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Veltroni: Terracina, il testimone sopravvissuto al lager

Non ho mai sentito pronunciare a Piero Terracina parole di odio. Mai. Era una persona dolce e generosa, piena di premure per gli altri e di un’altissima coscienza del valore della dignità umana.

Lui, e gli altri che hanno vissuto l’inferno della storia, avrebbero potuto odiare. Ma sapevano, sanno, che proprio l’odio ha generato il loro interminabile dolore.

L’odio, il nemico della libertà e della vita. «Una mattina andai a scuola come tutti gli altri giorni, tranquillo. La maestra a cui volevo bene e che mi voleva bene mi disse di non entrare. “Terracina tu resti fuori”. Chiesi perché. “Sei ebreo”». Aveva 10 anni, quel giorno, Piero Terracina. Un bambino, solo un bambino. Era l’inizio del suo inferno.

Quello che lo avrebbe portato, a soli 15 anni, a conoscere l’orrore della deportazione sua e della sua famiglia. Furono fatti salire sui treni piombati sua sorella Anna e i suoi fratelli Leo e Cesare. Piero era il più piccolo, Anna aveva 7 anni più di lui. C’erano mamma Lidia e papà Giovanni. E poi lo zio Ame- deo, il nonno Leone. Una famiglia, tutta intera.

Quando andavamo con i ragazzi delle scuole ad Auschwitz Piero si metteva a metà del binario sul quale arrivavano i treni piombati. E richiamava impietosamente a sé il suo dolore, le immagini di quei minuti indimenticabili, il distacco da chi amava. Piero lo aveva visto, il dottor Mengele, indicare, con un solo movimento, chi poteva vivere, almeno un po’, e chi doveva morire, subito. Lo faceva con un pollice che si alzava e si abbassava.

Un gesto che era nato al Colosseo e che ora è tornato, inopinatamente, di moda. Piero a un certo punto della sua vita, dopo la profanazione di un cimitero ebraico, ha deciso di cominciare a raccontare. Non aveva parlato per decine di anni, come tanti sopravvissuti che non riuscivano a farlo.

Ho conosciuto due deportati, marito e moglie, che non parlavano neanche tra loro dell’esperienza vissuta nel campo. Piero non ha più smesso di raccontare. E sono migliaia i giovani che ha incontrato, che ha reso «testimoni di secondo grado», con i quali ha condiviso lacrime e dolore, coscienza del senso della storia e impegno a combattere intolleranza e razzi- smo. Ogni volta per lui era uno strazio. L’ho sentito raccontare piangendo il suo calvario nelle scuole, nella neve di Birkenau, a ragazzi tedeschi in Germania, a giocatori di squadre di calcio, a bambini piccoli come era lui, «quel giorno».

Gli avevano impresso un numero sul braccio. Gli avevano cancellato il nome. Gli avevano tolto la famiglia, gli avevano schiantato l’adolescenza, lo avevano portato a un passo dalla morte, 38 chili. Una volta ho chiesto a Shlomo Venezia, un altro dei sopravvissuti, quando avesse smesso di avere gli incubi. «Mai» mi aveva risposto. Piero tornava sempre sull’orrore dell’appello nel campo che, se non tornava il numero dei «pezzi», poteva durare ore. Con la pioggia, la neve, la paura addosso.

Era quello, il suo incubo. Nulla è paragonabile, nella storia umana, alla Shoah. Per questo sono intollerabili i negazionismi, i revisionismi, la riproposizione dei simboli della pagina più scura del cammino dell’umanità.

Le croci uncinate e l’odio per gli ebrei che vengono di nuovo esposti in tanta parte di questo mondo confuso e deprivato di memoria, sono, diciamoci le cose chiaramente, inni agli assassini di milioni di esseri umani, sono elogi delle camere a gas. Piero era preoccupato del ritorno dei sentimenti e delle parole che avevano straziato la sua vita. Gli sembrava che ci fosse una sottovalutazione. Lui, bambino nel ’38, sapeva che «fu allora, fu nel ’38, che iniziò la discesa nell’abisso di Auschwitz.

Giorno dopo giorno, oggi una legge, domani un’altra, ci avvicinavamo sempre di più alle camere a gas e ai forni di Auschwitz». Le parole sono importanti. Ci sono momenti della storia in cui ciò che era impronunciabile, per ragioni etiche o semplicemente per umanità, improvvisamente viene sdoganato. E allora, su gradini di parole, si comincia a discendere verso l’inferno. Fu preparata da parole, quelle della «Difesa della razza», la cacciata di Piero bambino dalla sua scuola.

Piero aveva paura del ritorno di questo clima. Un giorno, poco tempo fa, mi ha scritto: «Adesso cosa accadrà? Non mi preoccupo per me che sono quasi arrivato al traguardo, ma per le nuove generazioni alle quali ho dedicato gli ultimi trent’anni della mia vita raccontando la mia storia per metterli in guardia dai nuovi duci. E invece oggi mi sembra che nuovi duci stiano nascendo. Dimmi per favore il tuo pensiero. Spero che qualche tua parola riesca a tranquillizzarmi».

Non sono stato in grado di farlo, perché la sua paura è la mia. Perché la storia ci ha insegnato che l’orrore può ripetersi. Esiste un solo antidoto a disposizione di ciascuno di noi. Il resto ha a che fare con la saggezza dei governanti, la giustizia degli assetti sociali, la volontà di dialogo dei potenti della terra. A noi, a ciascuno di noi, spetta il potere di salvaguar- dare la memoria.

Che non è solo quella del computer che ormai racchiude le nostre vite. È la coscienza del cammino umano, delle tragedie e degli errori. Hitler arrivò al potere con il voto dei tedeschi e quando Mussolini annunciò l’entrata in guerra in tutta Italia si esultò. La consapevolezza del Novecento, il secolo ignorato nelle scuole di ogni ordine e grado, ci può far rifiutare il razzismo e la guerra, restituendoci un dolore che è stato vissuto dai nostri nonni o dai nostri padri. Piero aveva un amico del cuore, anzi un fratello, che si chiama Sami Modiano. A lui ho pensato ieri mattina, quando mi è arrivata la notizia che temevo. Li ho visti spesso tenersi la mano, come avevano fatto quando, ambedue ragazzi, negli ultimi giorni di Auschwitz, si sorreggevano, per sopravvivere. Fratelli del dolore e fratelli del racconto.

Sami ora soffre ma sono certo che continuerà a raccontare, a testimoniare. E lo farà moltiplicando la sua fatica, lo farà anche per suo fratello Piero. Perché solo gli esseri umani che sanno essere fratelli, che non odiano, che accettano e rispettano ogni differenza, vivono la vita vera. Il resto è fiele, rancore, odio. È vita infelice. La vita di Piero è stata un inno alla memoria e alla vita. Così, ripensando al nostro affetto, voglio ricordarlo.

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