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Damiano: “Gestione collegiale con Martina, non abbiamo altra via di uscita”

Cesare Damiano, presidente uscente della commissione Lavoro di Montecitorio, non tornerà in parlamento: candidato nel collegio di Terni, senza paracadute, è stato tradito dall’ex Umbria rossa che ha virato a destra.
 

Oggi andrà in direzione con il bazooka?

 
«È ovviamente un modo di dire che indica la necessità di voltare pagina».
 

Fa il pari con il lanciafiamme invocato da Renzi dopo le comunali di Napoli».

 
«È ormai chiaro a tutti che siamo di fronte a una sconfitta storica che viene da lontano. Non getto tutta la croce addosso a Renzi: dal tortellino magico siamo passati al giglio magico. Ma, certo, il segretario ha portato alle estreme conseguenze la crisi già in atto creando le condizioni per l’accelerazione e il tracollo. Ora è necessario trovare nuove strade per ripartire».
 

Il Pd sembra aver preso la strada di Martina reggente e gestione collegiale: la convince?

 
«Ho lavorato per questa soluzione che mi sembra la più naturale. Martina non è solo il vicesegretario, ma è sicuramente una persona che non ha l’istinto del “comando io” bensì è portato a costruire squadre. Spero che lo faccia in modo inclusivo, il che sarebbe una novità».
 

Il passo successivo sarà l’assemblea nazionale ad aprile. Non c’è rischio che le primarie slittino a data da destinarsi?

 
«Spero di voltare pagina anche su uno statuto demenziale che ha caricato sulle primarie il compito di dirimere in termini di scontro le diversità di opinioni. Vorrei che Martina promuovesse un largo dibattito alla base del Pd per arrivare a un candidato con cui tutti si identifichino, come fu con Romano Prodi, e che si dedichi 24 ore al giorno al partito».
 

Senza poter fare il premier, quindi».

 
«Bisogna separare la carica di segretario, che deve elaborare un programma unitario, da quella di candidato premier».
 

Altro che voltare pagina: qui siamo alla rifondazione».

 
«Se non si accetta questo grande lavoro si ripercorreranno antiche strade. Con scene poco edificanti di truppe cammellate, circoli trasformati in comitati elettorali, in casi minoritari persino compravendita di voti. E soprattutto uno scontro che non si conclude mai perché prosegue anche con epiloghi laceranti come è state la scissione di LeU».
 

Zingaretti, Chiamparino, Delrio, Martina, Calenda. Vede figure in grado di sobbarcarsi questo lavoro?

 
«Il totonomine è prematuro. Intanto, bisogna ridare al Pd anima, orizzonte e ideali condivisi a partire dall’uguaglianza. Dobbiamo essere capaci di intercettare l’insicurezza economica, che non si risolve con lo slogan del reddito di cittadinanza, che pure ha evidenziato un problema e l’insicurezza sociale, che non si risolve cacciando gli immigrati come vorrebbe la Lega».
 

Il Pd rischia di scomparire, come teme Minniti?

 
«Il rischio c’è se continuano la contrapposizione e la fuga dalla ricerca del compromesso. Aggiungo che il Pd deve ricostruirsi nei luoghi di lavoro: meno salotti, più fabbriche».
 

Il governo con M5S non esiste o qualche tentazione alberga?

 
«Allo stato non possiamo che ribadire di essere alternativi a loro. Non vorrei però che chi agita il tema, accusando altri di inciucio, cerchi di far dimenticare che siamo alternativi anche al centrodestra e a Berlusconi. Detto ciò: spetta a chi ha vinto la responsabilità di formare un governo».
 

Il tempo non è un fattore irrilevante: il viceministro all’Economia Morando sta preparando il Def per Bruxelles, ma il governo potrebbe rinviarlo dato che la maggioranza è cambiata».

 
«Il Def è il primo scoglio con cui si faranno i conti. Salvini e Di Maio scopriranno che le loro promesse elettorali, così demagogiche, faticheranno a tradursi in realtà. Ma certo qualche passo per rendere più equo lo stato sociale a partire dalle pensioni va immaginato».
 

Vuole abolire anche lei la legge Fornero?

 
«No, mi accontenterei che venisse sancito il principio per andare in pensione con 41 anni di contributi a prescindere da età e tipo di lavoro».
 

Si uscirà dallo stallo con un governo del presidente?

 
«Un esecutivo di tutti su pochi punti, in primis la legge elettorale, potrà diventare la carta estrema da giocare. Ma lo deciderà Mattarella».

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