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Strage nella moschea, Minniti: “È un attacco all’Egitto ma anche una sfida che riguarda anche noi”

Minniti: “La drammatica carneficina della moschea di al Rawdah testimonia una straordinaria capacità d’attacco. Si colpiscono fedeli, bambini, mamme. È un attacco all’Egitto ma dobbiamo sentirlo come una sfida che riguarda anche noi”

 

Napoli questione nazionale, metropoli in cui più di altre c’è l’esigenza di garantire sicurezza senza blindare le strade a patto che gli enti locali, Comune e Regione, stiano dentro un percorso comune. E ancora l’incubo del terrorismo e soprattutto dei foreign fighters di ritorno, quelli che oggi, e non ieri, rappresentano anche per l’Italia una minaccia reale, i convitati di pietra del nostro Natale.
Una mattinata con Marco Minniti nel suo studio al Viminale, anche alla ricerca di quella passione che in politica appare smarrita: «Un partito cosa è se non passione organizzata?». Lo diceva Antonio Gramsci, lo ripete il ministro dell’Interno quando si prova ad accennare alle contingenze anguste del suo Pd, su cui preferisce rinviare valutazioni, in attesa del lavoro che Piero Fassino sta compiendo alla ricerca di un dialogo, che al momento pare impossibile, con quel pezzo di compagni di sempre andati altrove: «Ci sono vite trascorse insieme, spero amicizie sopravvissute come con D’Alema. Parlerò solo quando questa storia sarà arrivata alla sua conclusione», dice Minniti.

L’altro giorno a differenza del passato lei ha affermato che i foreign fighters sono una minaccia reale: perché ha cambiato idea, quali sono gli elementi di novità?
«Il cambio di situazione sta nella sconfitta militare di “Islamic state”, organizzazione terroristica unica non solo nell’attualità, ma nella storia delle organizzazioni terroristiche del mondo. L’ Isis ha mostrato capacità simmetrica di sviluppare campagne militari, conquistare territori e gestirli organizzando istituzioni statuali; l’altro aspetto è stato invece di tipo asimmetrico propriamente terroristico nello sferrare attacchi, un Proteo che cambiava forma. Nel momento in cui sono cadute Mosul e Raqqa, a loro modo ritenute capitali, è però cambiato radicalmente lo scenario: la sconfitta militare di “Islamic state” non è la sua fine e in questo momento è ragionevole pensare che di fronte a una sconfitta possa esserci l’intento di rispondere con un’azione terroristica per dimostrare che l’organizzazione è ancora esistente e capace di avere un’ operatività. Ancora non sappiamo chi ha armato le mani dei terroristi in Egitto, tuttavia la drammatica carneficina della moschea di al Rawdah testimonia una straordinaria capacità d’attacco. Si colpiscono fedeli, bambini, mamme. È un attacco all’Egitto ma dobbiamo sentirlo come una sfida che riguarda anche noi. Nessuno sa quanti siano i combattenti stranieri, ma si può pensare, facendo una media delle informazioni avute, che siano tra venticinque, trentamila provenienti da cento paesi del mondo.
Una parte di questi saranno morti nelle campagne militari e per questo è importante che sul teatri di battaglia vengano raccolte informazioni e subito circuitate. Ma quelli che non sono morti avranno l’obiettivo di tornare nei paesi di provenienza, sono in questo momento combattenti senza terra».

E l’Italia, come primo punto di approdo di migranti, è il Paese più esposto.
«Potenzialmente questi miliziani di ritorno possono essere diverse migliaia di persone. Dieci mesi fa avrei avuto meno timori di oggi perché siamo di fronte alla fuga individuale rispetto a una sconfitta militare, una diaspora di ritorno. Poiché ognuno di loro è alla ricerca di una via, è naturale pensare che possano utilizzare i flussi migratori, la via libica e quella dei Balcani. In particolare la frontiera a sud della Libia diventa sempre più la frontiera dell’Europa. E la stabilizzazione di quel Paese è ancora più centrale».

Ma in Libia le cose non sembrano andare come l’Italia vorrebbe tra Ong che fanno accordi con trafficanti di esseri umani e una guardia costiera che stenta a fermare gli scafisti, nonostante gli accordi e i soldi arrivati dall’Italia.
«Lo sforzo che noi abbiamo compiuto è quello di affrontare insieme coni libici, e in Libia, il problema dei flussi migratori, una sfida impegnativa. Una vera democrazia sa che non c’è una parola magica con cui si bloccano le migrazioni perché siamo di fronte a un problema strutturale del pianeta. L’obiettivo che ci siamo dati è di governare i flussi, non farsi dettare l’agenda dai trafficanti di esseri umani. Vanno separate due parole: l’emergenza dall’emigrazione, altrimenti gonfiamo le vele dei populisti. Bisogna dunque avere una visione che significa sconfiggere l’illegalità per affrontare poi il tema dell’immigrazione legale e dei canali umanitari».

Lo schema è questo ma si scontra con una realtà, quella libica in cui l’Onu denuncia l’esistenza di lager.
«Intanto abbiamo ottenuto una diminuzione considerevole dei flussi dalla Libia, meno 32 per cento, con un calo molto significativo da luglio a oggi. Il primo obiettivo che mi sono dato è considerare inaccettabile che vi possa essere gente che muore in mare: siamo passati da circa 3900 dispersi a 2900, ma questo non basta finché ci sarà un solo annegato. Tuttavia se vogliamo affrontare il tema della sicurezza, dobbiamo combattere l’illegalità, ed è quello che abbiamo cercato di fare in questi mesi insieme con la Libia. Tutto ciò non significa che non abbia chiaro il quadro delle condizioni non accettabili di coloro che sono tenuti nei centri di accoglienza in Libia. Situazione, purtroppo, non nuova e, tuttavia, sin dal primo momento l’abbiamo posta con forte determinazione. Sapendo che la Libia non ha mai firmato la convenzione di Ginevra del 1951. Proprio per questo abbiamo posto al centro della nostra cooperazione il rispetto dei diritti umani».

In pratica non c’è altra strada che quella intrapresa?
«Il primo risultato è che in questo momento operano in Libia le organizzazioni delle Nazioni Unite e se hanno potuto visitare 28 centri di accoglienza lo si deve alla nostra iniziativa. Se l’UHCR lavora con il governo libico per realizzare una struttura per i rifugiati “fragili”, donne, bambini, anziani da collocare dalla Libia in paesi terzi lo si deve anche alla nostra iniziativa. E ancora: se l’organizzazione mondiale per l’emigrazione ha potuto effettuare più di 12mila rimpatri assistiti dalla Libia lo si deve all’impegno dell’Italia e dell’Europa».

È dunque soddisfatto?
«No, ma il mio compito non è denunciare ma agire per cambiare le situazioni. La risposta al rispetto dei diritti umani non può essere la rinuncia al governo dei flussi migratori».

Alcuni terroristi coinvolti nelle stragi rivendicate dall’Isis sono transitati per l’Italia, qualcuno in particolare per il Sud: siamo sempre più base logistica?
«Non c’è nulla che ci possa dire che l’Italia sia una base di partenza o logistica. Non è questo quello su cui bisogna far leva per prevenire un attacco, piuttosto sulla nostra capacità investigativa. Ricordo che siamo un Paese che ha sconfitto il terrorismo, anche quello di stampo mafioso, e dunque facciamo affidamento al nostro patrimonio investigativo, professionale e operativo. Possiamo poi contare sul centro di analisi anti terrorismo, unico in Europa, che mette insieme forze di polizia e intelligence per valutare insieme, e in tempo reale, le informazioni che arrivano. L’altra arma sono i rimpatri forzati per ragioni di sicurezza nazionale: dall’inizio dell’anno ne abbiamo eseguiti 97, una cifra in considerevole aumento. È uno strumento fondamentale perché ci consente di intervenire contro soggetti che si sono radicalizzati senza essere ancora arrivati a una progettualità di carattere terroristico. Interveniamo insomma prima che ci siano gli estremi di un’azione di tipo giudiziaria. Ma tutto questo non ci mette al riparo: lavoriamo per il “mai” senza però dover pronunciare la frase “mai dire mai”».


Prima accennava alla mafia: lei è di Reggio Calabria terra della “ndrangheta sempre più “potenza” economica. La camorra continua a sparare e dopo la morte di Riina c’è da attendersi una riorganizzazione delle cosche siciliane?

«La morte di Riina non apre una partita per il ricambio ai vertici. È vero che lui era il ” capo dei capi” ma è stato al 41 bis. Inoltre quella “commissione” di Cosa Nostra che aveva lanciato la sfida allo Stato è al carcere duro o i suoi componenti sono morti. Quella sconfitta ha portato a un cambio di equilibrio dentro la holding delle mafie italiane, in cui la minaccia della ‘ndrangheta è cresciuta, tanto da essere oggi il principale player nel traffico degli stupefacenti. Non c’è dunque da aspettarsi una guerra per la successione di Riina perché la struttura è molto più complessa rispetto al passato. Siamo inoltre di fronte a una fase profondamente diversa: l’attacco lanciato con le stragi ha prodotto una risposta democratica molto forte e in questi 24 anni è cambiata anche la qualità del contrasto. Falcone, rompendo un vecchio schema interpretativo, pose con chiarezza il tema della sconfitta di Cosa Nostra: all’epoca si trattava di una richiesta di rottura, oggi è un obiettivo perseguibile».

Non ha la sensazione, soprattutto nel Mezzogiorno, di una caduta di tensione nel contrastare la criminalità organizzata e la sua capacità di ramificazione in tutti i settori delle società e delle istituzioni?
«Se vogliamo arrivare alla sconfitta delle mafie bisogna infatti tenere insieme più cose: le forze della polizia e la magistratura non possono farcela da sole. La politica deve essere in campo di più, rompere gli eventuali legami è un modo per colpire al cuore le organizzazioni criminali. Abbiamo sciolto quest’anno ventuno consigli comunali, nel 2016 otto. Quando si commissaria un Comune non è un bel giorno per la democrazia, ma tuttavia sono atti doverosamente forti. Tutto questo ci deve far interrogare sul ruolo della politica che deve fare prima e più rispetto alle indagini giudiziarie. L’ultimo aspetto è la partecipazione popolare, la capacità di coinvolgere 1′ opinione pubblica. È un aspetto fondamentale, sono grato alle associazioni che già svolgono questo lavoro, ma altro va fatto».

Il raid con otto feriti avvenuto nel centro di Napoli la scorsa settimana, durante la movida, segnala il fenomeno crescente di una violenza urbana che diventa autentica emergenza. Il sindaco de Magistris dice no alla militarizzazione della città ma garantire la sicurezza dei cittadini è essenziale. Che fare?
«Napoli è una grande metropoli europea e come tale va considerata. Nel suo essere questo, va misurato il profilo delle politiche di sicurezza, un problema che riguarda Napoli come il resto del Paese. L’unica cosa che non dobbiamo fare, grazie alle bellezze che l’Italia possiede, è evitare che gli altri non ci guardino. Per vincere questa sfida bisogna sviluppare una cooperazione con le realtà locali, da qui il decreto diventato legge sulla sicurezza urbana. La sicurezza non può essere garantita nello stesso modo da Bolzano ad Agrigento e per questo va messo in campo il rapporto con i municipi, i sindaci, la Regione. In base a questo modello, abbiamo affrontato il caso Napoli come una grande questione nazionale. Il primo marzo scorso con il presidente della Regione e con il sindaco abbiamo infatti messo in campo un piano organico per la sicurezza. Per garantirla non basta solo il pur importantissimo controllo del territorio da parte delle forze di polizia, ma c’è anche bisogno di politiche urbanistiche, inclusione sociale, arredo urbano, sostegno scolastico e culturale. Questo è un metodo moderno per affrontare il tema della sicurezza ed è questa la sfida che abbiamo di fronte».

Nel centro di Napoli però trionfa l’illegalità, il “salotto” della città è in mano ai parcheggiatori abusivi. In questo modo è un po’ più complicato tenere lontano i delinquenti.
«La strategia messa in campo l’abbiamo chiamata di saturazione del territorio: rendere visibili le forze di polizia ci ha portato a compiere un’importante operazione a Scampia. Abbiamo poi affrontato il tema della videosorveglianza insieme con la Regione: nel rione Sanità è stato realizzato un sistema completo, nel resto di Napoli siamo al 75%, prima eravamo a poco più del 50%, ma l’obiettivo è quello del cento per cento. Nei giorni scorsi la Regione ha deliberato 1’avvio delle procedure per il numero unico delle emergenze, 112, tra le prime sperimentazioni in Italia. Gli obiettivi che ci eravamo dati 1’1 marzo li abbiamo perseguiti con determinazione, ma non basta. Ricordo però che nel decreto sulla sicurezza urbana il tema dell’illegalità diffusa viene esplicitamente posto attraverso il potere di ordinanza che ha il sindaco, il Daspo urbano, un provvedimento amministrativo che può essere attuato subito. È così che si crea il clima, ma bisogna anche comprendere che in questi anni abbiamo inferto colpi duri alla camorra e una parte dei capi sono oggi in galera. Tutto questo ha prodotto l’esplosione delle medie e piccole forze dei clan che naturalmente rappresentano un problema insito nella natura camorristica, una deriva di gangsterismo. La risposte inevitabilmente sono l’attività di indagine e il controllo del territorio, ma una politica di sicurezza deve avere un progetto anche di costruzione di vivibilità. La piazza più sicura è quella con le forze polizia ma anche la più illuminata e la più vissuta. Questo è anche il senso dell’investimento fatto dal governo, prima di Renzi e poi di Gentiloni, nel piano per le periferie. Quello che però è avvenuto nei giorni scorsi a Napoli è un segnale che non può essere sottovalutato anche per la giovane età di coloro che sono stati protagonisti di quell’episodio. In questo ambito bisogna fare di più anche con un contributo da parte del Comune».

Il governo ha varato i collegi elettorali del Rosatellum, ma si racconta di tensioni con qualche collega sulla ripartizione dei comuni, in particolare della Toscana.
«Non è successo assolutamente nulla. Solo una deliberazione del Consiglio dei ministri adottata all’unanimità. Adesso la parola passa al Parlamento. Poi entro il 12 dicembre un nuovo Cdm chiuderà il percorso previsto dal legislatore».

Poliziotti in borghese a Ostia, tensioni alle regionali in Sicilia: come pensa di gestire le prossime elezioni politiche, a cominciare dalla trasparenza delle liste?
«L’Italia ha la forza democratica per garantire la trasparenza delle elezioni. Ci sarà la massima vigilanza del Ministero, come è naturale che sia, ma ho avuto modo di proporre che prima delle elezione ci sia un patto solenne con tutte le forze politiche contro le mafie, l’impegno a non ricercare i voti dei clan. Sono consapevole che tutto questo non è sufficiente per segnare una rottura, ma si tratterebbe comunque di uno straordinario segnale nei confronti dell’opinione pubblica e di credibilità delle istituzioni democratiche».

Crede ancora che lo Ius soli possa essere approvato negli ultimi giorni di questa legislatura?
«Lavorerò intensamente, insieme con il governo e con il Pd affinché la legge possa essere approvata. Lo Ius soli non è un provvedimento sull’immigrazione, ma sull’integrazione e dunque è importante anche per le politiche di sicurezza».

Si è spesso detto che è più facile far attuare politiche di destra a un uomo di sinistra che viceversa. Lei viene dal Pci: ha avuto il timore in qualche occasione di non avere rispettato la sua storia?
«Nella sfida che abbiamo davanti, molto più ampia dei nostri confini nazionali, dobbiamo avere la forza di affrontare i problemi con una visione. Se politica di sicurezza è controllo del territorio, inclusione sociale, politiche scolastiche, questo lo può fare meglio una forza di sinistra riformista perché per i populisti le politiche di sicurezza sono soltanto ordine pubblico. Questo è il nostro cimento. Una sfida per la sinistra riformista che va oltre i confini del nostro paese: i populismi pensano di gestire l’emergenza con i muri, la chiusura dei confini, noi no. C’è poi il tema della paura: può una forza di sinistra non misurarsi con i sentimenti della gente? Quando eravamo un po’ più giovani ci insegnavano che bisognava rispondere ai sentimenti della cittadini. E di fronte a uno che ha paura non si può biasimare, ma solo stare al suo fianco. Devo stare con chi vede sparare a Napoli per strada ed è terrorizzato, devo insomma mettere in campo politiche affinché quel cittadino possa tornare a sentirsi sicuro. Questo è essere di sinistra».

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