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Minniti: “Roma nel mirino della propaganda dell’Isis”

«Sono qui per gli affari correnti, ma le segnalo che in questo posto non ce ne sono…». Seduto dietro la scrivania di quello che per sedici mesi è stato il suo ufficio dove resterà il tempo ancora necessario a passare leconsegne a chi, in un nuovo Governo, sarà indicato come il suo successore, il ministro dell’Interno Marco Minniti sorride di una battuta che fotografa una transizione e ore complicate. È appena rientrato da una riunione del Comitato di analisi strategica antiterrorismo.

 

Dice: «La realtà scoperchiata a Foggia e che sarà ancora più chiara in queste prossime ore per ragioni di cui ora non posso discutere, dicono che la minaccia del terrorismo islamico non solo è cogente e costante, ma ci accompagnerà per un periodo non breve. E sottolineo, non breve. Il quadro che abbiamo è cambiato. Da almeno quattro, cinque mesi, in Rete, è ripresa con forza la propaganda dell’Isis che invita a guardare Roma come obiettivo fortemente simbolico della campagna del terrore. E nel momento in cui Islamic State ha perso dal suo orizzonte, perché sconfitto militarmente, l’obiettivo strategico di farsi Stato e Califfato mondiale, resta solo la leva terroristica. A questo proposito, ci sono tra i 25 e i 30 mila foreign fighters che, di fronte a una rotta militare, si preparano a una diaspora individuale verso l’Europa che, necessariamente, sfrutterà le rotte rimaste aperte. Dunque,
quella del Mediterraneo centrale. Il che pone l’Italia in una posizione ancora più cruciale e indica il controllo dei confini libici, settentrionali e meridionali, come una priorità della nostra sicurezza nazionale. E tutto questo, per non parlare dei lupi solitari. Campioni di quel terrorismo molecolare autoradicalizzato figlio del seme della propaganda digitale, del malware di Daesh, rispetto ai cui danni nessuna diagnosi è ancora possibile e che, come dimostraanche l`attacco a Carcassonne, si manifesta sempre quando è troppo tardi».

 

Lei ha sempre insistito sulla necessità che la Politica non parli il linguaggio della paura. Non crede che il quadro che ora delinea contribuisca ad alimentarlo?

«Continuo a pensarla nello stesso modo. E proprio per questo, ora che il voto del 4 marzo è passato, auspico un collettivo e sincero bagno democratico di tutte le forze politiche che sottragga termini come terrorismo, migrazione, sicurezza, libertà, al chiasso della propaganda. Auspico che chi siederà qui al mio posto voglia convenire non solo sul quadro che abbiamo di fronte, sulla sua complessità, sulla natura della minaccia, ma sul fatto che le questioni che passano da questo ministero debbano essere sottratte non alla politica, ma a una sua idea partigiana o
propagandistica. Il ministero dell’Interno è per sua natura “terzo”. E delle buone politiche sono un patrimonio dell’Italia. Non del governo X o Y. Soprattutto, auspicherei che chi arriverà qui non venga colto dalla cosiddetta “sindrome da anno zero”, quella per cui si butta tutto ciò che si è fatto per dare l’impressione che cominci una nuova stagione».

 

Vorrebbe che il “modello Minniti” le sopravviva politicamente, insomma.

«La mia persona non ha alcuna importanza. Mi piacerebbe che si prosegua su una strada che ha immaginato la nostra sicurezza nazionale come un sistema di politiche integrate che tengono insieme la prevenzione, il governo dei flussi migratori, e la questione dell’Africa centrale e settentrionale come parti inscindibili. Vorrei che non ci si rassegni all’idea che sicurezza e libertà, sovranità nazionale ed entità sovranazionali, che le politiche di Roma e Bruxelles, per dirla in altro modo, siano termini inconciliabili. Auspico che l’Italia rimanga una democrazia e una società aperta, come è nella sua natura, nella sua storia e direi nel suo destino. E auspico che l’Europa possa continuare a guardare l’Italia come un Paese che su questioni cruciali e di portata globale come terrorismo, governo dei flussi migratori, questione africana, non aspetta che qualcuno faccia per lei, ma coltiva modelli in grado di costruire il consenso e nuove politiche degli Stati membri. Insomma, e solo per dirne una, che il blocco di Visegrad abbia deciso di aderire alla cooperazione con i Paesi dell’Africa subsahariana lo considero un successo dell’Italia. E un patrimonio da non disperdere».

 

Le sue politiche hanno diviso un pezzo della sinistra e sollecitato anche le critiche di parte dell`opinione pubblica internazionale che accusano l’Italia di aver semplicemente spostato più a sud i propri confini tollerando la violazione di diritti umani in Libia.

«Rispetto ogni punto di vista. E non mi nascondo né le fragilità, né l’inaccettabilità di quello che ancora accade in Libia. Ma se sedici mesi fa qualcuno avesse detto che avremmo avuto la presenza dell’Unhcr o dell’Oim sulle coste libiche, che il nostro Paese avrebbe inaugurato un corridoio umanitario, che aiuti italiani avrebbero raggiunto città libiche sin lì governate da trafficanti di esseri umani, che sarebbero calati arrivi e morti in mare, che il nostro modello di prevenzione, come hanno dimostrato le circostanze in cui è stato intercettato Anis Amri, e le operazioni di questi giorni, avrebbe dimostrato che il prezzo da pagare non è stata una condizione di eccezione allo stato di diritto, forse pochi ci avrebbero scommesso. È la dimostrazione che non c’è nulla di immutabile. E soprattutto che terrorismo e migranti richiedono un governo della testa e non della pancia».

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