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Gentiloni: “Nella Ue infranto un tabù, il Fondo da mille miliardi è in cantiere”

Commissario Paolo GentiIoni, in Italia non tutti sembrano condividere l’esultanza con cui il governo la sera di giovedì ha salutato l’accordo raggiunto dall’Eurogruppo. Anzi, alcune critiche sono oltremodo severe. E crea qualche sospetto il fatto che il governo olandese, fortemente contrario all’introduzione di Covid-bond o Eurobond che dir si voglia, oggi sia tra i più esuberanti nel manifestare la propria soddisfazione. Lei, invece, parla addirittura di svolta storica.

«Si tratta di un primo passo. Ma nella decisione di giovedì si è rotto un tabù. Fin qui era sempre prevalsa l’idea che, nonostante la moneta unica, per le politiche di bilancio la regola fosse ognuno per sé. È con questo spirito che venne affrontata la crisi di dieci anni fa. Giovedì si è compiuto il primo passo per affiancare alla politica monetaria della Bce anche alcuni strumenti di una comune politica economica, come suggerito negli ultimi anni da Mario Draghi e ora da Christine Lagarde. In questo c’è in effetti qualcosa di storico».

Possiamo già parlare di politica economica condivisa oppure si è ancora lontani?

«Siamo ancora lontani da una politica economica condivisa. D’altra parte le attuali regole comunitarie prevedono una politica economica al più coordinata. La crisi provocata dalla pandemia, che tanto danno sta facendo alle nostre economie, ha però consentito di fare un primo passo nell’ambito di un percorso comune. D’altronde sarebbe stata una scelta miope non approfittare di questa drammatica circostanza per serrare le fila e mettere a punto il piano che regge sui quattro pilastri indicati e che abbiamo condiviso nel documento finale di giovedì».

Quando lei parla dei quattro pilastri immagino alluda ai 240 miliardi messi a disposizione dal salva-Stati, ai 200 miliardi di interventi della Bei, ai 100 miliardi del fondo Sure per la disoccupazione e ai miliardi che raccoglierà quello che lei definisce “Fondo Rinascita”. Di quest’ultimo però si sa poco o nulla: una promessa che oggi nessuno è in grado di valutare e quantificare.

«E più di una promessa. E comunque i primi tre pilastri esprimono insieme un impegno da 540 miliardi, una potenza di fuoco targata Europa inimmaginabile solo qualche mese fa. Ne beneficeranno maggiormente i paesi a più alto debito che rischiano di essere penalizzati da una crisi simmetrica che potrebbe avere conseguenze asimmetriche aumentando la divergenza tra le economie della zona euro. Un pericolo che dobbiamo evitare».

Ancora non ha spiegato quali sono gli obiettivi di raccolta del Fondo Rinascita e in che modo verrebbe gestito, qualora dovesse prendere forma.

«Condivido le stime della Bce secondo la quale per affrontare le conseguenze di questa crisi l’Europa dovrebbe mettere in campo qualcosa come 1.500 miliardi di interventi comuni. E poiché 540 miliardi sono di fatto già strutturati, penso che il Fondo Rinascita debba fare i conti con quell’ordine di grandezza».

Mi permetta di essere scettico sui tempi di realizzazione. Troppe volte l’Europa ha promesso e poi non mantenuto. E quando ha mantenuto è arrivata due o tre anni dopo il necessario.

«Non possiamo permetterci di partire tra due anni. Gli effetti della pandemia sono già drammaticamente tangibili. Si parla spesso del Piano Marshall, ma nel 1947 la guerra era alle spalle. Noi ora siamo nel pieno della pandemia, abbiamo davanti un periodo di sacrifici e di sfide che possono frantumare l’Unione se non verranno affrontati con gli strumenti adatti».

Che cosa teme maggiormente in questa situazione?

«Vede, il piano che abbiamo varato risponde a due obiettivi: il primo, di priorità immediata, riguarda l’emergenza sanitaria, la tenuta delle nostre imprese e le garanzie sul fronte del lavoro; il secondo, macroeconomico, punta ad evitare che la pandemia accentui le differenze tra Paesi. In una crisi del genere non possono esserci vincitori e vinti».

Chi gestirà il Fondo Rinascita? E come si pensa di raccogliere i 1.000 miliardi che servono alla causa? Persino gli olandesi si dicono d’accordo a parole, ma guai a pronunciare la parola “debito condiviso”…

«Un collegamento possibile è il bilancio europeo, sarebbe la cornice ideale sul piano istituzionale. Ma senza rinunciare a far partire il Fondo in tempi rapidi».

Lei parla di raccolta di fondi ma non pronuncia mai la parola “bond”. C’è un motivo?

«Giusto parlarne, ma partendo sempre dagli obiettivi che si vogliono perseguire. Condivisi gli obiettivi troveremo il veicolo migliore per le emissioni comuni necessarie a finanziarli».

A proposito di debito, il fatto di aver ridotto al minimo le cosiddette “condizionalità” previste dal fondo salva-Stati, in molti italiani non ha cancellato i timori che, terminata l’emergenza, alla fine possa scattare qualche trappola. Ricorda quando Bruxelles ci assicurò che se avessimo applicato il bail-in alle banche fallite, subito sarebbe arrivata la garanzia europea sui depositi bancari? Bene, il bail-in è stato applicato con sacrifici dolorosi per i risparmiatori, ma la garanzia sui conti bancari ancora non si vede.

«Premesso che la crisi di oggi è ben diversa da quella di dieci anni fa e che, come ho già detto, l’obiettivo del piano è rilanciare l’economia impedendo che questa crisi comune abbia conseguenze troppo diverse, non dobbiamo dimenticare che accanto alle iniziative dell’Unione e dei singoli governi c’è una Bce che è pronta a fare tutto ciò che serve per impedire manovre destabilizzanti. L’obiettivo del Fondo di rinascita non è la mutualizzazione del debito accumulato negli ultimi trent’anni. E’ una condivisione temporanea e mirata a obiettivi comuni per rispondere alla peggiore crisi che ci ha colpiti dopo la guerra».

Sempre a proposito del fondo salva-Stati, sembra di capire che i 35-36 miliardi messi a disposizione dell’Italia serviranno solo ad affrontare l’emergenza sanitaria in tutte le sue declinazioni. È davvero così?

«Le linee di credito facilitate del Meccanismo di stabilità sono a disposizione di qualsiasi Paese voglia usarle per spese sanitarie dirette e indirette, di cura e di prevenzione. Nulla a che vedere con gli interventi salva-Stati e le relative condizionalità. Penso sia un buon risultato per l’Italia, anche se non spetta a me dirlo. La competenza, come dimostra l’azione del ministro Roberto Gualtieri, comunque aiuta».

Dalle sue parole sembra quasi di capire che questa volta nessuno si può lamentare, niente lacrime e sangue insomma.

«Sono agevolazioni finanziarie offerte agli Stati che vorranno usarle per la sanità, la cassa integrazione e la liquidità destinata alle piccole e medie imprese, non capisco coloro che parlano di lacrime e sangue».

Ha mai temuto in queste settimane che il tiro alla fune sul debito condiviso potesse provocare strappi irreparabili all’interno dell’Unione?

«Temo una sfiducia verso il progetto europeo. Molti cittadini europei chiedono all’Europa di fare di più. E io sottoscrivo in gran parte questa richiesta, a patto che non venga da chi ha sempre fatto di tutto per indebolire l’Unione. Le istituzioni europee hanno fatto molto. Dalla sospensione del Patto di stabilità alle nuove regole per gli aiuti di Stato e per l’uso dei fondi europei, fino al massiccio intervento della Bce. I singoli Paesi hanno fatto molto a livello nazionale e, da ieri, anche con un intervento comune. Ma resta vero che bisogna fare di più».

Ma le divisioni c’erano e ci sono tuttora, e non solo sul debito condiviso, come dimostrano alcune rigidità ribadite in questi giorni dalla cancelliera Angela Merkel.

«Le divisioni ci sono eccome. Ma io lavoro per superarle. Se non ora, quando? Dobbiamo costruire alleanze, compiere salti culturali, spiegare in tutti i paesi che non è con gli egoismi nazionali che si esce da questa terribile crisi. Il ruolo della Germania resta decisivo e la cancelliera Merkel sa bene che non c’è Germania prospera se non c’è prosperità in Europa»

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