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Marattin: “L’Italia reale si muove, ora si vede la luce prima del tunnel”

Il fraintendimento comune quando si parla di politica economica è che essa dispieghi i suoi effetti pochi minuti dopo che i provvedimenti sono (quando va bene) attuati o (quando va male) anche solo annunciati. Questo può succedere, a volte, sui mercati finanziari: quando viene annunciata una importante fusione che il mercato non aspettava, le azioni delle società coinvolte reagiscono nello spazio di pochi secondi. O se il governatore della BCE annuncia l’avvio futuro (e neanche certo, come accadde nell’estate 2012) di un programma di acquisti di titoli di Stato, le quotazioni di quegli asset finanziari aumentano subito.

Ma quando si parla di politica macroeconomica (tasse, investimenti pubblici) o industriale (incentivi ai settori produttivi) o, ancor di più, di riforme strutturali (dei mercati del lavoro e del capitale, di pubblica amministrazione, scuola o sistema fiscale), gli effetti su reddito, occupazione, potere d’acquisto si dispiegano nel tempo, perché gli agenti economici hanno bisogno di osservare i cambiamenti nelle variabili che determinano le loro azioni, incorporarli nelle loro decisioni e agire di conseguenza.

Per valutare gli effetti, dunque, dei provvedimenti di politica economica presi dal Governo Renzi nel triennio 2014-2016 dobbiamo cominciare ad osservare ora i dati macroeconomici. Partiamo dai dati diffusi da ISTAT sull’andamento del reddito, dei consumi, del potere d’acquisto, della pressione fiscale e degli investimenti. Andiamo a dare un’occhiata.

I dati si riferiscono ai primi tre mesi del 2017. Si può fare un confronto “congiunturale” (rispetto al periodo precedente, quindi rispetto all’ultimo trimestre 2016) o “tendenziale” (rispetto allo stesso periodo dell’anno prima, quindi primo trimestre 2016). E’ buona norma concentrarsi sui confronti tendenziali, perché danno un’indicazione più robusta di quello che sarà alla fine l’unico dato che davvero conti (e cioè l’andamento dell’intero 2017). I confronti congiunturali, invece, sono troppo “sporcati” da dinamiche di brevissimo periodo che difficilmente restituiscono un quadro solido e strutturale. Per cui in questa sede parleremo solo di dati tendenziali: il periodo gennaio-marzo 2017 rispetto al periodo gennaio-marzo 2016. E lo facciamo guardando i tre attori di un sistema economico: il settore pubblico, le famiglie, le imprese.

Partiamo dalla finanza pubblica. La spesa pubblica complessiva in rapporto al Pil scende (-0.3%), cosi’ come il deficit (-0.6%). In particolare scendono i consumi intermedi (-0.4%), a testimonianza che la spending review è una macchina pienamente operativa, e non un’operazione una-tantum. Questi risultati – sebbene relativi ai soli primi tre mesi del 2017 – sono incoraggianti rispetto al proseguimento del percorso di riduzione del deficit iniziato nel 2014: da allora lo “sbilancio” tra uscite ed entrate del settore pubblico si è ridotto dal 3% (2014) all’obiettivo che il governo ha fissato per il 2017 (2,1%) e che questi dati confermano essere a portata di mano. Non sono tutte rose e fiori però: gli investimenti pubblici continuano a non decollare (-1,6%), confermando la tendenza del 2016. Anche se su questo può essere utile ricordare che Istat misura gli investimenti col criterio della cassa (=“quando l’assegno viene materialmente incassato”), una misura che quindi risente – ad esempio – dell’eccezionale esborso avvenuto nel 2015 in conseguenza della virtuosa opera di spesa di tutti quei fondi comunitari che erano rimasti inutilizzati. Se invece guardiamo gli investimenti pubblici 2016 col criterio della competenza (=“quando l’assegno viene firmato”), vediamo dati totalmente diversi, addirittura con aumenti in doppia cifra (+10.3%) nel caso dei comuni. Da segnalare infine che l’aumento contabile della pressione fiscale (+0.3%) è dovuto all’inclusione, tra le imposte indirette, dei versamenti del sistema bancario al Fondo di Risoluzione (per intenderci, quello che ha salvato le quattro banche regionali); se depuriamo il dato da questo effetto contabile, la pressione fiscale risulta in leggero calo.

Passiamo ora a vedere come stanno le famiglie. Le quattro variabili fondamentali aumentano tutte in misura considerevole. Quanti soldi gli entrano in tasca (reddito disponibile +2,4%), quanto riescono a consumare (consumi finali +2.6%), quanti beni e servizi in più riescono effettivamente a comprare con i loro soldi (potere d’acquisto +1.2%), quanto investono (investimenti fissi lordi +2.8%). Stanno funzionando dunque le misure di stimolo alla spesa privata delle famiglie adottate dal Governo Renzi negli anni scorsi (80 euro, abolizione imposta sulla prima casa e sugli inquilini, riduzione del canone Rai, bonus maternità, ecc).

Infine, le imprese (ci riferiamo qui alle imprese non finanziarie, quindi escludendo banche e intermediari finanziari). Il valore aggiunto creato dai processi produttivi (=“quanto le imprese sono in grado di prendere una cosa che costa 100 e trasformarla in una che costa più di 100”) aumenta dello 0.7%. La loro capacità di generare profitti aumenta dello 0.3% e, il dato forse più importanti di tutti, i loro investimenti aumentano di ben il 4%. Significa che la massiccia opera di riduzione della pressione fiscale per chi produce (abolizione Irap agricola, Imu sui terreni agricoli, Imu sui macchinari imbullonati e Irap sul lavoro a tempo indeterminato; riduzione delle imposte sui redditi dal 27.5% al 24%; il nuovo regime dei minimi per le partite Iva, l’Iva per cassa per commercianti e artigiani; gli sconti fiscali – 40% per chi acquista macchinari strumentari e 150% per chi acquista beni capitali tecnologico – per gli investimenti) stanno cominciando a dispiegare i propri effetti.

Che la “macchina Italia” stia riaccendendo i motori in maniera significativa ce lo confermano anche le revisioni al rialzo della crescita 2017 operate sia dagli organismi internazionali (Fondo Monetario Internazionale) che dalle associazioni imprenditoriali (Centro Studi Confindustria); entrambe vedono per l’anno in corso una crescita del Pil pari al 1.3%, quando pochi mesi fa stimavano valori quasi dimezzati (0.6% il Fondo Monetario e 0.8% Confindustria).

L’importante è capire la lezione più importante quando si parla di politica economica. I risultati si vedono e si toccano a due condizioni: che non ci si fermi nel percorso intrapreso, e si abbia il tempo necessario per far entrare le misure intraprese nell’organismo (complesso) di un’economia moderna.

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