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Violante: “I partiti anti-élite sono diventati élite. E ora avranno a che fare con le loro promesse infondate”

«Lasciamoli lavorare, senza pregiudizi». Luciano Violante, 76 anni, ex presidente della Camera, guarda all’esordio del governo M5s-Lega come ad un’entità in evoluzione. Da qui la cautela sugli uomini e sulle azioni che verranno messe in atto. Se questo governo servirà a ridurre la frattura con le istituzioni, per lui, è benvenuto.

La nuova maggioranza M5s-Lega è in grado di diventare più strutturale e di determinare gli anni futuri?
Difficile dirlo. La loro prima prova sarà costituita dai prossimi appuntamenti elettorali, Elezioni europee nel 2019, elezioni regionali nel 2020, nelle quali presumibilmente correranno divisi. Ma molto dipende dal presidente del consiglio. Ha una grande responsabilità non solo per la gestione della politica nazionale, ma anche della salvaguardia del patto di governo. Nulla è oggi ragionevolmente prevedibile. Di certo M5Se e Lega devono limare le proprie ambizioni. Dopo le elezioni la Lega guadagna consenso, mentre il M5s perde. Oggi l’elettorato del rancore e del dissenso profondo nei confronti del sistema istituzionale si sente più rappresentato dalla Lega che dai Cinquestelle.

Che cosa rappresenta per lei il rispetto delle istituzioni in questa fase?
Vorrei sottolineare due aspetti che mi sembrano utili per il futuro. L’Italia ha avuto sempre un basso consenso sociale nei confronti delle istituzioni. Ricordo che una delle motivazioni di Aldo Moro (di cui Violante è stato giovane assistente universitario a Bari ndr) per il compromesso storico fra Dc e Pci e per l’unità nazionale, era che questo tipo di patto avrebbe allargato la base sociale del consenso per le istituzioni. Oggi, ho l’impressione che se queste due forze, sostanzialmente anti-istituzionali, assumono responsabilità di governo, potrebbe estendersi il consenso sociale del Paese nei confronti delle istituzioni repubblicane.

Qual è, invece, il secondo dato cui ha fatto riferimento?
È che M5s e Lega, andando al governo della nazione, matureranno. Si renderanno conto che alcune delle cose dette non erano realizzabili e che certe loro promesse erano infondate. Hanno detto, per esempio: «Mai più non eletti a palazzo Chigi», criticando su questo aspetto tante personalità: da Carlo Azeglio Ciampi a Matteo Renzi. Tuttavia, a capo del loro primo governo propongono un non eletto. Così si renderanno ben presto conto che alcune delle cose che avevano considerate quasi dei valori assoluti, in realtà non erano tali. Erano condizionate più dall’antagonismo nei confronti degli altri che da un principio di verità.

Si è appena combattuta una battaglia contro l’élite, nei confronti della quale il popolo ha compiuto una frattura, ed ora già siamo alle prese con la formazione di una nuova élite?
Ora loro sono un’élite. Vuole che il presidente del consiglio e i vari ministri non facciano parte dell’élite? Era il popolo contro l’élite, ora un pezzo di popolo è diventato élite. Ma la condizione dei leghisti è diversa da quella dei cinquestelle. La Lega governa molte realtà come la Lombardia, il Veneto, la Liguria e il Friuli Venezia Giulia. Tolto il Piemonte e l’Emilia Romagna, tutto il Nord. Governa bene anche molti Comuni. I cinquestelle, invece, stanno vivendo delle esperienze a livello locale, da Roma a Torino, abbastanza discusse. Per loro è davvero nuovo quanto sta avvenendo: si tratta di una fiammata più improvvisa e perciò meno stabile di quella della Lega.

Anche il leader della Lega Salvini non ha esperienze di governo. E c’è chi vede dei rischi nel suo approdo al Viminale: lì la facoltà degli atti monocratici non ha pari fra gli altri dicasteri. Non ha forse già chiesto di avere «le mani libere»?
Innanzitutto il ministero dell’Interno è una grande macchina, ben oleata, che va avanti sulla base di regole strutturate nell’esperienza di molti decenni, nel segno della dignità ed autorevolezza. Svolge compiti non solo amministrativi, ma anche di permanente sartoria sociale e istituzionale in un Paese che spesso predilige il conflitto rispetto all’unità. Non è che un ministro da solo può cambiare le cose a suo piacimento. Poi, non dobbiamo dimenticare che Roberto Maroni è stato ministro dell’Interno e, a parte qualche sbavatura, è stato un buon ministro. Eppure, quando andò ci arrivò anche lui con il carico di perplessità che è abbastanza simile a quello che oggi caratterizza l’eventuale incarico a Salvini.

A questo proposito c’è chi sostiene che Ugo Zampetti, l’uomo che lei volle a capo dell’amministrazione di Montecitorio e con il quale ha condotto tante battaglie, oggi da segretario generale del Quirinale sia l’uomo chiave per i rapporti della nuova maggioranza con Mattarella, avendo egli tra l’altro preso a cuore fin dagli esordi alla Camera il giovane ed inesperto Di Maio. Sono solo voci?
Per tradizione il segretario generale del Quirinale è il primo collaboratore del Capo dello Stato. E si muove sempre nei binari che il Presidente segna per lui. Zampetti, che conosco bene, ha tutte le qualità per svolgere questa funzione con la prudenza, la riservatezza, la competenza, l’equilibrio, l’autorevolezza necessari.

Tornando all’avvento dei nuovi ministri lei sostiene che bisognerà fare la tara alle promesse fatte in campagna elettorale?
Tutti hanno detto cose un po’ spropositate in campagna elettorale. Ci si renderà conto che non erano fattibili. Avverrà così anche per le migliaia di espulsioni promesse da Salvini. Bugie giustificate dalla contesa per il voto, ma poi arriva il momento di fare i conti con la realtà. Ci sarà qualcuno che informerà il ministro dell’Interno su quanto è stato fatto e che le espulsioni di coloro che meritavano di essere espulsi sono state quotidiane, magari effettuate da aeroporti secondari senza fare un gran chiasso, perché si è ritenuto di non fare pubblicità.

Sempre in termini di sicurezza, cosa c’è di non detto sulla delega dei servizi segreti su cui si apre sempre una diatriba, immancabile anche questa volta fra Lega e M5s?
La riforma del 2007 ha modernizzato profondamente i servizi di sicurezza e ha posto in capo al presidente del consiglio o altra autorità politica la responsabilità. Credo che sia molto importante la scelta che farà il presidente del consiglio. Può tenere per sé la delega o può darla anche ad un sottosegretario alla presidenza del consiglio dei ministri. Si parlava del leghista Giancarlo Giorgetti che è una personalità di prim’ordine. Ora, naturalmente, nell’equilibrio fra il ministro dell’Interno della Lega e il responsabile della politica di sicurezza, che sarebbe anch’egli della Lega, non credo che possa essere accettato. Quindi probabilmente questo lavoro o lo farà il presidente del consiglio direttamente oppure lo assegnerà ad un’altra autorità politica proveniente dal M5s. Tenga presente che c’è anche il problema altrettanto delicato della presidenza del Copasir (Comitato parlamentare per i servizi di sicurezza).

A chi va?
Per legge spetta all’opposizione, dunque al Pd, a Forza Italia o a Fratelli d’Italia. Bisognerà vedere fra le due forze di centrodestra e i partiti di governo che intese riservate sono intercorse. Perché si tratterà anche per consolidare un quadro di tenuta della maggioranza che a Senato non è tranquillizzante.

Aspetto interessante: che sa a tal proposito?
Nulla, naturalmente. Ma al Senato la maggioranza è di sei voti. Il presidente incaricato ha già sentito coloro che sono stati eletti nella maggioranza, ma sono rimasti fuori (nel gruppo misto) per varie vicissitudini.

Ci sono altre caselle istituzionali che possono rafforzare la maggioranza M5s-Lega?
Oltre al Copasir, per prassi parlamentare sono affidate alle opposizioni la Giunta per le elezioni, le Giunte per le autorizzazioni a procedere di Camera e Senato, la commissione di vigilanza sulla Rai. Sono tutte posizioni che M5s e Lega possono sfruttare per rafforzarsi affidandole alle due forze di centrodestra che sono all’opposizione. Ad esempio Forza Italia potrebbe chiedere di presiedere la commissione di vigilanza Rai. Insomma il governo è posto di fronte all’alternativa tra correttezza parlamentare, che non esclude nessuna opposizione, e incremento, seppure anomalo della sicurezza della maggioranza

Il Pd si sente già tagliato fuori?
Apparirebbe grave scartare il Pd da qualsiasi rappresentanza dopo che ha consentito che Di Maio divenisse vicepresidente della Camera. Ed anche che l’attuale presidente della Camera Roberto Fico venisse eletto presidente della vigilanza Rai. Però la gratitudine non è una qualità della politica.

Non solo in politica, in generale si dice che la gratitudine è il sentimento del giorno prima
E assolutamente vero.

Ha letto il contratto di programma nella parte che riguarda la giustizia?
È divisibile in quattro parti. Le cose preoccupanti rappresentate da tutte le misure di carattere economico. Poi ci sono le proposte che propongono misure già in vigore. Seguono alcune proposte positive e infine le proposte con il punto interrogativo. Tra queste rientra la materia della giustizia dove le grandi questioni non sono affatto affrontate. Secondo me c’è un problema di equilibrio fra due concezioni di giustizialismo contrapposte. Il giustizialismo dei Cinquestelle è la morale spostata sul piano del diritto e della repressione penale. È considerare salvifico il ruolo della punizione penale, il ruolo della magistratura o della comunicazione giudiziaria. Sono errori democratici specie se applicati agli avversari e non a sé stessi.

Si riferisce a Danilo Toninelli al quale è scappato di auspicare uno Stato etico?
L’on. Toninelli è un uomo serio,intelligente e preparato e quindi credo che si sia trattato di un grave lapsus. Tuttavia, come direbbe uno psicanalista, quell’uscita costituisce un episodio rivelatore. Ecco, dicevo, la Lega ha un altro tipo di giustizialismo che è proprio il contrario rispetto a quello propugnato dal M5s. Il suo è un populismo giustizialista che non si sposta sul piano morale, ma intende rassicurare il popolo sull’ordine. Le sue politiche sicuritarie si basano sulla repressione dei deboli, sull’aumento del potere di usare le armi, delle pene nei confronti dei soggetti marginali e così via. Va da sé che le due linee non mi piacciono. Tuttavia, anche in questo caso, sarei molto attento a valutare chi sarà il ministro della Giustizia e quali politiche metterà in atto.

Non ho voluto darle il tormento sulla gestione della sconfitta della sinistra e del Pd su cui, immagino, lei avrà un preciso punto di vista…
I dirigenti del Pd dovrebbero smettere di discettare sul futuro segretario e pensare maggiormente a quel che c’è. Consolidare innanzitutto le situazioni esistenti. Il 4 marzo in alcune realtà, tipo Torino e Milano, il Pd è risultato il primo partito. Ci sono altre aree nelle quali c’è stato un riconoscimento elettorale importante. Vogliamo chiederci come mai? Perché lì sì e altrove no? Il gruppo dirigente e i parlamentari vadano dove si è lavorato meglio per capire, per dare e prendere forza e coraggio. Questa è l’azione da compiere insieme a quella di curarsi delle ingiustizie sociali e dei vincoli impropri che gravano sui cittadini e sulle imprese, primi fra tutti quelli di carattere burocratico.

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