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Veltroni: “Il ’68 non è l’inizio, ma l’apice di un processo di trasformazione della società”

Avere tredici anni nel 1968 non era come averli oggi. Si respirava un’aria particolare, c’era un vento forte che ti spingeva. Quell’anno che la rivista Time definì “Mirabilis”, non fu, però, un inizio, ma il momento finale di un esplosivo processo di crescita culturale ed economica maturato per un decennio». Proprio così: a cinquant’anni da quei fatidici mesi che segnarono una drastica cesura tra il prima e il poi, Walter Veltroni, ora scrittore, giornalista e regista, ricorda in maniera molto speciale il suo Sessantotto: un anno in cui, nonostante la giovanissima età, prese avvio anche la personale avventura del tredicenne destinato a diventare uno degli esponenti di maggior spicco della politica italiana, a partire dalla militanza nella Fgci (Federazione giovanile comunista italiana) per arrivare alle cariche di primo segretario del Pd e di vicepresidente del Consiglio.

 

«Ce n’est q’un début» gridavano gli studenti nelle roventi giornate del Maggio francese. Condivideva?

«No, non era un inizio, era un apice, forse persino un atto conclusivo. Le manifestazioni d’oltralpe e d’oltreoceano, ma anche e soprattutto quelle italiane, ebbero come alveo d’incubazione gli Anni Sessanta. In quel periodo una progressiva trasformazione spezzò le tante catene della società italiana, produsse gli anticorpi destinati a incidere sulla tradizione cattolica più chiusa e ostile alle novità. Si trattò di un cambiamento radicale delle abitudini e del costume portato dallo sviluppo economico che ebbe i suoi simbolinell’autostrada del Sole o nell’arrivo del piccolo schermo in tante case. Ma fu anche e soprattutto una rivoluzione culturale che separò presente e passato. A incidere su inveterate abitudini e mentalità fu certo la scolarizzazione di massa, ma altrettanto forte e pervasiva fu la presenza della musica di Bob Dylan e dei Rolling Stones, la predicazione di Martin Luther King, la minigonna inventata da Mary Quant, il film Il laureato, interpretato da Dustin Hoffman, gli scrittori della Beat Generation, J. D. Salinger e le opere di pittori come Warhol o, in Italia, Tano Festa, Franco Angeli
e Mario Schifano. L’elenco potrebbe continuare. I capelli lunghi e le gonne corte, lo dico con una battuta, rappresentarono una frattura epistemologica e da questa poi nacque l’esplosione del Sessantotto».

 

La sua personale esperienza?

«Nell’autunno di quell’anno frequentavo le scuole medie dell’istituto Torquato Tasso. Anch’io, come tanti altri ragazzi, avevo respirato l’atmosfera così particolare degli Anni Sessanta. Mia madre lavorava in Rai – mio padre era mancato quando io avevo un anno -, era molto informata, si leggeva il quotidiano Paese sera e si parlava di tutto. Ovunque, non solo nella mia famiglia, si sentiva di vivere un tempo di grandi novità. Mi rivedo con una marea di coetanei appena usciti da scuola, davanti a un negozio in attesa dell’arrivo di un camion. Cosa
doveva scaricare? Migliaia di copie di Sgt. Pepper`s, il capolavoro dei Beatles. I ragazzi che nel 1967 occuparono Palazzo Campana a Torino e poi la Statale di Milano oppure la facoltà di Architettura di Roma avevano certamente compulsato con avidità riviste musicali molto innovative, come Ciao amici Giovani e Big, e si erano appassionati alla bellissima trasmissione Per voi giovani ideata da Renzo Arbore. Poi vi fu Speciale per voi, condotto sempre da Arbore, e mi ritrovai anche io nel pubblico degli invitati under venti e azzardai una domanda a Ornella Vanoni. Quello spettacolo segnò una cesura con il passato, ricordo una furiosa lite tra i giovani e Claudio Villa che rappresentava il “vecchio” mondo, non solo della musica. In quell’anno l’uomo sbarcò sulla luna. Tutto, davvero tutto, sembrava possibile».

 

Il benessere comportò anche le battaglie per i diritti civili?

«Mia madre un giorno mi disse “Vieni, scendiamo in strada”. C’era la nostra Seicento nuova di zecca. Poi arrivò la lavastoviglie. Quel benessere generò un bisogno di diritti e di libertà. E di senso. Sul piccolo schermo andava in onda lo straordinario Circolo Pickwick diretto da Ugo Gregoretti con Gigi Proietti, ma anche il rotocalco Tv7 in cui si parlava di mafia, manicomi, emigrazione, aborto, droga. Trasmissioni come questa, insieme alle conquiste economiche, prepararono il terreno anche alle mobilitazioni per i nuovi diritti».

 

Con il Sessantotto i ragazzi diventarono quello che non erano mai stati, un soggetto politico. È così?

«Nell’autunno partecipai al mio primo corteo. Era veramente esaltante. Sentivamo che nasceva la coscienza globale dell’essere giovani. Ma fu ancora la televisione che lanciò nelmondo l’immagine unitaria dei giovani, impegnati dagli States al Giappone, nella mobilitazione contro la “sporca guerra” del Vietnam. Sempre nell’autunno del ’68 cominciai a far parte del comitato di base del Tasso che si ritrovava nei locali della sede del Pci di via Scarlatti. Ero attirato dagli scrittori
più eterodossi e irregolari come Italo Calvino, Leonardo Sciascia e Pier Paolo Pasolini, autore della discussa poesia ll Pci ai giovani. Lo incontrai di persona, veniva alle nostre riunioni e prendeva appunti. Ancora oggi mi sento imbarazzato
al pensiero delle corbellerie enunciate da certi leader sessantottinidella scuola».

 

Come si conciliava il vento anarchico e libertario con la tradizione comunista?

«Quando guardai alla Fgci vi trovai quello che cercavo. Nel giugno ’69 Enrico Berlinguer intervenne, a Mosca, alla Conferenza mondiale dei partiti comunisti. E lì lo “strano compagno”, come lo chiamarono i giornali, diede avvio al distacco dai sovietici. Fu un segnale importante. Il Sessantotto segnò anche la fine dell’età dell`innocenza.Piegò la domanda di libertà, di tutte le libertà, dentro dei recinti ideologici, la rinchiuse, la sfiancò, la immiserì.La grande rivoluzione di libertà degli Anni Sessanta e le domande del primo Sessantottoerano il contrario della cupezza
brigatista».

 

Furono schiacciate le istanze di rinnovamento?

«All’inizio degli Anni Settanta il referendum sul divorzio aprì squarci di speranza e diede la misura della secolarizzazione della società italiana. Poi le stragi, il terrorismo e l’afflusso impressionante di eroina mutarono il corso della storia italiana. Ormai la spinta propulsiva del decennio precedente si era esaurita. Nel Sessantotto tutto era sembrato possibile, tutto era stato scambio e condivisione, dalle utopie agli slogan politici e al sesso. Le persone, giovani e non, avevano il piacere di vivere esperienze collettive».

 

Un mondo scomparso? Esiste un’eredità?

«All’epoca i figli ritenevano giustamente che avrebbero avuto una vita migliore di quella dei padri. Adesso invece accade l’esatto contrario. Ma l’eredità permane: ovunque ci sia una iniziativa culturale ci sono tantissimi giovani. O pensiamo al movimento degli adolescenti americani contro le armi. Giovani. Che oggi chiedono le stesse cose di allora. Il senso di solidarietà e di comunità. La condivisione di sogni e di nuovi valori. La domanda c’è, manca però l’offerta politico-ideale».

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