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La storia di Cheikh, una lezione per i razzisti nostrani

Cheikh Tidiane Gaye è un poeta e scrittore che mi onora della sua amicizia. Si sente profondamente italiano, pur non scordando nulla di sé e della sua cultura, maturata in quel crogiolo di lingue e culture che è il Senegal. Scrive e sogna in italiano e adora la letteratura in generale. Da Arcore, dove vive da anni, ha deciso di condividere questo suo amore per la lingua e cultura italiana con tanti altri giovani del suo paese originario. Così ha deciso di promuovere una raccolta di libri da donare poi alla biblioteca del dipartimento di italiano dell’università Cheikh Anta Diop di Dakar. In pochi mesi sono così stati raccolti oltre 900 libri, da Dante a Montale passando per Manzoni. E nelle prossime settimane continuerà la raccolta a favore di un liceo della città di Saint Louis. Un piccolo grande gesto che rafforzerà l’immagine dell’Italia e il suo appeal verso quei giovani africani che un domani forse saranno la classe dirigente del loro paese. Gli anglosassoni seguaci di J.Nye parlerebbero di “soft power” , più semplicemente Cheikh sta facendo un grande favore all’Italia, costruendo uno di quei ponti di cui Papa Bergoglio parlò settimane or sono e contribuendo allo sviluppo di una globalizzazione fatta di legami e interdipendenze culturali.

Un episodio non isolato, questo, di cui in pochissimi abbiamo saputo e che invece sarebbe utile far conoscere. Sempre più spesso infatti siamo costretti ad ascoltare frasi razziste e xenofobe come “torna a casa tua” o “prima gli italiani”. Non più ormai chiacchiere da bar, ma tesi illustrate anche nei talk show tv o affermate senza vergogna in interviste e comizi. Assistiamo all’affermarsi di una cultura apertamente razzista, che necessita ormai di una risposta culturale forte oltre che di una legislazione moderna e della socializzazione delle tante buone prassi territoriali esistenti. Credo sia necessario ormai intervenire sulla percezione che si ha del fenomeno e riconoscere un cambiamento già avvenuto nella nostra società. Un cambiamento coerente con la nostra storia millenaria segnata dall’incontro fra popoli e dal sincretismo culturale che ne è derivato.

Due fattori questi che hanno generato quella che oggi è la nostra lingua e cultura. Se per secoli quindi siamo stati una potenza culturale nonostante le dimensioni territoriali ridotte e senza un passato coloniale che possa aver contribuito alla diffusione della nostra cultura nel mondo, una parte di questo “inspiegabile” successo dell’Italia nel mondo è dovuto anche alla nostra emigrazione e al ruolo fondamentale che quei migranti hanno avuto nella costruzione o ricostruzione di grandi paesi come gli Usa, il Canada, l’Argentina, il Brasile o Germania per citarne solo alcuni. Una emigrazione stracciona quella dei secoli scorsi ma che negli ultimi anni è ripresa con tantissimi giovani laureati italiani a cercare fortuna altrove. A questi si aggiunge ogni anno un numero crescente di cittadini “stranieri” nati o cresciuti in Italia, che non vedendo qui riconosciuti i loro talenti né la cittadinanza sono di fatto spinti a spendere altrove quella formazione qui ricevuta.

Un fenomeno ancora poco conosciuto, ma che nei prossimi anni è destinato a depauperare ulteriormente il nostro paese se è vero che la principale risorsa di una nazione è il proprio capitale umano e la sua cultura. In Italia – come in Europa – va affermandosi invece l’idea che l’immigrazione sia un problema punto e basta. Una idea affermata da forze politiche argomentate con una narrazione bugiarda del fenomeno migratorio, che ha contribuito a costruire una percezione distorta di questo, in termini per lo più problematici ed emergenziali. A questa sistemica e martellante campagna ideologica si aggiunge una legislazione ormai anacronistica e sbagliata come la Bossi-Fini, che mira a destabilizzare la vita di questi nostri “nuovi cittadini” o che ancora oggi ribadisce il principio dello ius sanguinis negando la cittadinanza ai loro figli che in larga misura non sono emigrati ma nati in Italia.

Questo approccio ideologico e la deriva culturale che ne consegue condanneranno l’Italia alla marginalità nei prossimi anni se non avrà la lungimiranza di valorizzare la ricchezza rappresentata dal suo capitale umano e dalle diversità che convivono al suo interno. Sicuramente un paese come l’Italia ne ha bisogno più di altri. Non abbiamo infatti milioni di lavoratori disponibili, né grandi risorse naturali e neanche superfici sterminate da coltivare. Conviene quindi – oltre ad essere giusto – investire sui talenti dei nostri cittadini e sulle potenzialità della nostra cultura sia in termini di produzione che di diffusione. Una diffusione che vede i milioni di nuovi cittadini e ragazzi nati o cresciuti in Italia come naturali promotori, in grado di dare un impulso enorme se messi nelle condizioni di poterlo fare. Credo che l’idea di una società aperta e inclusiva sia l’unica vincente e in grado di gettare le basi affinché l’Italia sia più coesa e forte, in grado di cogliere le sfide e le opportunità che ci aspettano in un futuro che è già presente.

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