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Nannicini: «Più garanzie per i giovani. Cuneo fiscale, taglio stabile»

Pensione di garanzia per i giovani con redditi bassi e carriere discontinue e sistema di redditi-ponte per la flessibilità previdenziale in uscita ma non solo, anche con una più efficace integrazione tra primo e secondo pilastro. E ancora: dimezzamento per tre anni dei contributi per i neo assunti under 35, ma con taglio permanente del costo del lavoro per sempre. Senza rinunciare alla riforma dell’Irpef basata sul cosiddetto ‘fattore famiglia’, per sostenere sia la natalità sia l’occupazione femminile. Più che un cantiere di fine legislatura, è un piano per un’intera legislatura, quello che ci racconta Tommaso Nannicini, ex sottosegretario a Palazzo Chigi con Matteo Renzi e oggi nella segreteria nazionale del Pd. «Eppure avvisa tra la manovra prossima e quella del 2018 è possibile davvero realizzare questi interventi e rafforzare un percorso di crescita che dia più opportunità alle nuove generazioni».

Si tratta, però, di scegliere che cosa fare subito e che cosa fare «dopo» e di mezzo ci sono le elezioni. Per cominciare:prima il taglio del cuneo o puma quello dell’Irpef?

«Nella prossima legge di Bilancio sono alternativi, ma non per noi in termini di priorità. Si dovrà decidere quale fare prima solo valutando che cosa può essere più utile per la ripresa e per il sostegno del mercato del lavoro».

A oggi nel governo sembra prevalente la tesi della riduzione del costo del lavoro per le assunzioni dei giovani: come farla?

«La sfida è quella del taglio strutturale, attraverso un dimezzamento della contribuzione per i primi tre anni per i contratti a tempo indeterminato, mantenendo, però, una riduzione del costo del lavoro anche per il resto della vita lavorativa del neo assunto. Insomma, si può prevedere una dote che il giovane si porta dietro nei diversi passaggi professionali».

E la (successiva) riforma dell’Irpef che forma prenderebbe?

«L’obiettivo è introdurre un assegno unico o un ‘fattore famiglia’ che determini una riduzione dell’Irpef a vantaggio delle famiglie con figli. Senza che questo sostegno alla natalità si traduca in un disincentivo per il lavoro femminile. E questo prevedendo, per esempio, ancora meno Irpef quando lavorano entrambi i genitori».

Arriviamo alla previdenza: al centro della cosiddetta «fase 2» si intravede la pensione di garanzia per i giovani. Come sarà? Si è parlalo di 650 euro mensili: è verosimile? E ipotizzabile che sia prevista fin dalla legge di Bilancio dell’autunno?

«È prematuro dire se la soluzione entrerà nella prossima manovra. Così come va detto che quella cifra è solo un esempio possibile. Di certo, dobbiamo prenderci cura da subito del futuro previdenziale delle giovani generazioni attraverso una riforma del sistema contributivo (quello che si applica a coloro che hanno cominciato a lavorare dal 1996, ndr), che è utile per la stabilità dei conti e per l’equità intergenerazionale, ma può creare squilibri sociali da affrontare. Penso ai redditi bassi e alle carriere discontinue».

Come intervenire?

«Occorre introdurre una pensione minima a carico della fiscalità generale, che non sia sganciata dalla storia contributiva del giovane. Per capirci, potremmo stabilire un importo base con 20 anni di lavoro, con incrementi progressivi all’aumentare degli anni di contribuzione. Vanno anche ipotizzate forme di contribuzione figurativa per le fasi di ricerca attiva di un altro lavoro e di passaggio tra un’attività e l’altra».

E per la flessibilità in uscita, pensa a un’estensione-rafforzamento dell’Ape?

«Intanto, vanno risolte alcune storture dell’Ape sociale, prevedendola anche per i disoccupati che vengono da lavori a termine e facendo m modo che vi siano nuove risorse per accogliere tutte le domande. In secondo luogo, che si faccia subito partire l’Ape volontaria: oltre settembre sarebbe dannoso e incomprensibile. Per il futuro, i due strumenti vanno resi strutturali, valorizzando anche la possibilità di usare più diffusamente, come reddito ponte, anche le anticipazioni della previdenza integrativa».

I sindacati e gli ex ministri Sacconi e Damiano, però, insistono anche sull’allentamento o sulla rimodulazione dell’automatismo aspettativa di vita-età pensionabile. E d’accordo a non far scattare i 67 anni dal 2019?

«Riconoscere che non tutti i lavori e non tutti i lavoratori sono uguali è un elemento di equità sociale. E noi ci siamo posti in questa prospettiva proprio per quel che riguarda i requisiti: pensiamo ai lavori usuranti o alla categoria dei lavori faticosi introdotta per l’Ape. Ora, se c’è una riforma strutturale in questo senso si può riflettere su quel meccanismo, ma pensare di bloccarlo per tutti sarebbe un passo indietro. E non ce lo possiamo permettere».

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