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Minniti: “Restituire alla politica impegno collettivo e passione”

Sulla scrivania da ministro dell’Interno ha “Darkest Hour” di Anthony McCarten, da cui è stato tratto il film “L’ora più buia” con Gary Oldman nei panni di Winston Churchill, e la versione originale dell’ultimo romanzo di Don Winslow “The Force”, la storia del poliziotto Dennis Malone, il più abile, bravo, e anche il più cattivo sbirro di New York, «l’uomo che sapeva in quali armadi erano nascosti tutti gli scheletri, perché molti li aveva nascosti lui».

Ha le mani sporche di inchiostro nero per la stilografica con cui disegna numeri e scenari su un foglietto, nel cassetto ha la cartellina con i grafici che gli stanno più a cuore, i dati che riassumono un anno al Viminale: 119.310 migranti sbarcati nel 2017, il 34 per cento in meno rispetto a un anno fa, il 70 per cento in meno dal mese di luglio, laddove tra gennaio e giugno erano stati il 19 per cento più. E gli altri dati: diecimila minori in meno, undicimila migranti ricollocati, 104 i presenti negli hotspot.

Marco Minniti è soddisfatto di questo risultato, per nulla scontato dodici mesi fa, che costringe Matteo Salvini ad ammettere: «Mi fa piacere gli sbarchi siano diminuiti, ma il problema resta».

Come dire che il leader leghista candidato premier, o almeno ministro dell’Interno, non saprebbe fare meglio. Ma da politico di lungo corso, il suo primo incarico di governo risale a venti anni fa, nel 1998 come sottosegretario alla presidenza del Consiglio con Massimo D’Alema, Minniti sa bene che il 2018 sarà un’altra storia, è una pagina bianca tutta da scrivere, come ha detto il presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel messaggio di fine anno.

E allora per capire come andrà la campagna elettorale e cosa ci aspetta l’anno politicamente più incerto bisogna tornare qui, a confrontarsi e raccogliere gli entusiasmi, le inquietudini, le preoccupazioni, gli auspici del ministro dell’Interno più discusso e controverso.

«In questo anno si è privilegiato il ruolo terzo del ministro dell’Interno, non mi sono mai stancato di ripeterlo», dice Minniti. «Non faccio parte di un governo tecnico, sono convintamente espressione di una maggioranza e di un governo politico. Ma so bene che chi ricopre l’incarico che svolgo io non può essere di parte, deve essere un punto di riferimento di tutti gli italiani. Per questo in un anno di governo ho collaborato con i sindaci di tutti i partiti, con i primi cittadini del centrodestra, o del Movimento 5 Stelle, o con Luigi De Magistris a Napoli. Non per ragioni di diplomazia, ma perché ne sono profondamente convinto. Il ministro dell’Interno è un elemento di equilibrio democratico, tanto più deve esserlo in una situazione di incertezza».

L’inquilino del Viminale non torna sulla richiesta di Emma Bonino di riaprire i termini per la raccolta delle firme per la lista +Europa, appoggiata anche dal Pd, rimanda alla nota con cui l’ufficio elettorale del ministero ha chiuso il caso (la norma del Rosatellum è chiara e non ammette interpretazioni), chiude la polemica: «Sono paziente per carattere e devo esserlo per dovere istituzionale…», sospira Minniti, ma di certo non ha gradito che sul ministero si sia scaricata una difficoltà tutta politica, l’incapacità dei partiti, compreso il suo, il Pd, di affrontare e risolvere la questione prima che il caso esplodesse.

Per esempio con l’emendamento che fu presentato in Parlamento nella legge di bilancio, e ritirato per la rivolta delle opposizioni che non ammisero la possibilità per una lista di raccogliere firme in bianco per i collegi uninominali. Un tecnicismo? Sì, forse, ma dal punto di vista di Minniti sarebbe stato impossibile intervenire dopo una mancata modifica del Parlamento e il no dell’ufficio elettorale del Viminale, per di più a vantaggio del suo partito o della sua coalizione: sarebbe stata messa in crisi la funzione terza del Viminale. Quindi niente soccorso in extremis per la lista dei radicali, a costo di creare qualche tensione con il vertice del Partito democratico che si ritrova senza alleati, o quasi, nello scontro elettorale. Viste dal Viminale, ci sono altre preoccupazioni.

«Questa è la prima campagna elettorale nazionale che l’Italia affronta nell’epoca di Islamic State, dentro una fase di minaccia terroristica. Nel 2013 l’Is non esisteva ancora, non dobbiamo mai dimenticarlo. Il nostro compito principale in questi due mesi sarà quello di garantire elezioni sicure e libere. La seconda preoccupazione, quel che mi sta più a cuore», continua Minniti, «è come tutelare il rapporto tra l’esigenza della massima libertà di espressione e la partecipazione al voto degli elettori. In campagna elettorale è richiesto un forte confronto tra le forze politiche e i candidati, a volte anche aspro e conflittuale, ma c’è il rischio che la durezza dei toni allontani dalla partecipazione gli elettori, sia escludente per i cittadini che non se la sentono di partecipare a una competizione giocata tutta sullo scontro e non sulle proposte».

Forse è sempre stato così, tra i tanti anniversari del 2018 c’è anche il settantesimo delle elezioni del 18 aprile 1948, la gara tra la Dc di Alcide De Gasperi con i suoi alleati e il Fronte popolare delle sinistre comuniste e socialiste che assomigliò a uno scontro di civiltà, in tempo di guerra fredda, un giudizio finale, Armageddon, con una partecipazione popolare quasi unanime, il 92 per cento degli aventi diritto. Ma era l’Italia appena uscita da un ventennio di dittatura senza elezioni, oggi si prepara una campagna elettorale fin troppo accesa nei toni ma spenta nei progetti e nelle idealità, con il rischio che dal voto non emerga nessun vincitore, nessuna maggioranza chiara e che la legislatura sia a vuoto e che si torni a votare subito dopo.
«Io dico invece che il voto è il momento più forte per una democrazia. Le elezioni non sono inutili, non si fanno per tastare il polso dell’opinione pubblica come se fossero un sondaggio. Con le elezioni si determinano gli equilibri politici del Paese», replica Minniti, in sintonia, anche in questo caso, con quanto detto dal presidente Mattarella sul voto che serve ad aprire una nuova fase politica, perché il ritmo democratico coincide con l’aprirsi e il chiudersi delle legislature.

Nella necessità di uno scontro aspro ma regolare c’è anche il pericolo delle fake news, così come segnalato dal rapporto Biden in cui l’ex vice-presidente Usa dell’amministrazione Obama ha denunciato interferenze della Russia nella campagna referendaria del 2016.
I direttori dei servizi di sicurezza hanno già smentito questa ipotesi, il ragionamento di Minniti è più ampio: «I social network svolgono un ruolo sempre più importante nell’evoluzione della democrazia. Per questo nel G7 di Ischia dei ministri dell’Interno a ottobre per la prima volta i grandi provider, Google, Facebook, Twitter e Microsoft, hanno accettato di confrontarsi con i governi su come intervenire per bloccare l’uso del web per finalità terroristiche. È un primo passo, vado oltre, serve un patto tra le istituzioni democratiche e i provider contro le fake news, perché nessun Paese può farlo da solo e in modo unilaterale. Nelle stesse settimane l’Italia si è data uno strumento sulla cybersicurezza, la direttiva Gentiloni, con un unico centro di coordinamento affidato al Dis e con la nomina a vice-direttore del professor Roberto Baldoni, da anni tra i massimi esperti del settore».

L’altro potere in grado di condizionare il voto non arriva da lontano e non è virtuale, è tipicamente domestico e radicato sul territorio. Nell’ultimo anno il ministero sotto la guida di Minniti ha sciolto 21 comuni per infiltrazione mafiosa, la maggior parte in Calabria e in Campania, ma anche al Nord. Nelle ultime settimane ci sono stati i casi del municipio romano di Ostia, con l’irruzione sulla scena anche mediatici della famiglia Spada, e l’anziana Anna Rosa Tarantino uccisa alla fine del 2017 durante una sparatoria a Bitonto, in quella Puglia in cui ad agosto ci fu una mattanza feroce, l’uccisione di due boss e di due contadini innocenti testimoni nelle campagne vicino Foggia. E ora, con il ritorno dei candidati nei collegi, dove si vince o si perde per un pugno di voti, le mafie torneranno a far sentire il loro peso elettorale. «Io ho chiesto un patto dei partiti contro la criminalità, agli Stati generali dell’antimafia a Milano», si appassiona il ministro. Finora c’è qualcuno che ha risposto? «Io sto aspettando, la campagna è appena agli inizi. Ma insisto. Non chiedo una dichiarazione generica, una frase in un’intervista buttata lì. Chiedo ai capi dei partiti di sottoscrivere in modo solenne una carta, un patto pubblico, in cui si impegnano a non chiedere e a non ricevere appoggio elettorale dalle mafie. Lo chiedo a tutti e mi aspetto che firmino tutti».

Dovrebbe essere il minimo sindacale, ministro, invece sembra un’impresa ai limiti dell’impossibile, perché?
«Perché non è vero che sia il minimo, non sono solo parole, non è una semplice denuncia. Lei mi ha parlato dei collegi e subito ha fatto riferimento al rischio infiltrazioni mafiose. Ecco, in una democrazia non può esistere l’alternativa secca: o liste bloccate o liste condizionate, o i partiti scelgono al posto degli elettori o il voto è inquinato dalle mafie. Io mi rifiuto di pensarla così. Il collegio consente agli elettori di scegliere un candidato, una persona, ma i partiti devono mettere in campo gli anticorpi, devono candidare persone che non siano condizionabili dai clan. Le forze dell’ordine e la magistratura fanno il loro lavoro, ma la politica non può limitarsi ad aspettare la magistratura, deve arrivare prima. È in gioco la credibilità della democrazia».

Nel 2017 Minniti è stato il personaggio politico più discusso. A sinistra, per i metodi utilizzati per rimettere ordine nel Mediterraneo, il codice firmato dalle Ong, la denuncia delle violazioni dei diritti umani in Libia. Nel governo, per il suo ruolo che avrebbe superato i confini di azione del ministro dell’Interno per invadere altri campi.
Ha costruito il cosiddetto Minniti-compact con gli aiuti umanitari in Libia e solo nelle ultime settimane ha visto il premier libico Al-Sarraj, il suo rivale generale Haftar, il re di Giordania Abdallah, l’egiziano Al-Sisi. Una situazione di grande potere, ma anche di solitudine, perché l’attivismo non è passato inosservato.

«Io credo che l’Italia abbia dimostrato al resto d’Europa che si può affrontare una questione come l’immigrazione, che non è un’emergenza, bilanciando i sentimenti di umanità e la richiesta di sicurezza. Nella cultura riformista questi aspetti vanno tenuti insieme, la democrazia esiste per trovare conciliazione tra aspetti che da soli andrebbero separati. Oggi in Libia non ci sono più santuari inviolabili, stabilizzare la Libia significa diminuire il potere dei trafficanti. Abbiamo messo in campo un modello di governo dell’immigrazione: gli Stati salvano i migranti, le istituzioni d’intesa con le organizzazioni umanitarie come nel caso dei corridoi per portare i rifugiati da noi, chi non ha titolo per essere accolto come rifugiato sarà rimpatriato. Non abbiamo alzato muri o costruito fili spinati».

Quanto all’attivismo, e all’ambizione del ministro che qualcuno vede in corsa per Palazzo Chigi nella prossima legislatura, Minniti dà una risposta spiazzante: «Sono contento che nel mio partito si parli di fare squadra, che se ne faccia parte o no. Nell’impegno collettivo c’è un’idea di politica, l’ho detto alla stazione Leopolda qualche settimana fa, la politica è amicizia, non una tragedia shakespeariana, magari di serie B, dove c’è sempre quello che ti tradisce. Mai come oggi la politica è interrogata e sfidata dai populismi sulla sua credibilità. Che significa fare quel che si dice, per combattere il logoramento delle parole e delle promesse, e restituire la politica al suo senso di impegno collettivo e di passione».
Sì, perché l’ultima citazione dell’antico tesserato del Pci Minniti non è per Don Winslow, ma per Antonio Gramsci: «Lui diceva che il partito è la passione organizzata. E il partito viene meno se non c’è questa idea della passione, di un impegno collettivo». Il rischio stallo, di una campagna elettorale inutile, si combatte così. Anche se resta il dubbio: cosa farà Minniti dopo?

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