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L’allarme che suona per l’Europa

«La situazione dell’Italia si sta avvitando in una spirale distruttiva» e «non c’è un momento da perdere». Così Massimo Cacciari nell’appello firmato da personalità della cultura e rivolto a un’opinione pubblica forse non ancora consapevole della valanga che si è staccata dalla cima e si dirige a valle.

Eppure gli indizi si moltiplicano sotto gli occhi. Pochi giorni fa il premier Victor Orban ha tenuto un discorso alla minoranza ungherese in Romania e ha usato parole esplicite. Inquietanti ma esplicite. Ha parlato di una “nuova era” destinata a spezzare la “solitudine dell’Ungheria durata un secolo”.
Alludeva all’amputazione di due terzi del Paese dopo il trattato di Trianon coi nuovi confini partoriti dalla Grande Guerra. La nuova era di Orban vivrebbe di due fasi.
La prima destinata a collegare i paesi coinvolti – i quattro di Visegrad, più Romania e magari Croazia, Serbia e domani il Montenegro – con infrastrutture viarie e la sincronia delle politiche energetiche e di difesa. La seconda fondata sui principi di una nuova regione battezzata “Europa centrale”: il primato della cultura cristiana rigettando il multiculturalismo, la difesa del modello tradizionale di famiglia, il diritto al protezionismo economico, il potere di respingere i migranti e proteggere i confini.
La chiusa conferma l’allarme di Cacciari. Per il premier ungherese la sfida oggi è «mostrare che c’è un’alternativa alla democrazia liberale. Trent’anni fa pensavamo che l’Europa fosse il futuro, ora siamo noi il futuro d’Europa».

Questo è il punto della cronaca dove l’Europa è arrivata. E questa – hanno ragione Cacciari e gli altri firmatari dell’appello è la responsabilità enorme in capo a quanti vedono nel disgregarsi del continente la via per una regressione drammatica dei valori liberali e di civiltà. Tra meno di un anno nascerà il nuovo Parlamento di Strasburgo e saranno quelle urne a indicare l’orientamento della Storia.

La famiglia socialista, come le singole forze progressiste, non è in grado da sola di reggere l’urto della nuova destra nazionalista. Perché non è il populismo o il sovranismo – termini ambigui per definizione – a profilare quell’impianto, ma la degenerazione di un nazionalismo aggressivo e verbalmente violento. Attrezzarsi allo scontro col ritorno di quella cultura è la condizione per non finire sopraffatti da principi incompatibili con gli ultimi sette decenni, quelli della grande pacificazione.

Per riuscirci però l’intero campo democratico e della sinistra deve sfidare la destra sul terreno dove oggi essa pare più solida, la sfera dei valori egemoni, di cosa intendiamo per Europa in un passaggio rivoluzionario della sua parabola.
Vuol dire resettare parecchie categorie quando si ragiona di economia, disuguaglianza, integrazione, qualità della democrazia e delle nostre istituzioni. Guai a pensare di rinviare questo confronto. La sirena dell’allarme è suonata. Tapparsi le orecchie per non sentirla equivarrebbe al più colpevole degli errori. Alle spalle abbiamo la peggiore sconfitta della nostra vita. Solo uno sguardo lungo sul continente che ha reso possibile diventare ciò che siamo potrà riscuoterci e farci ripartire. Col passo giusto.

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