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“Noi che viviamo sul Po con la paura delle piene”

«Che cosa significa per un ferrarese come me il Po? Semplicemente, in una sola parola, significa casa. Perché il Po, con i suoi 65o chilometri di lunghezza, è una specie di anima collettiva che unifica, durante il suo tragitto, abitudini, mestieri, ovviamente la Storia… Però proprio quel fiume che assicura la vita, è nello stesso tempo un sinonimo di paura. Anche se una parte di noi lo dimentica. Quasi lo rimuove».

Dario Franceschini, ministro per i Beni e le attività culturali, è legatissimo alla sua Ferrara e quindi alla cultura che il Po rappresenta: quella Padana nel senso più esteso e vasto possibile. In queste ore segue, inevitabilmente con una doppia preoccupazione, la piena del fiume.

 

«La seguo da ferrarese e la seguo come chiunque abbia una responsabilità di governo. La situazione è difficile. Dobbiamo fronteggiare la prospettiva di una spaventosa emergenza climatica che flagella un’Italia già profondamente ferita dalla devastazione del territorio».

 

Dunque, il Po come casa e anche come elemento di paura: «Noi, a Ferrara, dopo la grande piena del 1951 abbiamo sempre vissuto col timore della rottura degli argini, della grande acqua in arrivo. Da secoli, lo sappiamo, il Po non scorre più nella nostra città. Ma è una presenza fortissima anche oggi, si trova a sei chilometri di distanza e il fiume si raggiunge in bicicletta, o anche a piedi, soprattutto d’estate. Però questa immagine si confonde con la continua paura per lo straripamento, avvertita da generazioni e generazioni.

 

Ricordo gli ottimi interventi della Protezione civile nella piena del 2010…». Con il Po, spiega Franceschini, i ferraresi hanno un altro tipo di legame: «La nostra provincia è forse l’unica a bere l’acqua del fiume, ovviamente depurata. Probabilmente per questo noi ferraresi siamo tutti un po’ svitati».

 

Qualche ricordo di anni e anni fa: «Quando si temeva per una possibile piena, si formavano catene umane da paese a paese nel segno della solidarietà per collocare sacchi di juta pieni di sabbia. Si riusciva ad alzare gli argini anche di 4o centimetri. Non è una memoria romantica: era il modo per risolvere un problema drammatico».

 

Il Po appare nei libri di Franceschini, è una presenza costante, sia «Nelle vene quell’acqua d’argento» del 2006 che in «Disadorna», del 2017, dove un narratore in crisi ritrova la sua vena creativa sul Delta del Po, nella stanza di un albergo dimesso: «Sì, certo. Ma non mi pare il momento di parlare di questo. Ora bisogna pensare seriamente al presente e al futuro. L’emergenza climatica richiama tutti a decisioni immediate.

 

Ne abbiamo parlato giorni fa con Audrey Azoulay, direttore generale dell’Unesco. Lo stravolgimento del clima riguarda tutti noi e deve rappresentare la prima preoccupazione di un organismo culturale come l’Unesco. Se non ce ne occupiamo adesso, non avremo più il tempo per farlo».

 

Cosa occorre fare per il Po e, in generale, per il territorio italiano? «Io sono un uomo politico, non sono un tecnico. Per il Po, immagino, occorrano interventi sugli argini. So che per l’Arno sono state trovate buone soluzioni. Ma non dico altro, non ho gli strumenti. Però una cosa so: è indispensabile fermare immediatamente un consumo suicida del territorio che costituisce una pesantissima minaccia per la stabilità di tante zone. Continuando a costruire in aree fragili si contribuisce al disastro che già vediamo. Sono possibili migliaia di progetti di rigenerazione del già costruito nelle aree urbane, occupiamoci di quello. Siamo di fronte a un immenso pericolo che mette a repentaglio l’intero Paese. Noi che conosciamo il Po, sappiamo cosa significa avere a che fare con i pericoli dell’acqua».

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