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Minniti: “Al Pd serve un congresso, non un nome”

Ha visto, onorevole Marco Minniti? Il professor Roberto D’Alimonte ha tenuto una relazione sul futuro elettorale del Pd facendo previsioni fosche: sostiene che in questo momento non è sicura nemmeno la sopravvivenza del partito.

 
«Condivido queste preoccupazioni. Il Pd deve fare il suo congresso straordinario subito, ieri. Lo capiranno?»
 

C’è un accordo fra le correnti che sposta tutto…

 
«Non mi risulta. C’è una decisione dell’Assemblea che lo fissa prima delle europee. Credo che si debba accelerarlo».
 

D’Alimonte sostiene anche che il Pd abbia perso una grande occasione quando ha lasciato cadere «il lavoro fatto da Minniti».

 
«Eh… Non c’ero, me lo hanno raccontato».
 

Rimpianto o dolore?

 
«Non so se sia vero. So che il mio lavoro al ministero dell’Interno era l’unico modo per salvare l’identità della sinistra».
 

È stato accusato da Gino Strada di essere il «ministro sbirro». Da molti, nel partito, di fare politiche «di destra».

 
«Per me questo è un discrimine: capire le paure della gente è un dovere. E non per assecondare le fobie, ma per dare risposte».
 

Però anche Salvini si è infilato in questo varco. Si è pentito di qualcosa, delle sue scelte dell’estate 2017?

 
«Di nulla, anzi. Ho spiegato tante volte che il mio progetto sull’immigrazione, se avesse potuto compiersi, si sarebbe chiuso con lo ius soli. È il contrario della Lega. Mettere ín sicurezza la legalità, affermare i doveri, riconoscere diritti a chi li merita».
 

Però non lo avete fatto.

 
«Questo non l’ho deciso io: avevamo bisogno di più tempo. Le elezioni hanno imposto prudenza a chi nel Pd ha scelto».
 

Intanto il suo partito si lacera su Emmanuel Macron.

 
«È un errore. Anche perché io ho un’idea sul governo gialloblù. Non litigheranno: l’alleanza si stringerà. Sono un nuovo pentapartito 4.0, si divide ma si ricompone».
 

Salvini e Di Maio come De ilMita e Craxi?

 
«Certo. Quei due litigavano ogni mattina, e poi si rimettevano insieme con un caminetto. A loro basta una chat su Whatsapp: cambiano i tempi, ma la dinamica è la stessa».
 
Marco Minniti, secondo molti, potrebbe essere uno dei contendenti nella sfida finale perla segreteria del Pd. Lui, l’ex ministro dell’Interno, uno dei pochi volti popolari del partito, non scopre le sue carte, non gioca al totonomi, ma non rinuncia a intervenire nel dibattito.
 

Torniamo al Pd. Perché è un errore litigare su Macron?

 
«Proprio perché il “governo del cambiamento” dura. La partita si giocherà alle Europee, le più importanti della storia. Deciderà gli equilibri in Italia. E nel mondo».
 

Addirittura?

 
«Mai l’idea di Europa è stata messa in discussione così radicalmente come dai nazionalpopulisti oggi».
 

Perché?

 
«Attaccano l’Unione per due motivi. Per dimostrare che l’Italia non è una anomalia, e perché vogliono che diventi l’apripista di un movimento continentale».
 

Per questo vedono Orbàn?

 
«Esatto. Il secondo motivo è che Salvini e Di Maio sono uniti da una certezza: mettendo
in mora l’Europa, avranno più spazi di manovra economici».
 

E non è vero?

 
«Non ne sono sicuro. La partita è più grande: saranno elezioni importanti anche sul terreno degli equilibri democratici nel mondo. L’Europa è protagonista con Stati Uniti, Russia e Cina di una ridefinizione degli equilibri planetari».
 

In che senso?

 
«L’Europa minima e delle piccole patrie rischia di togliere l’Unione dalla scena. Le piccole patrie non hanno la taglia per competere con i giganti: rischiano di aiutare chi ci vuole tagliare fuori».
 

Cosa c’entrano le democrazie, però?

 
«Due superpotenze oggi sono chiaramente democratiche: Stati Uniti ed Europa; le altre due – Russia e Cina non pienamente. Hanno altri modelli».
 

Quindi?

 
«Se viene meno l’Europa, si indebolisce la democrazia. E se questo è vero, va costruita un’alleanza non per difenderla com’è, ma per cambiarla».
 

In che senso?

 
«Se il punto di massimo impegno è il dibattito sull’ora legale, non si va da nessuna parte. Pensi alla soluzione proposta: bisognerebbe tenere un orario tutto l’anno, ma ogni Paese può decidere quale tenere. Un misto di dirigismo e anarchia incredibile. Un pasticcio».
 

Tutti dicono di voler cambiare…

 
«Bisogna mettere insieme un patto per fronteggiare i nazionalpopulisti. Ispirandoci all’europeismo, ma con una forte idea di cambiamento. In questo quadro è fondamentale l’alleanza con Macron».
 

E il Pd?

 
«Questo compito di cucitura spetta al Pd. Noi siamo nel Pse, ma siamo democratici: questo ci consente di essere un ponte verso culture diverse».
 

Tanti, da Zingaretti alla Gualmini, dicono: via il nome.

 
«lo penso che non vada fatto. L’identità democratica è già la nuova casa. Quale termine più ampio di “democratico” esiste per definire il campo? O stai di qua o di la, stai con i democratici o con i populisti».
 

Non c’è nulla da inventare?

 
«No, i nomi li abbiamo consumati tutti. L’ideale sarebbe “Alleanza democratica”. Ma da noi vengono in mente Bordon, Ayala e Adornato…».
 

Parlando di lei come possibile leader.

 
«Non ci penso nemmeno».
 

All’anagrafe si chiama Domenico, ma a casa è «Marco». Non è un diminutivo però…

 
«È vero. Nel mio nome ci sono un compromesso all’italiana e una storia curiosa. Dopo due femmine, mio padre e mia madre volevano a tutti i costi un maschio. Siamo in Calabria: serviva l’erede maschio che tiene vivo il cognome. Mia madre aveva un’amica carissima, che la tranquillizzò tastandole la pancia e dicendole: “Non ti preoccupare. Sarà maschio. Però promettimi che se fosse così gli metterai il nome di mio fratello Marco, che non c’è più”. Ebbe ragione. Ma al momento di onorare il debito scoppiò la crisi, con mio padre e i parenti che dicevano: “Si deve chiamare Domenico, come il nonno!”».
 

Però vinse sua madre?

 
«Esatto. Nel sud matriarcale da cui vengo, vincono semprè le donne, anche se non sembra. All’anagrafe diede soddisfazione alla famiglia, e poi, fin da bambino, mi hanno chiamato tutti Marco perché il pegno a chi aveva annunciato il maschio andava onorato».
 

Suo padre, uomo di destra, si è trovato un Marco, e per di più comunista.

 
«Mio padre era un militare, uomo tutto di un pezzo. Più che altro conservatore, scampato a due guerre. Era in aviazione, e mi diceva: “Ricorda: quando ti abbattono l’aereo muori in un attimo. Ma se sopravvivi nelle ritirate torni subito a casa”».
 

Che cosa intendeva?

 
«Lo diceva per ricordarmi che era scampato alla disastrosa ritirata dell’Armir in Russia. Una carneficina che l’aveva impressionato».
 

Lei sognava l’accademia, per fare il pilota.

 
«Sì. Ma mia madre, che per quelle guerre aveva sofferto diceva: “In aviazione non se ne parla. Abbiamo già dato”».
 

E nella Calabria matriarca le decidono le donne…

 
«Non feci il pilota. Con un epilogo».
 

Quale?

 
«Mi sono laureato in filosofia, pensi. Nel 1980, a 24 anni ero segretario del partito Comunista a Reggio Calabria. Dovevi fare il cursus honorum, che a Reggio – dove la federazione non era mai stata espugnata nemmeno durante la rivolta di Ciccio Franco comprendeva anche il rito di iniziazione dei turni di vigilanza notturna – armati – nella sede cittadina del partito».
 

Anni di politica dura.

 
«Un giorno un compagno, un mio carissimo amico, Giuseppe Valarioti, viene ammazzato dalla ‘ndrangheta. Nel cuore della notte corriamo in federazione e faccio: “Ma la famiglia l’abbiamo avvisata? Mica possiamo farli informare dalla polizia!”. Mi rispondono: “Non ci ha pensato nessuno”».
 

E chi va?

 
«Appunto. Mi dicono: “Bella idea, Minniti: vai tu”. Non auguro a nessuno di dover portare un peso come quello. Presentarsi alle quattro del mattino, in una casa, per spiegare a un padre e a una madre che un figlio è stato ucciso».
 

Come andò?

 
«Una catastrofe. Mi piombarono addosso – senza colpa disperazione, dolore e rabbia. Era una famiglia democristiana, convinta che il figlio fosse morto per colpa della politica e del Pci. Io rappresentavo entrambi. Me ne andai letteralmente ricoperto di insulti».
 

Terribile. Ma c’entra con i suoi sogni di gioventù?

 
«Quel lutto, e quelle paure, si trasmisero anche a mio padre e a mia madre. Che condividevano le preoccupazioni della famiglia Valarioti, e non ne facevano mistero. A casa mia produssero lo scambio di battute più scarno e drammatico della mia vita».
 

Quale?

 
«Ritornai dopo questa giornata d’inferno. Mia madre mi fulminò con lo sguardo. Rimase qualche secondo in silenzio. Poi disse: “Figlio. Era meglio se facevi il pilota”. Non risposi. È un giudizio che mi sono portato dentro tutta la vita».
 

Suo padre cosa le disse?

 
«Nulla. Ma in una società matriarcale calabrese le madri hanno delega. Spiego una cosa sui padri meridionali di quella generazione con un aneddoto folle. Era scoppiato il Sessantotto. Si parlava di rapporti sentimentali e umani. lo, attraversato da queste passioni del tempo, dissi confusamente a mia madre che mi pesava il distacco con mio padre».
 

E suo madre riferì?

 
«Ovviamente. E a me raccontò la risposta, che spiega meglio di tutto il distacco tra la mia generazione e questi uomini di un altro tempo. Papà aveva sgranato gli occhi: “Non riesce a parlarmi? Ma come? Se gli consento persino di darmi del tu!”».
 

Lei è diventato sottosegretario alle presidenza del Consiglio nel lontano 1998. I cosiddetti “Lothar” di Massimo D’Alema, il primo premier ex comunista…

 
«C’era un enorme entusiasmo. Cuperlo scriveva i discorsi, Velardi e Rondolino facevano strategie, Latorre coordinava la segreteria e tutti pensavano: “Faremo grandi cose”».
 

Anche lei.

 
«Ovvio. Però, a tratti avevo un certo distacco. Giravo per le stanze della presidenza del Consiglio, a sera, e prima di andare via mi divertivo a bussare alle porte facendo il vocione: “Fratello! Ricordati che devi morire !”».
 

E infatti siete morti dopo le regionali del 2000…

 
«In effetti andò a finire così. Questo mi serve per non dimenticare mai che in politica siamo tutti sempre di passaggio».

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