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L’estate del nostro scontento

Come stanno gli italiani, in questo agosto? Com’è il loro stato d’animo? Parafrasando il titolo shakespeariano dell’ultimo, bellissimo, romanzo di John Steinbeck si potrebbe dire che stiamo vivendo, sotto il sole, «L’estate del nostro scontento».

 

Sbagliava chi ha pensato che il Covid sarebbe stata una nuvola, un temporale. E non mi riferisco qui alle conseguenze devastanti sull’economia mondiale e sul reddito di tante famiglie o alla paura sociale che dilaga. Sto parlando di qualcosa che è generato, insieme, da questo senso di spaventosa incertezza, la sensazione di camminare su un filo sospeso, e dalle conseguenze del protrarsi di un modo di vivere la nostra esistenza che non ci appartiene, ci impaurisce, ci è estraneo.

 

Il lockdown non ci appare solo come un ricordo di un passato del quale non avere nostalgia. Ci viene indicato di nuovo come una minaccia. Come se quell’incubo potesse, qualcuno dice addirittura «dovesse», tornare prepotentemente nel nostro futuro e vincere le ultime resistenze di un corpo sociale minato.

 

Questo sta generando una diffusa, sensazione di rabbia e precarietà. Sentimenti pericolosi, specie se vissuti collettivamente. Non si può essere sereni, aspettando un meteorite la cui caduta è annunciata. E quindi dallo spirito solidale dei giorni più difficili, quando le bare di Bergamo facevano silenzio nelle case, si sta passando a una condizione psicologica da mors tua vita mea, al ritorno di semplificazioni rozze e di una strumentale ricerca del nemico, a cominciare «dagli immigrati che sputazzano».

Le persone cercano, in queste settimane sospese, una normalità che si erano illuse di aver ritrovato. Ma lo fanno con la paura di quello che le attende, nel lavoro o a scuola, e di quello che potrà accadere in un autunno che non è più una stagione, ma una minaccia. Faccio un solo esempio: lo smart working è sicuramente uno strumento importante per assicurare la tenuta delle strutture produttive in tempi di distanziamento sociale.

 

Eppure questa condizione comporta una nuova solitudine, anche in termini di diritti, del lavoratore isolato da una dimensione sociale che appare peraltro necessaria anche per la qualità e la creatività del lavoro. E credo che a nessuno sfugga, se ha occhi per vedere, l’effetto di desertificazione urbana che questa condizione produce. In Italia sono migliaia gli esercizi commerciali, bar, ristoranti, negozi che hanno chiuso.

 

Dietro quelle saracinesche vuote c’è la fine delle speranze di persone che hanno investito per anni nel loro lavoro, c’è il deprezzamento del valore degli immobili, c’è l’inaridirsi di un panorama urbano che si fa grigio come il colore delle lamiere che segnalano la fine di una storia economica e sociale. Chi ha amministrato qualsiasi comunità sa benissimo che c’è un solo rimedio al rischio del degrado: portare nei quartieri vita e luce, funzioni e servizi, attività e cultura.

 

La prima cosa che oggi la democrazia deve fare, condizione della sua stessa sopravvivenza, è assicurare sicurezza sociale. La sicurezza generata nei cittadini dalle istituzioni, dalla competenza, dal rigore, dalla chiarezza di un indirizzo generale, di un disegno per il Paese.

 

Ma questo richiederebbe un sistema politico e istituzionale equilibrato, fondato sulla coesistenza, tra governo e parlamento, di funzioni di decisione e controllo che oggi sono confuse in un pasticciato caos in cui coesistono stati d’emergenza e consociativismo. Ci vogliono governi scelti dai cittadini e non frutto di inopinati giri di valzer come quelli che hanno accompagnato le ultime legislature.

 

La Seconda Repubblica non è mai cominciata. Essa dovrebbe essere frutto di un disegno d’insieme di revisione costituzionale e non di strappi in singoli punti, magari determinati da esigenze elettorali del momento. L’emergenza sociale richiede come non mai una politica alta, capace di decidere, non refrattaria ai controlli puntuali delle istituzioni. La fragilità del sistema ha conseguenze anche sulla scelta di impegno delle risorse disponibili. Come ha scritto Ferruccio de Bortoli su queste colonne, l’accensione di ulteriore deficit per cento miliardi non è un’occasione che l’Italia possa sprecare.

 

È un carico sulle spalle delle generazioni future che merita di essere impegnato non con una miriade di interventi a pioggia, scelta tipica della politica fragile e impegnata a sopravvivere, ma con scelte strutturali capaci di mettere mano ai ritardi storici di un Paese gran- de e fragile: il Sud, la scuola, la stabilità dei lavori, le infrastrutture materiali e tecnologiche, la riconversione ambientale dell’economia. E bisogna farlo assicurando ai cittadini la necessaria semplicità. Esiste una singolare distorsione: la politica di oggi è semplificata fino a diventare grottesca.

 

E invece il cittadino che si avvicina alle decisioni pubbliche è costantemente respinto da norme incomprensibili e contraddittorie. Bisognerebbe fare esattamente il contrari o : la politica dovrebbe recuperare la complessità di una dimensione strategica che oggi è perduta e lo sforzo di chi governa e decide dovrebbe rendere la vita pubblica semplice, trasparente, accessibile, inclusiva. Per questo ci vogliono istituzioni robuste. La grandezza della democrazia è nell’equilibrio tra capacità di decisione dell’esecutivo e forza di controllo del Parlamento.

 

Senza l’una e l’altra il rischio, in tempi di acuta crisi sociale, della crescita di moderne derive autoritarie è forte. Valga come augurio alla ragione la citazione del Riccardo III di Shakespeare da cui è tratto il titolo del libro di Steinbeck: «Ora l’inverno del nostro scontento è reso estate gloriosa da questo sole di York, e tutte le nuvole che incombevano minacciose sulla nostra casa sono sepolte nel petto profondo dell’oceano».

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