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Orfini: fermiamo l’avventurismo sulle privatizzazioni

In questi giorni si è tornato a parlare di privatizzazioni, prima su Poste e Ferrovie, oggi addirittura su Cdp. Per fare una discussione seria ed evitare radicalismi ideologici – da una parte e dall’altra – non possiamo però evitare un giudizio storico e politico su quanto, soprattutto la sinistra, ha fatto nelle precedenti esperienze di governo.

 

Nel corso degli anni 90, per consentire l’integrazione della nostra economia nella costituenda Unione europea, si è realizzata una profonda trasformazione del sistema produttivo con le liberalizzazioni e le privatizzazioni. Le liberalizzazioni erano infatti poste alla base della integrazione europea, in virtĂą dell’intenzione dichiarata di aprire i mercati nazionali, unificare il mercato europeo, trasformare i vecchi campioni dell’industria nazionale in imprese dinamiche, di scala continentale. Le privatizzazioni, in quel contesto, erano ritenute indispensabili per dare forma e attitudini imprenditoriali ai giganti dell’economia pubblica e renderli protagonisti dei nuovi mercati liberalizzati.

 

In Italia abbiamo fatto molto in questa direzione e spesso i protagonisti di quelle scelte lo hanno orgogliosamente rivendicato. Io credo servirebbe maggiore cautela, perché forse abbiamo fatto anche troppo: i frutti di questo doppio processo non sono stati infatti solo positivi, anzi. E non solo perché spesso è mancata la reciprocità con i nostri partner della Ue, ma soprattutto per un vizio d’origine politico.

 

La privatizzazione integrale di Telecom, un’azienda che per questo ha perso smalto e ancora non trova pace, l’estinzione dell’Iri come struttura manageriale capace di assicurare coordinamento finanziario ed industriale e – infine – il vincolo di destinazione di tutti i proventi delle privatizzazioni all’abbattimento dei debiti dello Stato, sono stati i tre corollari, vincolanti, che hanno reso inutilmente penoso al nostro paese un percorso, che ha finito così per smarrire ogni razionalitĂ  industriale.

 

Le privatizzazioni nell’esperienza italiana si sono fatte “per fare cassa” finendo così per indebolire il profilo industriale del paese. E – peraltro – per traferire ricchezza dal pubblico al privato.

 

Penso sia arrivato il momento di dirlo con chiarezza: le privatizzazioni, se e quando necessarie, devono seguire un disegno industriale e non esigenze emergenziali di recupero di risorse.

 

Sia chiaro, l’Italia ha un enorme problema di debito pubblico ed è compito di una nuova classe dirigente dotarsi di una strategia seria per la sua riduzione, da attuare con continuitĂ , stimolando la crescita, agendo su inflazione e tassi di interesse, sulle politiche di bilancio. Non possiamo però piĂą consentire a nessuno di pensare che la nostra serietĂ  sul tema del debito dipenda dalla velocitĂ  con la quale smantelliamo quel che resta delle grandi imprese partecipate dallo Stato. 30 miliardi mal contati di residue partecipazioni a fronte di oltre 2.200 miliardi di debito! Di cosa stiamo parlando?
Per versare un’inutile goccia nel mare dovremmo rinunciare o indebolire gli strumenti principali della nostra politica industriale? Probabilmente non aveva senso 25 anni fa, sicuramente non lo ha oggi.

 

Prendiamo – solo per fare uno dei tanti esempi possibili – il caso di Poste Italiane. Non c’è dubbio che la quotazione in Borsa sia stata un fatto positivo che ha dato all’azienda soliditĂ  e stimolato positivi processi di trasformazione, tuttavia considero sbagliata l’idea che lo Stato scenda al di sotto del 51%. Non bisogna indebolire il controllo pubblico dell’azienda finchĂ© i nuovi modelli di business, resi necessari dalle sfide dell’economia digitale, non saranno consolidati e finchĂ© i processi di raccolta e gestione del risparmio attraverso la rete degli uffici postali, che assicurano la sottoscrizione di oltre cento miliardi di titoli pubblici ed il finanziamento di quasi tutte le attivitĂ  di Cassa Depositi e Prestiti, non saranno stati ben calibrati, assicurando al tempo stesso, lo sviluppo industriale di Poste, i giusti margini per Cassa Depositi e Prestiti, la messa in sicurezza di una componente così rilevante di debito dello Stato.

 

Non riesco nemmeno a capire perchĂ© – ammesso che sia vero quanto si legge – Poste dovrebbe distribuire un maxi dividendo straordinario da un miliardo, cioè bruciare un miliardo di cassa, per finanziare la acquisizione da parte di Cdp del 30% di azioni postali ancora in mano allo Stato.

 

Se il tema è quello di garantire comunque un contributo all’abbattimento del debito – come ho giĂ  detto – non mi sembra questa la strategia piĂą sensata. Se invece il tema è quello di rafforzare il legame tra Poste e Cassa Depositi e Prestiti, ritengo che questa discussione meriti di essere fatta con grande serietĂ : Cdp giĂ  oggi è azionista di Poste con il 35%, ma è una partecipazione inerte, senza poteri di governance. Non c’è bisogno di acquisire ulteriori quote, se prima non cominciamo a dare un senso alla partecipazione che giĂ  c’è.

 

Voglio dirlo chiaramente: sono favorevole alla trasformazione di Cdp in una vera e propria cabina di regia strategica delle imprese pubbliche, anche trasferendo a Cassa tutte le residue partecipazioni dello Stato, concentrando in una logica di “sistema paese” tutti gli asset strategici, da quelli tecnologici, alle fonti di energia, dalle infrastrutture, alle reti di servizio. Ma è un lavoro enorme, che per essere fatto bene richiede un impegno corale, per definire le forme, le regole, le competenze ed i ruoli di un gruppo Cassa Depositi e Prestiti completamente rinnovato. Per avviare questo percorso in sicurezza però, occorre essere certi che il sistema, nel frattempo, sia effettivamente capace di valorizzare il patrimonio industriale esistente e che non si corra il rischio di distruggere valore dell’economia reale, con iniziative finanziarie frettolose o non ben calibrate. Insomma, discutiamo di tutto ma senza mai perdere di vista che il nostro obiettivo – se vogliamo davvero rafforzare il paese – è ricominciare ad avere una visione industriale e smettere di inseguire solo avventuristiche operazioni finanziarie. E in ogni caso è anche questo un processo che non può essere immaginato con l’approdo della privatizzazione di una quota della nuova Cdp sempre con il solito obiettivo di fare cassa.

 

Lo dico a chi è chiamato a gestire il paese: su questioni del genere occorrono cautela e trasparenza. Guai a imbarcarsi in operazioni avventuristiche e soprattutto guai a farlo senza una discussione politica seria e approfondita. Discussione alla quale il Pd ha non solo la volontà ma soprattutto il dovere di partecipare.

 

Fonte: Huffington Post

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