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Violante: «Sull’immigrazione, la sinistra è ideologica e distante dal popolo»

«La sinistra ha confuso la politica con l’estetica, ciò che è corretto con ciò che è praticabile». Per Luciano Violante, 75 anni, ex presidente della Camera, ex magistrato, più volte parlamentare, dal Pci al Pd, una parte della sinistra ha un approccio ideologico al tema dell’immigrazione. «Non esiste il valore assoluto dell’accoglienza», ammonisce.

A sinistra è stato sostituito il mito dell’operaio con la figura del migrante?
«L’internazionalismo, l’attenzione agli ultimi, sono sempre stati valori della sinistra. Il punto è che a volte lo stare da questa parte è dentro un involucro ideologico che non si cura della praticabilità delle scelte che si fanno né delle conseguenze».

Si è persa la consapevolezza di certi meccanismi sociali?
«Nel mondo contemporaneo è in corso una scomposizione e ricomposizione di valori. ‘La sinistra’ è una categoria ideologica; esistono ‘le sinistre’. Ma è tutta la sinistra che ha perso il contatto col popolo. Negli Usa, Trump ha parlato alla maggioranza messa ai margini, mentre la Clinton si preoccupava di ciò che era ben educato dire. A sinistra insomma si è confuso il politicamente corretto con il politicamente praticabile, la politica con l’estetica».

E questo vale anche per il tema dell’immigrazione?
«Non esiste un valore assoluto dell’accoglienza. Anche il Papa ha detto di accogliere ‘finché è possibile’. ‘Salvare vite umane e basta’, ‘accogliere e basta’… va benissimo tutto, ma bisogna vedere bene il contesto generale. Se per esempio viene fuori che le Ong, oggettivamente, anche non per loro volontà, rischiano di essere una catena del traffico, è chiaro che la cosa non va bene».

Ma queste ‘sinistre’ sono proprio inconciliabili tra loro?
«Il realismo è incompatibile con l’utopia. E l’utopia gioca la partita dell’estremismo ideologico. Un’inutile verginità, che poi vuol dire sterilità».

Però anche all’interno dello stesso Pd ci sono state tensioni, tra i ministri Minniti e Delrio.
«Le differenze di posizioni sono inevitabili. Il vero è problema è trovare un punto di conciliazione, che in quel caso si è trovato. Se avessi dovuto scegliere, io avrei scelto la linea di Minniti, perché oltre all’accoglienza è importante definire una ‘politica della partenza’».

Oltre all’aderenza con il popolo, la sinistra ha perso anche i suoi voti?
«I blocchi sociali di una volta si sono scomposti perché è cambiato il modo di produrre. Non c’è più l’operaio-massa. La sinistra, ma non solo, ha difficoltà di raccordo con pezzi della società. Tant’è che oggi uno dei punti di riferimento è il rancore. E questa società vota in prevalenza Movimento 5 Stelle e Lega. Francamente non si può imputare a nessun partito di non avere radicamento sociale, ma semplicemente perché non si sa dove mettere le radici, in questo mondo frammentato».

C’è stata una mutazione culturale della sinistra?
«A mio avviso il punto di partenza è la caduta del muro di Berlino. Il problema di fondo che si sono poste le forze di sinistra allora è stato cercare di capire quale fosse il capitalismo `buono’ e quale quello ‘cattivo’. Tutto questo sforzo ha comportato un allontanamento dai grandi problemi sociali tipici della sinistra».

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