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Minniti: “Una task force digitale per difenderci dagli hacker”

“Thinking fast and slow” è il libro che Marco Minniti tiene sulla sua scrivania al Viminale. Un saggio del premio Nobel Daniel Kahneman che spiega «perché a volte agiamo d’istinto e altre volte dopo attenta riflessione». Sulla cybersicurezza, alla vigilia del G7 dei ministri dell’Interno che si apre oggi a Ischia sotto la presidenza italiana, per Minniti è il momento di «pensare e agire velocemente» per fronteggiare tre minacce.
 
La forza di Isis sulla Rete, la possibilità che i reduci j dello Stato islamico in rotta arrivino sulle nostre coste e, infine, i possibili condizionamenti sulle nostre elezioni. «Sulla cybersecurity abbiamo messo in piedi una grande infrastruttura protettiva per difenderci. Non ci saranno condizionamenti alle elezioni».
 
Perché il nemico è ancora molto forte ed è proprio il Web, dopo la caduta di Mosul e Raqqa, le capitali fisiche dello Stato islamico, l’ultimo terreno di scontro con il jihadismo.
 
Questo G7 si apre a poche ore dalla caduta di Raqqa, la capitale dello Stato Islamico. È davvero finita?
 
«In effetti, quando l’abbiamo convocato, non potevamo immaginare che Ischia sarebbe stato il primo evento internazionale in cui i sette grandi si trovano a discutere tra loro della guerra al terrorismo dopo la fine militare e territoriale di Islamic State. E sappiamo quanto avere un territorio sia stato importante per Is, la prima organizzazione terroristica della storia a farsi anche Stato. Con la caduta di Raqqa, dopo “appena” tre anni dalla proclamazione del Califfato, questo aspetto è chiuso».
 
Dunque la guerra è vinta?
 
«Islamic State ha subito un drammatico rovescio militare ma non è sconfitto, non ancora. Con la liberazione di Raqqa non viene meno la sua capacità di attività terroristica e la sua irriducibile sfida alle democrazie e al mondo intero».
 
Per paradosso è possibile che i combattenti islamici di Raqqa diventino per noi, per le nostre città intendo, ancora più pericolosi adesso che non hanno un luogo “fisico” dove organizzarsi?
 
«Il rischio non aumenta e non diminuisce, non siamo di fronte a vasi comunicanti: tanti se ne vanno da lì e tanti vengono da noi. Le cose non sono così semplici. Non dimentichiamoci che nel 2016, ben prima che cadesse Mosul, abbiamo avuto quello che è stato definito come il “Ramadan di sangue”. Il problema è un altro».
 
Owero?
 
«Uno degli elementi fondamentali di Islamic State era la capacità di contare sulla più grande legione straniera che sia mai stata messa in piedi in era moderna. Parliamo di 2530 mila combattenti provenienti da 100 paesi del mondo. Una parte di questi è sicuramente morta, non abbiamo più a che fare con quei numeri. Ma una parte tenterà di tornare a casa. E questo uno dei temi che discutiamo al G7».
 
Tornano a casa mischiandosi ai migranti? C’è questa possibilità?
 
«Dobbiamo distinguere un prima e un dopo. Prima del collasso territoriale di Islamic State era difficile che utilizzassero i flussi migratori per infiltrare delle cellule per un attentato terroristico» Troppo rischioso?
 
«Esatto, non vai a rischiare che un tuo asset prezioso, una cellula di combattenti addestrati, finisca su un barcone che affonda in mezzo al Mediterraneo. Ma adesso è diverso, c’è un cambiamento importante. Adesso stanno scappando, sono in rotta e c’è la fuga individuale. Una diaspora che può certamente utilizzare anche le rotte aperte del traffico di esseri umani».
 
Forse adesso qualcuno in Europa ascolterà l’Italia?
 
«In questi mesi abbiamo sempre detto a tutti che il confine meridionale della Libia è il confine Sud dell’Europa, è da lì che possono passare questi foreign fighters di ritorno dai campi di battaglia in Siria e Iraq. E un tema cruciale, ma siamo ottimisti sul fatto che ora le nostre parole abbiano fatto breccia. Il controllo comincia a funzionare, in Italia abbiamo un meno 25% di arrivi e dal confine meridionale della Libia siamo a meno 35%. C’è un rapporto che si sta consolidando con Ciad, Niger e Mali. Anche di questo parleremo domani al vertice, perché l’obiettivo di tutti è che non ci siano in Africa settentrionale dei “safe havens”, dei santuari per i terroristi. Lavoriamo a più livelli e iniziano ad ascoltarci, non a caso il testimone del G7 sarà ripreso a novembre a Berna con la riunione del gruppo di contatto Ue – Nord Africa».
 
Alcuni di questi terroristi di ritorno saranno catturati, cosa farne?
 
«Infatti, non è solo un problema di sicurezza. C’è da mettere in campo un grande progetto di deradicalizzazione. Questi giovani hanno combattuto, ma molti si sono anche fatti una famiglia, ci sono dei minori coinvolti, i loro figli. A Ischia parleremo di questo e l’Italia, grazie al patto con l’Islam che abbiamo siglato mesi fa, può dire la sua. La deradicalizzazione è più facile se puoi contare su un’alleanza tra le istituzioni e le associazioni che rappresentano la maggioranza del’Islam italiano».
 
La novità di questo G7 è che di fronte a voi saranno seduti anche i rappresentanti dei Big Provider internazionali: Google, Twitter, Facebook, Microsoft. Cosa vi aspettate da loro visto che finora non hanno collaborato molto…?
 
«Islamic State è un’organizzazione capace di tenere insieme un arcaicità delle regole e un’assoluta modernità e spregiudicatezza nell’utilizzo della Rete. Internet è stato il loro principale strumento di affermazione nel mondo, è responsabile di oltre il 70 per cento delle conversioni al radicalismo, è fondamentale per il reclutamento, per l’addestramento “virtuale”, per il potere di emulazione, oltre ovviamente che per la propaganda».
 
Va bene, ma come convincere i big di Internet a mettere un freno a tutto questo?
 
«Intanto è già un segnale importante che siano venuti in Italia, prima questa consapevolezza non era scontata. Il nostro obiettivo è una grande alleanza fra governi e provider contro il terrorismo. Bisogna trovare il modo di intervenire senza mettere in discussione la grande apertura democratica consentita dai social e dall’accesso alla Rete».
 
In concreto come si fa?
 
«Io penso che si debba studiare con loro un sistema di blocchi automatici di questi contenuti. Tecnicamente è possibile. Islamic State ha utilizzato il web e l’ha contaminato con un “malware del terrore”. I provider ci devono aiutare a bloccare questo “malware” con un antivirus automatico. Non vogliamo imporre nulla, per avere successo serve uno spirito collaborativo».
 
L’altra grande minaccia alle democrazie viene dagli attacchi, spesso organizzati da potenze straniere, che colpiscono sia le aziende sia i processi elettorali. Il primo pensiero è quello che è avvenuto negli Stati Uniti con l’elezione di Tru m p. Da noi si vota tra pochi mesi, siamo difesi?
 
«Dopo la direttiva Monti del 2013 adesso abbiamo la direttiva Gentiloni sulla cyberdefense. Uno scudo basato su tre pilastri, che compongono la risposta unitaria del sistema paese. Il più importante ovviamente è la prima linea costituita dall’Intelligence, dalle Forze armate, dalla Polizia postale e dal Dis che coordina il tutto».
 
E poi?
 
«Pochi lo sanno ma abbiamo messo in piedi un’alleanza con il mondo dell’accademia, abbiamo costruito un rapporto con 500 docenti italiani e un elevato numero di facoltà che ci tengono aggiornati».
 
Cinquecento sentinelle?
 
«Sentinelle no, ma ci aiutano con la loro elaborazione teorica».
 
E poi?
 
«Stiamo puntando su giovanissimi cervelli. Selezioniamo un’avanguardia digitale anche prima dell’ingresso all’università, perché il rapporto con il web, come è noto, è inversamente proporzionale all’età».
 
E tutto questo basta? Lei è sicuro?
 
«Non siamo al momento a conoscenza di elementi di minaccia, non c’è nulla che ci faccia pensare che le elezioni politiche possano essere condizionate. Ma la nostra, come dicevo, non è una tranquillità “statica”, abbiamo un’infrastruttura protettiva».
 
Il prossimo week end invece si vota in Lombardia e Veneto sui referendum autonomisti voluti dalla Lega. Visto l’esempio della Catalogna, non c’è il rischio di un’escalation che possa mettere in crisi l’unità nazionale?
 
«Non sono referendum secessionisti, i quesiti sono del tutto compatibili con la Costituzione. Tanto che le Regioni interessate hanno stipulato un protocollo di cooperazione con il ministero dell’Interno. Si può ovviamente non essere d’accordo con il contenuto, ma nei referendum non c’è nulla che evochi una minaccia all’unità del paese».
 
Mentre l’intervista si conclude, sul grande schermo alla destra del ministro scorrono le immagini dell’assassinio a Malta della giornalista Daphne Caruana Galizia. Minniti non si pronuncia sulle indagini, se ha un’idea su chi abbia piazzato la bomba se la tiene per sé. Ma ci tiene a dire che «è una morte sconvolgente che interroga l’Europa intera. E le autorità maltesi devono dare una risposta intransigente a questo omicidio, perché non si tratta di un fatto nazionale: è una sfida aperta ai principi fondamentali su cui si regge l’Europa».

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