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Cuperlo: Il PD non rinunci alla sua identità

Sono passati tredici anni dalla nascita del Partito Democratico. Arturo Parisi, che nel 2007 faceva parte dei 45 membri del Comitato nazionale per la sua fondazione, ha emesso una “sentenza” durissima: “Più il tempo passa e più mi convinco che non c’è nulla da recuperare”, ha sostenuto in una intervista a La Presse. Siamo già ai titoli di coda?

Per una forza nata tredici anni fa con l’obiettivo di essere il partito del nuovo secolo sarebbe una resa, e non solo per chi vi ha aderito, ma per un campo assai più largo. Naturalmente la scelta non può essere quella di lasciare le cose come stanno o portare i libri in tribunale. Serve l’onestà di vedere i limiti e i guasti che hanno rappresentato la zavorra del progetto, ma senza cancellare quella umanità che anche le settimane segnate dalla tragedia della pandemia hanno reso visibile. Lo dico perché c’è un pezzo di questa storia che nessuno pare considerare, che non sembra interessare ai giornali, ma che è una risorsa unica. Penso a sconosciuti segretari di circolo, a tanti amici e compagni, che senza un euro si ostinano a tirar su la saracinesca della sede o a centinaia di sindaci e amministratori di comuni grandi, medi o piccoli, che in questi mesi sono stati il vero e talvolta il solo, riferimento dentro le istituzioni. Non ho mai taciuto critiche su limiti e ritardi del nuovo partito, il punto è che anche quelle riserve devono sempre distinguere tra calcoli o riti di un ceto politico molto concentrato sui palazzi romani e il patrimonio che vive un centimetro o un metro più in là.

Il problema principale del Pd, sostiene Parisi, “è stato proprio la sua nascita tardiva, quando ormai si era spenta l’ispirazione ulivista e richiuso il solco delle condizioni dentro il quale essa era cresciuta”. Una fusione tardiva e, come sostenne chi non vi aderì, “fredda”?

Per alcuni il Pd è nato tardi, per altri troppo presto. Io la penso come il mio amico Provenzano, più semplicemente è nato male. C’è chi lo ha vissuto come una scialuppa per conservare una rendita di posizione, chi ne ha banalizzato radici e ragioni e chi ne ha fatto un mito a prescindere. Tu hai citato un uomo acuto come Arturo Parisi e non a caso perché l’Ulivo, a modo suo, era stata un’intuizione coi piedi ben piantati nella parabola repubblicana. Alla base c’era l’incontro fertile tra il mondo del lavoro, della cultura e dell’impresa. Le forze della sinistra storica, laiche, cattoliche, azioniste, dentro quella cornice potevano incrociare altre sensibilità maturate in stagioni diverse, l’ambientalismo, il pensiero femminista, le spinte radicali sul versante dei diritti umani e di cittadinanza, ma tutto questo avrebbe chiesto una fatica della elaborazione che fosse in grado di collocare quei percorsi, ciascuno con la propria autonomia, dentro una nuova identità frutto di un confronto che allora mancò. Ora, se le cose sono andate così lasciamo da parte fusioni calde o fredde, piuttosto bisogna valutare le conseguenze che si sono prodotte.

A tuo avviso quali sarebbero?

Una la definirei una funzione di supplenza, in mancanza di una chiara missione storica si è ripiegato su una identità leaderistica. In altre parole dove non poté la politica ci si è aggrappati agli statuti e una regola, le primarie aperte per scegliere il leader, da forma di coinvolgimento e decisione è divenuta il primo fattore di riconoscibilità e persino appartenenza. Non è una mia opinione, allora fu detto e rivendicato, con esponenti tra i più autorevoli a spiegare che la grande innovazione stava nel dar vita non già a un partito post ideologico, ma al primo grande partito post identitario. Però se ti proponi di dar vita al soggetto per il nuovo secolo tutto devi fare meno che privarlo di una propria identità. Per questo credo che oggi sia giusto reagire sul piano culturale e penso vada fatto adesso perché lo spartiacque globale della pandemia cambia intere categorie del pensare politica, economia, società e senza un profilo riconoscibile è complicato aprire un campo largo mentre aumenta il rischio di venire travolti da una realtà che non ti riconosce perché tu per primo fatichi a riconoscerla.

Afferma ancora Parisi: “Visto che lo scioglimento delle due principali forze preesistenti, i Ds e i Dl, aveva l’obiettivo di consentire la nascita di un soggetto nuovo che non fosse la continuazione né la loro somma, e in quanto nuovo puntasse ad un ulteriore allargamento dei consensi, dobbiamo riconoscere che l’obiettivo di allora è stato abbondantemente mancato. Sia che si guardi alle elezioni che precedettero la fondazione, quando i due partiti presero come Ulivo il 31,3%, sia che si guardi alle prime elezioni del 2008 nelle quali il Pd prese il 33,2%, guardando ai consensi di oggi dobbiamo riconoscere che un terzo dei consensi di allora si sono persi per strada.

Ma sì, è così e i numeri difficilmente imbrogliano, però anche in questo caso conviene capirsi, noi rimaniamo la forza che ha retto in questa fase allo sfondamento della destra. Detto ciò tra il Pd di adesso e quello che prese le mosse al Lingotto ci sono differenze che vanno molto oltre le percentuali nelle urne. Prima di tutto perché è mutata la scena attorno. Quel partito degli inizi, anche se con un linguaggio aggiornato e in parte visionario, raccoglieva l’eredità della sinistra che si era plasmata negli anni Novanta. Parlo della coda della Terza Via di Clinton, Blair, in parte dell’Ulivo stesso. Quella era una lettura della globalizzazione vissuta come legge della storia col corredo di un liberismo temperato in economia compensato da una spinta più decisa ai diritti individuali. Se torniamo con la mente al Jobs act e alle unioni civili possiamo dire che di quell’impianto il renzismo è stato l’espressione più limpida e, a modo suo, coerente. Il punto è che la crisi del 2008 e oggi la pandemia hanno archiviato del tutto quella stagione, il Pd ha dovuto affrontare le novità di questi anni subendo due scissioni, guidate per altro dai due segretari più longevi della sua breve esistenza. A quel punto giocoforza si è trattato di reggere l’urto di eventi abbastanza traumatici. Letto così penso che il 20 per cento di adesso sia quasi un miracolo, anche perché segue il 2018 e la peggiore sconfitta della sinistra di sempre. È chiaro che tutto questo non basta e che la prova difficile è rendere attrattiva questa forza per il tanto di buono che esiste e agisce fuori da noi, intendo forze sociali, reti del civismo, un tessuto strutturato della solidarietà che resiste e si oppone a disuguaglianze indecenti. A Bologna, un anno fa, il tentativo fu questo e da quel metodo credo convenga ripartire, se possibile gettando alle ortiche una presunzione di autosufficienza che poca gloria e parecchi danni ha generato.

Dal passato al futuro. “Il Riformista” ha aperto un confronto, molto partecipato, a sinistra a partire da un articolo di Fausto Bertinotti, nel quale l’ex presidente della Camera sostiene: “Solo lo scioglimento del Pd potrebbe aprire a tutti i riformismi e a tutti i riformisti la via di una costituente per un nuovo soggetto politico”. È una “provocazione” o una via obbligata per una “casa comune” dei riformisti?

Mi perdonerete una citazione, è di Marc Bloch, lo storico francese fucilato dai nazisti nel ‘44, dice: «L’incomprensione del presente cresce fatalmente dall’ignoranza del passato». Allora chiedo, cosa si intende quando si dice: «Scioglietevi perché solo quell’atto può consentire una costituente dei riformisti per un nuovo soggetto»? Non ti sembra la rievocazione dello stesso argomento utilizzato all’atto costitutivo del Pd? Quasi le stesse parole e formule? Però ci siamo appena detti che allora fu proprio la scelta di limitarsi a parole e formule senza offrire al progetto una chiave di senso a caricare di piombo le ali. Ecco, non vorrei incamminarmi sullo stesso sentiero, compresi gli stessi errori, senza prima scavare un po’ più a fondo.

Sì, ma cosa intendi per scavare?

Ci sono almeno due filoni della storia del passato che hanno a che vedere col disegno di una unità dei riformisti in un soggetto unitario. Da un lato l’idea che tutto sommato il nostro fosse un paese fatto male e unificato peggio, un popolo gravato da storture, vizi, patologie, eredità di un passato diviso e servile. L’elenco è noto, scarso senso dello Stato, poco rispetto delle regole, evasione, corruzione, quel primato degli interessi privati a dominare sul bene pubblico battezzato più avanti familismo. Da Giolitti a Salvemini passando per Croce o Einaudi, seppure in forme diverse e anche correggendosi nel tempo, veri monumenti dell’Italia unita hanno considerato quelle deviazioni una condizione difficile da estirpare facendo discendere da lì il bisogno di una élite illuminata che dall’alto della sua sapienza avesse forza per dominare o reprimere quegli istinti primitivi.

E l’altro filone?

L’altro filone della nostra vicenda quei ritardi non li ha negati, ma ha creduto che la maturità di una società capace di affrancarsene passasse da una democrazia partecipata, da grandi partiti specchio di culture politiche in grado di spingere il paese a colmare guasti antichi. Questo è Gobetti, questo è Gramsci, questo sono state le culture popolari a fondamento della Costituzione e del patto repubblicano. Culture che il secolo breve, il ‘900, aveva costretto per larga parte a procedere divise e che la rottura dell’89 e l’implosione del sistema politico del ’92 e ’93 resero per la prima volta partecipi, almeno sulla carta, di una prova sempre rinviata, la riunificazione dei ceppi del riformismo italiano nelle sue diverse espressioni e sensibilità. Questo rendeva potente il messaggio dell’Ulivo e conferiva un senso storico al progetto del Pd. Aggiungo che solo in questo modo evocare il partito per il nuovo secolo acquistava un valore capace di superare la retorica.

E allora, cosa è accaduto che ha frenato il tutto?

E’ accaduto che una volta scavate le fondamenta e scomodato figure di prestigio per motivare l’edificio, quello in buona misura è rimasto un bel disegno, ma questo ha consentito a un ceto di professionisti la tutela di sé stesso. Credo che se non aggrediamo questo nodo l’invito a scioglierci per ripartire somigli un po’ tanto al gioco dell’oca mentre, insisto, è l’agenda del mondo, la pandemia, la trasformazione dell’economia e dei bisogni umani a partire dal legame tra reddito e lavoro o la nuova strategia dell’Europa che impongono di ripensare al chi siamo e di conseguenza al chi vogliamo rappresentare.

Pd, il partito delle primarie. Lo hai descritto quasi come un tratto costitutivo. Ma oggi la giudichi un’esperienza archiviata?

No, penso che da quel metodo non si tornerà indietro ed è giusto così. Poi è evidente che se ragioniamo dell’attualità converrà tener conto di mille cose, per prima il fatto che montare i gazebo a pandemia in corso vuol dire incontrare non poche difficoltà. Però per me il punto resta quello accennato, benissimo le primarie, ma non possono rappresentare la chiave che definisce il resto.

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