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Raro come la neve d’estate

«Sono afflitto da mesi da una malattia che mi rende faticoso perfino scrivere . queste Ma sento di dover dire che è necessario un vero cambio di passo per la sinistra e per l’intero campo democratico». Sono le parole che pochi giorni fa hanno aperto l’ultimo articolo di Alfredo. Lo hanno fatto col richiamo a una fatica confessata e con la stessa coerenza che per una vita, lunga e piena, lo ha accompagnato e sostenuto.

 

Alfredo Reichlin è stato un uomo politico tra i più autorevoli, colti e appassionati che la storia repubblicana abbia consegnato al Paese. Per decenni lui è stato uno dei capi della sinistra italiana. Lo è stato in stagioni diverse. A cominciare dalla scelta, in anni lontani, del Partito Comunista. Di quella forza incrociata poco più che ragazzo nella tempesta di un’Italia sfigurata dal fascismo e travolta dalla guerra. La fine del regime, l’8 settembre, e di lì la Resistenza vissuta da gappista qui a Roma: chi, come lui ha affrontato quella prova attorno ai vent’anni ha portato con sé su di sé l’impronta che ritrovi per intero nelle prime righe di quell’ultimo scritto consegnato all’Unità: al giornale che trentenne aveva diretto per scelta di Togliatti. Come si usava allora.

 

Reichlin non accennava di frequente alla stagione più dura e violenta. A quella lotta di Liberazione che pure aveva conosciuto e condiviso, quando ancora sedeva con Luigi Pintor sui banchi del Liceo Tasso. E fu la morte violenta e improvvisa di Giaime di qualche anno più maturo e già legato alla parabola della casa Einaudi che spinse i due ragazzi a maturare in fretta la scelta di una parte, e con quella di una vita.

 

Alfredo, dicevo, citava con qualche pudore quella pagina. Mentre a me pareva che gli si illuminasse lo sguardo quando con pochi cenni ti restituiva il sentimento di una generazione la sua chiamata dopo la guerra all’opera titanica della ricostruzione dell’Italia. Te lo diceva col tono morbido della voce, come a suggerirti un impegno nell’ascolto, e con la solennità di chi sentiva di avere attraversato il secolo dalla parte giusta. Certo, in mezzo a ostacoli, limiti, a tanti errori. Ma, al fondo, dalla parte giusta.

 

Per lui e per altri con lui, fu quella forse la prova più alta dell’esistenza: la ricostruzione morale e materiale della Nazione. E fu la conquista orgogliosa di un nuovo discorso pubblico e di un’etica da porre a fondamento dello Stato democratico.

 

Vi sarà tempo per ripercorrere con scrupolo e rigore la navigazione dell’uomo, dell’intellettuale, del leader politico. Sarà più semplice farlo attraverso i molti pensieri scritti e le parole che Alfredo ha continuato a coltivare con profondità in anni recenti. Lo ha fatto con gli strumenti della critica e le forme della lingua che sentiva sua e che dominava in ogni contesto, pubblico o privato: discorsi, saggi, articoli, libri. O anche nel gusto più immediato della conversazione, dove lucidità e cultura si mescolavano in lui al piacere dell’ascolto. Lo ha fatto, credo, evitando le due insidie che l’età a volte riserva: il senso del rimpianto o di una estraneità. Insomma l’idea di una stagione migliore, perduta per sempre, o quella di un mondo rispetto al quale ci si sente semplicemente distanti.

 

Forse anche per merito di affetti solidi e nipoti molto amati, quelle due insidie Alfredo le ha sapute aggirare. E ha potuto farlo, immagino, in ragione di una vita densa ma soprattutto di una enorme curiosità intellettuale. Quella stessa che, paziente, lo portava a sopportare qualche noioso racconto sulle beghe politiche della cronaca. Ma bastava una pausa, un istante, perché prendendo parola ti dicesse con una educata severità che li tema stava altrove: nella Siria o nel declinare della democrazia o nella natura sconosciuta del capitalismo. E stato questo piglio, penso, questo spirito a guidarlo nella scrittura degli ultimi lavori. Che non sono solo una biografia o una collezione di ricordi anche se avrebbe avuto materia, e molta, per dedicarsi unicamente a quello. E invece quelle sue opere sono altro. Sono analisi lucida di quanto abbiamo lasciato alle nostre spalle, e assieme la semina di ciò che altri potranno e dovranno raccogliere dopo. Dopo di lui. E dopo di noi.

 

Questo, almeno questo, volevo dire. Che Alfredo non ha scelto la strada illuminata della testimonianza. Della memoria. Che pure conta moltissimo. Lui fino all’ultimo ha imboccato il sentiero più incerto e tortuoso delle idee che indagano il tempo a venire. E questo dice molto dello spessore dell’uomo capace di riempire la pagina con sapienza e curiosità. Ma poteva farlo – sapeva farlo – anche perché se parlava di lavoro o dei nuovi caporali, aveva chiaro il ricordo di notti pugliesi trascorse – lui, il capo politico – a controllare i picchetti per farsi conoscere dai braccianti che doveva emancipare nei loro diritti e nella dignità. E allora, forse perché viviamo un tempo eccentrico, dove una certa carenza di idee conduce ad abbassare l’età di chi si offre a libri di memorie, ecco, il fatto che un uomo anziano abbia continuato a donare analisi, dubbi, scenari, a me pare un merito che è giusto riconoscere.

 

Come infine oggi – qui – è giusto ricordàte il suo sguardo sulla realtà per come gli cambiava attorno. Lo ha fatto davvero sino all’ultimo. E anche questo non è stato un caso se è vero che più volte, in questi anni difficili, ha confidato l’angoscia che provava per le sorti del Paese. Per quello che giudicava l’abbandono culturale, colpevole, del Mezzogiorno. Per i destini di una sinistra che ancora nelle ultime frasi pubbliche era rimasta al centro della sua cura. Al fondo quella formula, solo in parte compresa, di un «partito per la Nazione» a quello alludeva. A una forza radicata, consapevole dell’interesse generale del Paese prima e oltre gli stessi interessi di classe o di parte. «È l’Italia nel mondo con tutta la sua civiltà che va ripensata». E di seguito «Anch’io avverto il rischio di Weimar. Crisi sociale e democratica si alimentano a vicenda e sono le fratture profonde della società a delegittimare le istituzioni democratiche». Fino alla chiusa «Non sarà la logica oligarchica a salvare l’Italia. È il popolo che dirà la parola decisiva».

 

Il Popolo. Perché, come non si è stancato di ricordarci, la sinistra un popolo non lo ha trovato, ma lo ha cercato e costruito. Parole di una settimana fa e forse il lascito – il testamento politico – di un Padre della Repubblica. Di una mente aperta e libera della sinistra che sarebbe ingiusto annoverare sotto le insegne di una parte sola. Perché alla sinistra nella sua matrice più ampia Alfredo ha rivolto i suoi ammonimenti, anche quelli più severi. E anche per questo, credo, la sua scomparsa ha generato un senso di perdita oltre i perimetri e le divisioni dell’oggi.

 

A noi rimane la struttura di pensieri alti e liberi dal ricatto dell’istante. Assieme allo stile nel porgere che fosse scrittura o parlato senza mai sacrificare un concetto, ma anche senza mai sciupare un aggettivo. Non è stata quella eleganza solo rispetto verso chi aveva davanti: fosse un singolo o una platea spesso numerosa. Mi piace pensare che anche quella raffinatezza fosse figlia di una civiltà politica maturata nelle peripezie di quella sua generazione costretta a vivere, e governare assieme, la grandezza e le tragedie del ‘900. Forse è stata quella civiltà che ha consentito a uomini come Alfredo – come il Presidente Napolitano, Aldo Tortorella e altri – di conoscere differenze anche profonde dentro le forze nelle quali hanno militato, ma tornando sempre a quel senso di appartenenza a una comunità che stamane Emanuele Macaluso ha rammentato nel suo ricordo dell’amico fraterno.

 

Ad altri, come noi, venuti dopo rimangono le tracce di chi è stato una guida e un Maestro per tanti. «Ma lei sente di essere stato un leader mancato?», gli è stato chiesto in una conversazione di qualche tempo fa. E lui di rimando, «I numeri uno sono rari come la neve d’estate. Della politica ho amato più l’intelligenza che l’azione. E per questo oggi dei problemi posso parlare con la libertà di un novantenne». E ancora il giornalista: «Ma c’è una virtù che rivendica?». «Quella di ragionare. L’analisi è tutto. Fu una cosa che appresi da Togliatti». Parole come stonate in un’epoca di certezze scolpite e toni inutilmente gridati? Forse. Ma forse anche no. Perché al fondo sono uomini come Alfredo per la loro umanità, passione, senso della storia che più facilmente sanno comprendere il mondo. E magari intuire le condizioni più giuste per poterlo cambiare, Di questo oltre che di molto altro noi gli siamo debitori. E per questo gli siamo e gli saremo grati.

Grazie, caro Alfredo. Grazie caro Maestro.

Grazie caro Compagno.

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