

Una critica serrata ai guasti della globalizzazione, all’avidità delle grandi corporation finanziarie e del web, ai progressisti smarriti e abbandonati, dopo avere, per anni, sostenuto l’ideologia unica del libero mercato. Argomenti attuali ma non certo nuovi; diventano invece una (ri)scoperta, se a scriverne è Carlo Calenda, ministro dello Sviluppo Economico dello scorso governo dopo una primissima esperienza politica con Mario Monti. «L’incontro con le crisi aziendali – scrive Calenda nel suo Orizzonti selvaggi. Capire, la paura e ritrovare il coraggio (Feltrinelli), il saggio verrà presentato oggi con l’autore alla libreria Feltrinelli di via Ceccardi, ore 18 – mi ha cambiato, così come i cinque anni passati dentro il consiglio del commercio dell’Ue. Un corso accelerato in “dogmi e contraddizioni della globalizzazione”. Sono ancora convinto che abbiamo molte carte da giocare nella competizione internazionale (…) Conservo tante bellissime immagini dell’Italia che vince. Ma non c’è solo quella. E soprattutto nessun paese può pensare di diventare nella sua interezza un’eccellenza. Questo non è un modello di sviluppo, è un’utopia, e anche piuttosto spaventosa».
 

Il libro parte con una sua frase ad un tavolo delle trattative, rivolta ai dirigenti di una multinazionale che voleva chiudere uno stabilimento senza avere particolare senso di responsabilità nei confronti di 500 lavoratori: “Io con questa gentaglia non voglio più averci a che fare”. Sarà mica che da liberal è diventato un comunista no global?

 
«Per nulla, ma penso che “comunisti”, nel senso di ideologici, lo siano diventati i liberisti. Non hanno capito che i loro paradigmi non stavano funzionando».
 

Come si definirebbe lei oggi?

 
«Un liberale vero, nel senso originale della parola: essere aderente alla realtà dei fatti, pronto a modificare le opinioni in base ai riscontri fattuali».
 

A proposito: è sempre iscritto al Pd?

 
«Sì, certo, partecipo, porto avanti la mia idea di “fronte repubblicano e progressista“. Mi auguro un superamento del Pd per le prossime europee, aprendoci a persone che nelle società rappresentano mondi e competenze».
 

Lei è considerato un po’ un campione dell’anti-populismo sui social. Però scrive: “I movimenti populisti vincono perché rivendicano il ruolo della politica nel proteggere i cittadini da quel che è stato presentato come ineluttabile, si occupano delle paure contingenti, rappresentano una precisa scelta di campo contro il potere economico”. Ma questo non doveva farlo proprio la sinistra? Anzi, esiste ancora la contrapposizione tra destra e sinistra?

 
«Doveva farlo la sinistra, sì, ma si è radicata nel futuro, prospettando lì un miglioramento affidato al mercato e alle tecnologie che non si è realizzato, se non per pochissimi. Mentre i movimenti populisti oggi fanno politica nel presente, riconoscendo e sfruttando la paura dei cittadini. I progressisti, la paura non sembrano volerla proprio accettare. Oggi esiste una linea di frattura diversa: tra chi vuole preservare i valori di una democrazia liberale e chi no. Lega e M5S hanno quest’ultimo obiettivo, penso alla vicinanza a Putin o a Orbàn del Carroccio, o alle parole di Beppe Grillo sulla “inutilità del parlamento”».
 

Dicevamo delle sue critiche alle grandi aziende. Leggo: «Invece di formare una parte del personale esistente per le nuove mansioni, la strada scelta è stata quella di licenziare per poi assumere a un costo inferiore nuovi lavoratori. La strada facile appunto, quella che non considera gli effetti sociali delle decisioni. Ogni giorno ci sono centinaia di casi di questo tipo». Viene un po’ in mente il caso di Arcelor Mittal con Ilva: non ha fatto la stessa cosa?

 
«Sì, però alla fine la loro operazione non è riuscita. Mi alzai dal tavolo quando cercarono di non riconoscere scatti e livelli dei lavoratori. E subito fecero retromarcia. Mittal comunque ha sempre detto che gestirà Ilva con 9.500 persone, noi provammo a investire il miliardo di euro recuperato dai Riva per fare attività di bonifica e servizi, invece il nuovo governo ha scelto un’altra strada, meno garantista con i lavoratori».
 

I sindacati fanno bene a scioperare?

 
«La premessa era il rispetto dell’accordo di programma, mi sembra giusto che lo si pretenda».
 

Visto che domani (oggi, ndr) sarà a Genova, ragionando sul ponte crollato: se si pensa alle privatizzazioni delle autostrade, ai grandi profitti garantiti ai gestori in cambio di controlli carenti e investimenti minimali nella sicurezza, ad uno Stato e quindi ad una politica che si ritira dai propri doveri di guida e di tutela dei cittadini, ecco, quanto è avvenuto non è in parte il risultato di quanto lei denuncia nel suo saggio?

 
«È avvenuto esattamente questo, l’auto-subordinazione della politica. Ho sempre detto che quando hai una concessione che è un monopolio naturale, non puoi guadagnare più del 2,5-3%. Altrimenti stai regalando soldi».
 

Bisogna nazionalizzarle?

 
«Penso sia una strada sbagliata perché i soldi è meglio utilizzarli per un new deal centrato sull’istruzione. Però lo Stato deve tornare a essere forte, il che non significa pervasivo, ma che si faccia rispettare attraverso concessioni vere».

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