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Sala: «L’Italia segua Milano altrimenti faremo da soli»

Il titolo è quello di un saggio: Milano e il secolo delle città. La sintesi è un atto d’amore: alla metropoli che gli ha dato tutto. Il finale è un ultimatum: o l’Italia segue Milano o Milano andrà per la sua strada. Beppe Sala, sindaco della città che macina primati e attrae investimenti, cala sulla campagna elettorale un carico da undici in un libro a metà tra l’autobiografia e il manifesto programmatico. «Milano è una città sistemica che riconosce tra i suoi doveri quello di mettere al servizio del Paese il suo modello», scrive. In assenza di risposte «si rivolgerebbe direttamente all’Europa e alle sue risorse, rafforzerebbe la diplomazia estera, continuerebbe ad attrarre il mondo della finanza e delle imprese in forza della qualità dei suoi servizi e della sua vita». Non era mai stata così esplicita l’offerta di un dividendo al Paese da parte della città più città d’Italia, come la chiamava Giovanni Verga, uscita dall’Expo con gli applausi del mondo. Ma mai come oggi l’Italia aveva avuto bisogno di un modello virtuoso, come può essere quello rappresentato da Milano in termini di innovazione, efficienza e inclusione. «Merito e solidarietà sono il binomio sul quale l’Italia può giocarsi le sue carte in un mondo sempre più stretto tra le esagerate ricchezze di pochi e gli stenti di tanti», scrive Sala. Milano si mette a disposizione «per contagiare positivamente gli altri territori» ad una condizione: definire ruoli e funzioni. «Ma in questo momento l’Italia è come una squadra di calcio in cui tutti voglio essere centravanti, senza allenarsi e con lo stesso stipendio».

 

Milano-capitale, Milanocitta-Stato, Milano-locomotiva d’Italia e adesso Milanomondo. Se non è un ultimatum che cos’è questo messaggio, signor sindaco?

«È un’osservazione. Milano oggi è la città più dinamica del Paese e sta facendo bene la sua parte per il futuro. Ma io domando: l’Italia ha un disegno, un progetto, per aumentare la sua competitività internazionale?».

 

C’è una risposta per gli ottimisti e una per i pessimisti. Lei che cosa dice?

«Io guardo la realtà che conosco. Milano si mette in gioco, è attrattiva, offre opportunità, si propone per i grandi eventi, punta sulle università, accetta le sfide dell’economia globale, la sostenibilità, i reinserimenti manifatturieri, la rigenerazione ambientale e sociale delle periferie. Ma…».

 

Ma corre da sola, il Paese non la segue…

«Il Paese non mette a frutto questo capitale. Se Milano è una punta avanzata e conosciuta sulla scena internazionale, bisogna dare alla città e al suo territorio gli investimenti e gli strumenti per una nuova responsabilità».

 

Senza ripetere errori come le città metropolitane.

«Le città metropolitane sono il sinonimo dell’incompiuta, se non del fallimento. Come si può immaginare che Messina o Reggio Calabria abbiano le stesse istanze di Napoli o Milano? Nelle sfide globali, non possiamo più permetterci questa folle granularietà territoriale».

 

Non tutti saranno d’accordo con le due velocità? Dialoga con il sindaco di Roma? «Di Virginia Raggi non ho nemmeno il cellulare. Ho un buon rapporto con Chiara Appendino, sindaca dei Cinquestelle a Torino».

 

Una stra-Milano non entrerebbe in conflitto con la regione Lombardia?

«Ho grande rispetto i rapporti istituzionali. Ma vedo nel nuovo candidato leghista Fontana un pensiero politico radicalmente diverso da quello che propongo io».

 

Lei ha fatto la marcia per gli immigrati, Fontana dice che manderà a casa centomila clandestini.

«Le sue affermazioni mi hanno indignato. È giusto mandare al massacro chi fugge da guerre e miseria? E come si fa a vantarsi di sparate propagandistiche tipo la razza bianca, dicendo che gli hanno dato popolarità. Siamo agli slogan di Calderoli».

 

Come sono i suoi rapporti con Matteo Renzi?

«Lo considero una risorsa. La sua leadership dovrebbe essere più coinvolgente.11 Pd ha una squadra di ministri di prim’ordine: Gentiloni, Franceschini, Del Rio, Minniti, Padoan, Martina. E gli altri?».

 

Nel suo libro fa i conti con l’Expo. Esaltanti, con qualche amarezza.

«È stata la fatica più grande della mia vita e il successo più grande della mia vita».

 

Ci sono ancora le inchieste aperte.

«Expo è la rappresentazione evidente che fare le cose nel nostro Paese non è facile. Si può dire che riassume le virtù e i difetti dell’Italia. Ma è stato un catalizzatore di coscienze e di volontà che ha lasciato segni profondi. Ha rilanciato l’immagine dell’Italia e rafforzato lo spirito di Milano: mai arrendersi».

 

Rischia di essere rinviato a giudizio per un appalto

«Sono tranquillo con la mia coscienza. Però mi chiedo: qual è lo Stato? Quello che mi invita ad andare avanti e approva il mio operato o quello che sei anni dopo propone una mia condanna per gli stessi fatti, già passati al vaglio dell’Anticorruzione?».

 

È stato anche sul punto di dare le dimissioni da commissario quando scoppiò lo scandalo tangenti in Expo. Chi l’ha fermato?

«Una telefonata del presidente Napolitano e l’arrivo di Raffaele Cantone».

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