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Sala: “Milano città aperta”

Era la città di origine del forzaleghismo, dal 1993 con l’elezione a sindaco di Marco Formentini, il capogruppo alla Camera della Lega padana di Umberto Bossi, a Gabriele Albertini e Letizia Moratti, la città in cui Matteo Salvini si è fatto le ossa, in quasi venti anni da consigliere comunale di maggioranza. E oggi invece, in tempi di calvinismo egemonico, Milano è sempre capitale morale, sempre più lontana dalla Roma amministrata dal Movimento 5 Stelle e dal resto del Paese, punto di riferimento dell’altra Italia.

 

La sorpresa è che a guidarla sia un uomo che sulla carta non aveva nessuna caratteristica per potersi candidare a rappresentare il volto di un nuovo centrosinistra. Il bocconiano, pirelliano Beppe Sala, direttore generale del Comune con la Moratti, presidente della multiutility A2A, poi amministratore delegato di Expo 2015, scelto da Matteo Renzi per la corsa a Palazzo Marino nel 2016 dopo Giuliano Pisapia. Imprevedibile che fosse Sala, il manager in grigio, a raccogliere la coalizione Milano tessuta da Pisapia, il variopinto rassemblement che raccoglie i centri sociali e la Chiesa ambrosiana, la sinistra e perfino il Pd.

 

Eppure qui bisogna venire, nella stanza del sindaco di Milano, tra busti, dipinti e lunghi corridoi silenziosi, per capire quali possibilità di rialzarsi ci siano per quel pezzo di Paese che non vuole morire salviniano.

 

Conosce Matteo Salvini, sindaco Sala?

«Sì, da tempo. Di recente ci siamo visti riservatamente, a casa sua, perché c’era una questione urgente di cui parlare. In privato è molto diverso da quello che appare in pubblico: un uomo che ascolta, simpatico, disposto a riconoscere le ragioni degli altri. E questo, per certi versi, è un problema in più per chi deve affrontarlo».

 

Oggi, però, Milano sembra la città dove il messaggio sovranista ha meno attecchito. A fine agosto, in poche ore, si è riunita una manifestazione contro l’incontro in città tra Salvini e Viktor Orban. Il 30 settembre, nuova manifestazione. Al di là delle piazze, un volto accogliente, un centrosinistra plurale che non c’è altrove.

«Giuliano Pisapia mi ha lasciato in eredità un risveglio della partecipazione civica, è stato il suo principale merito. Io rivendico per me di aver insistito già in campagna elettorale sull’apertura internazionale della città. Milano non doveva affondare nelle sabbie mobili del Paese, avevo capito dove si andava a finire sui migranti. Ora quando vado in giro ripeto ai milanesi: condividiamo tutti che Milano sia la destinazione di enormi investimenti esteri, che ospiti ventimila studenti stranieri, che l`anno scorso sia stata la meta di più di otto milioni di turisti, una delle città più visitate del mondo? Nel 2020 ospiteremo la convention internazionale della galassia Lgbt. Milano è una città aperta. O sei aperto o sei chiuso. E se ti chiudi, se segui Salvini, si sgonfia tutto. Quando lo dici, la gente si interroga. La gente è razzista? Non credo, le persone valutano opportunità e rischi. Non posso dare del razzista a chi è in lista di attesa per una casa e dice: vengo prima io. A Milano il 19 per cento dei residenti è di origine straniera, contro l’8 per cento nazionale. Senza gli immigrati la città si ferma. Il 30-40 per cento dei bar sono gestiti dai cinesi, la metà delle pizzerie dagli egiziani, per non parlare delle badanti e degli altri lavoratori. La tensione è nata con l’arrivo dei migranti africani. E qui c’è la domanda per la sinistra e per il Pd, anzi, il domandone: la sinistra e il Pd e pensano che l’immigrazione vada controllata o no? Io sono d’accordo con quello che ha detto qui Roberto Saviano: per i migranti che fuggono da una situazione di guerra o di oppressione politica non c’è neppure da farsi la domanda, vanno accolti e basta. Ho visto le testimonianze dei torturati nei lager libici, sono racconti raccapriccianti. Per gli altri, chi si muove per questioni economiche, bisogna fare in modo che incrocino una richiesta di lavoro».

 

Alle elezioni del 4 marzo il Pd è rimasto il partito più votato in città. I risultati però sono molto diversi se ci si sposta dal centro alle periferie e all’hinterland. Il modello Milano è esportabile?

«Sono stato mesi fa ad appoggiare i candidati del centrosinistra a Lodi, Genova, Vicenza, Piacenza, con scarso successo. In alcuni casi c’era uno sbando del Pd, ma soprattutto mi sono reso conto che in molte situazioni il mio discorso fosse inapplicabile. A Milano c’è una società che si muove in modo autonomo dalla politica, una rete di comitati, associazioni, terzo settore. Quando Salvini ha invitato Orbàn ero fuori città, per qualche giorno di vacanza, il movimento si è convocato senza che io abbia fatto nulla. La partecipazione e gli alleati in città sono l’evoluzione di un disegno di apertura. Una ragione che non si vede della tenuta di Milano è il ruolo della Chiesa. A Milano al pranzo solidale a giugno sono arrivati in diecimila e abbiamo parlato in due, io e l’arcivescovo Mario Delpini. È un alleato poderoso. E poi c’è un mondo imprenditoriale molto concreto e per nulla ideologico. Romanticamente potrei dire che qui il populismo è in difficoltà perché è più difficile dire che c’è qualcosa che non funziona. Abbiamo il 60 per cento di raccolta differenziata e zero rifiuti in discarica, sui trasporti l’Atm ha annunciato un piano da due miliardi per avere in sette anni tutti i bus elettrici. Insomma: a Milano è più facile fare certi discorsi. Lo riconosco come una ricchezza della città e un limite per chi voglia portare questo modello fuori».

 

Per sé quale ruolo si riconosce?

«Quando sono stato eletto sindaco sapevo di essere ín grado di fare l’amministratore, perché era un lavoro che avevo già fatto. Ma mi chiedevo se sarei stato capace di svolgere un ruolo di ricucitura che è tipicamente politico. Credo che oggi mi venga riconosciuto il merito di essere uno che parla con tutti e che ascolta tutti. Un grande lavoro è stato compiuto per riportare Milano al centro di una rete internazionale. Oggi i governi nazionali sono a destra e le città sono a sinistra, non solo in Europa. Sono vicino ai sindaci di Chicago e di Los Angeles, sono amico di Anne Hidalgo a Parigi e di Ada Colau a Barcellona, sono impegnato a fare rete con le amministrazioni di sinistra che condividono i valori dell’apertura».

 

Lei era un renziano, la candidatura a sindaco è stata considerata un’idea di Matteo Renzi, poi c’è stata una clamorosa rottura anche personale. Come mai?

«Dopo la sconfitta al referendum del 2016 gli avevo dato un consiglio credo giusto, mettersi da parte per qualche tempo. È stato il momento della rottura. L’ultimo contatto tra me e lui risale a un sms a febbraio, stop. Oggi lo vedo difficilmente recuperabile».

 

Lei parteciperà al congresso del Pd? Chi appoggerà per la segreteria: Zingaretti?

«Non ho la tessera del partito e non voterò alle primarie, come ho già fatto nel 2017. Quello che mi fa incazzare è questo continuo dibattito tra correnti e leaderini. Ho visto più volte Nicola Zingaretti, vedrò tutti gli altri candidati. A tutti ripeterò che darò il mio appoggio al segretario eletto, a due condizioni. La prima: il segretario deve fare il segretario, un giorno a Roma e sei in giro per l’Italia. Va cancellata quella norma dello statuto che identifica il segretario con il candidato premier, non ha più nessun senso. Seconda condizione: il nuovo segretario dovrà circondarsi di persone di grande livello che diano una mano per far rinascere il Pd e la sinistra e che non abbiano altre ambizioni nazionali. L’anti-Salvini in questo momento non c’è, serve una squadra di dieci persone: cinque senior e cinque giovani».

 

Chi potrebbe far parte della squadra? A parte lei…

«Io sono disposto a queste condizioni, ma vedrei molto bene per esempio il mio assessore al welfare Pierfrancesco Majorino. Vorrei che tornasse a impegnarsi Walter Veltroni. E il sindacalista della Cisl Marco Bentivogli: è bravo, è pensabile che qualcuno lo coinvolga in un progetto politico?»

 

E poi? Con le elezioni europee del 2019 in arrivo il Pd dovrebbe sciogliersi in una lista più grande, la nuova Europa, come propone Massimo Cacciari?

«Qui metto in campo la mia concretezza. Un’operazione del genere dovrebbe decollare entro dicembre. Mi chiedo: sarebbe giusto farla? Sì. Si può fare? In due mesi, no, non credo. Non ci sono alternative, il Pd passerà in un cerchio di fuoco, il voto europeo e quello amministrativo, è decisivo aiutare Dario Nardella a Firenze e Giorgio Gori a Bergamo e provare a riconquistare qualche altra città. Ripartire da questi appuntamenti e cercare qualche territorio dove la nostra esperienza di governo possa essere utile».

 

Ripartire da Milano?

«lo sono credente, vado in chiesa, la mia stella polare è la contemporaneità. E il nostro tempo oggi ci pone di fronte a ogni scelta il dilemma tra apertura e chiusura. Se siamo un Paese che si chiude, che si isola, ci facciamo un gran male. Solo se siamo aperti possiamo pensare di tornare a sconfiggere i populismi».

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